Sentenza Cassazione Sezione Prima Penale 3 febbraio 2020, n. 4373 – Tentato omicidio attenuante provocazione

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CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA PENALE Sentenza 3 febbraio 2020, n. 4373

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. BONI Monica – Presidente –
Dott. TALERICO Palma – Consigliere – Dott. DI GIURO Gaetano – Consigliere – Dott. ALIFFI Francesco – Consigliere – Dott. CAIRO Antonio – rel. Consigliere – ha pronunciato la seguente:

sul ricorso proposto da:

K.E., nato il (OMISSIS);

SENTENZA

avverso la sentenza del 02/10/2018 della CORTE APPELLO di BOLOGNA;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. ANTONIO CAIRO;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dott. ZACCO Franca, che ha concluso chiedendo Il PG conclude chiedendo il rigetto del ricorso.

udito il difensore:

L’avvocato CANURI FABRIZIO, del foro di MODENA in difesa di K.E., conclude chiedendo l’accoglimento del ricorso;

L’avvocato POGGI FILIPPO, del foro di FORLI’ in difesa di K.V. IN PROPRIO ED IN QUALITA’ DI GENITORE ESERCENTE LA POTESTA’ SUI FG. MIN. K.B. E BU. conclude chiedendo la conferma della sentenza impugnata ad eccezione del capo a) per il quale chiede un annullamento con rinvio alla Corte di Appello di Bologna. Deposita conclusioni e nota spese.

Svolgimento del processo

La Corte d’appello di Bologna, con sentenza in data 2/10/2018, confermava la decisione emessa dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Forlì che –

all’esito del giudizio abbreviato- aveva condannato K.E. alla pena di anni otto mesi otto di reclusione, giudicandolo colpevole del tentato omicidio della moglie, K.V., del suo sequestro di persona e della fattispecie di maltrattamenti in famiglia e di minaccia grave nei confronti di G.B..

Riteneva, innanzitutto, l’anzidetta Corte d’appello la sussistenza del delitto di omicidio tentato, nei confronti di K.V..

L’uomo l’aveva afferrata per i capelli, l’aveva trascinata fino alla stanza da bagno e lì le aveva versato acido muriatico sul capo e sul volto e aveva tentato di farle ingerire la sostanza, contenuta nella bottiglia. Indi, aveva preso un coltello e l’aveva colpita al volto, agli zigomi e alle palpebre.

L’evento non si era verificato per l’intervento dei vicini che avevano interrotto l’azione e indotto K. ad abbandonare il proposito.

Erano ritenute le circostanze aggravanti dell’aver commesso il fatto in presenza dei figli minori, quella della premeditazione e dell’aver agito con crudeltà.

Ancora, erano ritenuti provati il delitto di sequestro di persona, avendo il K. prelevato i figli minori, per portarli in Svizzera con sè e quello di maltrattamenti verso la moglie, oltre che di minaccia aggravata verso il compagno della donna, G.B., al quale l’imputato aveva rivolto la minaccia grave di morte, rappresentando che gli avrebbe fatto ciò che aveva già posto in essere in danno della donna.

La Corte d’appello riteneva corretta la qualificazione del fatto e la ritenuta fattispecie del tentato omicidio sussistendo l’idoneità delle condotte.

Quanto alla premeditazione, al pari ritenuta, il Giudice territoriale valorizzava le affermazioni ironiche sull’acido, acquistato dalla donna circa un mese prima. In quella circostanza K. aveva anticipato che gli sarebbe servito; così come aveva già fatto parlando della presenza dei coltelli in casa.

Escludeva, infine, la Corte territoriale la possibilità di riconoscere le circostanze attenuanti generiche e la provocazione, ritenendo esistente il fatto di maltrattamenti e stimando adeguata la pena inflitta.

2. Ricorre per cassazione, K.E., con il ministero del suo difensore di fiducia avv.to Benini e deduce quanto segue.

2.1. Con il primo motivo lamenta il vizio di motivazione, in relazione agli artt. 56 e 575 c.p..

La Corte territoriale aveva ritenuto esistente il tentativo di omicidio, osservando che la condotta posta in essere era stata idonea e diretta in modo non equivoco a provocare la morte della persona offesa.

Non aveva, tuttavia, considerato il Giudice a quo che dall’esame del consulente tecnico era emerso che l’ingestione di acido muriatico sarebbe stata idonea a provocare il decesso solo se fosse stata in quantità notevolmente elevate. Nella

specie, al contrario, l’assunzione dello 0,5 % non avrebbe avuto oggettiva idoneità a produrre l’evento.

Egualmente l’uso del coltello sul volto della donna aveva attinto un distretto corporeo che non avrebbe potuto produrre il decesso. L’azione aveva colpito una parte non vitale del corpo e non aveva interessato organi interni.

Del resto, se l’imputato avesse inteso effettivamente produrre l’evento morte avrebbe utilizzato il coltello in maniera diversa, colpendo all’addome e non al volto.

Lo scopo dell’azione era quello di spaventare la moglie e di punirla inducendola a interrompere la relazione extraconiugale e a farle riprendere il rapporto familiare.

2.2. Con il secondo motivo si duole il ricorrente del vizio di illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta premeditazione e all’aggravante dell’aver commesso il fatto con crudeltà.

La sentenza impugnata risultava viziata, poichè nella specifica vicenda non ricorreva un’ipotesi dolo di premeditazione, ma di dolo d’impeto.

L’imputato, chiamato dal figlio aveva fatto rientro dalla Svizzera; appurata l’effettività della relazione extraconiugale della moglie, aveva reagito con la violenza, al fine di indurre K.V. a cessare dal comportamento in atto.

Non vi era stata sedimentazione del proposito delittuoso, nè riflessione tipica della premeditazione, ma impeto indotto dalla presa d’atto della condotta della donna che continuava a tenere una relazione in costanza di matrimonio.

Quanto alla crudeltà la circostanza aggravante era stata ritenuta erroneamente.

Essa non si riferiva, infatti, alla condotta di tentato omicidio e non era stata posta in essere, al fine di indurre abnormi e superflui patimenti, ma al più stava nei mezzi impiegati sorretti dal fine di spaventare e punire la donna.

2.3. Con il terzo motivo si censura il ragionamento con cui erano state negate le circostanze attenuanti generiche e si era esclusa anche la prevalenza di esse sulle aggravanti.

La sentenza impugnata non aveva, infatti, riconosciuto il significato dell’intervenuto risarcimento del danno, sia pur in termini parziali (5000 Euro) elemento che avrebbe permesso di riconoscere le invocate circostanze attenuanti generiche.

2.4. Con il quarto motivo si lamenta il mancato riconoscimento della circostanza attenuante della provocazione di cui all’art. 62 c.p., n. 2.

La relazione extraconiugale della donna aveva realizzato un accumulo di carica di esasperazione, esplosa in occasione del rientro e dell’avvenuta presa d’atto del fatto che la relazione stessa continuasse. Era configurabile, pertanto, la provocazione, anche per accumulo, protraendosi oramai da tempo quella situazione ed essendo l’imputato stato sollecitato anche dal figlio a trovare una soluzione alla vicenda che

aveva reso intollerabile il rapporto familiare.

2.5. Con il quinto motivo si deduce l’eccessiva onerosità del trattamento sanzionatorio. Il giudice territoriale aveva omesso di contestualizzare le condotte e non le aveva inquadrate nel difficile contesto familiare da cui avevano tratto scaturigine. Il fatto era stato commesso da un soggetto incensurato ed era frutto di un dolo d’impeto, con la conseguenza che il trattamento sanzionatorio si sarebbe dovuto contenere in margini meno severi.

3. Con distinto atto di impugnazione, con il ministero dell’altro difensore, avvocato Fabrizio Canuri, ricorre per cassazione K.E. e deduce quanto segue.

3.1. Con il primo motivo lamenta l’erroneità nell’applicazione dell’art. 56 c.p.. Si era in sostanza riferito il concetto di idoneità non agli atti, ma ai mezzi utilizzati per commettere il delitto.

Il giudice di merito aveva ritenuto l’idoneità degli atti arrestando la valutazione al profilo intrinseco. Nel ragionamento della Corte territoriale dal pericolo concreto, su cui era fondato il tentativo, si era passati al pericolo cd. astratto. Egualmente non risolutive erano le ipotesi su cosa sarebbe potuto succedere se la vittima avesse urtato la tempia contro un mobile o se fosse stato affondato il coltello con una forza maggiore.

Nella specie, infatti, faceva difetto il requisito di idoneità degli atti e, in difetto di esso presupposto, sarebbe stato inutile passare all’esame del profilo di non equivocità di essi.

3.2. Con il secondo motivo si censura l’illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta premeditazione.

In realtà si era trattato di un’azione totalmente improvvisata, priva di una predisposizione di modalità esecutive funzionali al delitto. Al più si sarebbe potuta configurare la preordinazione del reato, ma non la sua premeditazione.

3.3. Con il terzo motivo si lamenta la ritenuta fattispecie di reato di sequestro di persona di cui al capo 3.

Il capo, pur non avendo costituto oggetto di gravame, non determinava inammissibilità del motivo di impugnazione, trattandosi di un tema totalmente privo di motivazione.

Si sarebbe, dunque, dovuto procedere ad annullamento di esso. Motivi della decisione

1. Le doglianze sono manifestamente infondate e, per certi versi, proposte fuori dai casi ammessi e devono essere dichiarate inammissibili.

1.1. La prima questione dedotta con i due ricorsi ripropone quanto si era già sviluppato con l’atto di appello e la critica contenuta nell’impugnazione non si

confronta con la motivazione della sentenza. Ciò sia per l’aspetto inerente il concetto di idoneità del tentativo, sia per l’affermata erroneità nell’applicazione dell’art. 56 c.p., che sarebbe stato riferito non al parametro dell’idoneità degli atti, ma a quello dei mezzi utilizzati per commettere il delitto.

Il tutto ovviamente in funzione della qualificazione giuridica del fatto e della possibile derubricazione della condotta nel delitto di lesioni.

La Corte territoriale, tuttavia, affronta con motivazione adeguata la questione e ritiene sussistente il delitto di omicidio tentato, per idoneità e non equivocità degli atti, diretti a cagionare la morte della donna, evento non verificatosi per cause indipendenti dalla volontà dell’agente.

Nell’attuazione della dinamica esecutiva, si apprende dalla lettura della sentenza, vi furono diversi fattori interferenti che incisero sulla libera esecuzione del fatto e che, in definitiva, costrinsero il K. a desistere e ad allontanarsi per cause indipendenti dal suo volere.

Si trattò di un volere fortemente determinato e diretto, in maniera assolutamente univoca, a produrre l’evento.

Il dato è attestato, secondo i Giudici territoriali, da più elementi e, in primo luogo, si annota, dalla condotta di schiacciare la bottiglia dell’acido sul viso della donna nel tentativo di farle ingerire la maggior quantità possibile di sostanza, iniziativa che fu ostacolata inizialmente dalla sola strenua opposizione della vittima che, resistendo, aveva in ogni modo tentato di contrastare il gesto. Ancora, K.V. aveva evitato di essere attinta anche da fendenti che potessero colpirla in maniera più grave di quanto era accaduto.

In questo contesto d’aggressione, dunque, solo il sopraggiungere, in un secondo momento, dei vicini di casa, attirati dalle urla della donna, evitava un epilogo mortale e induceva il K. a desistere dall’azione.

Nè risulta decisivo il riferimento alla quantità di acido ingerita dalla donna, proprio perchè l’idoneità degli atti, non prescinde in assoluto da quella del mezzo utilizzato per commettere il fatto, che finisce obiettivamente per connotare un aspetto peculiare del dinamismo attuativo della condotta.

La Corte territoriale ha, con giudizio immune da ogni censura, richiamato la relazione del RIS di Parma da cui si evinceva che la sostanza conteneva acido cloridrico in una percentuale potenzialmente micidiale, che si aggirava intorno allo 0,5%. Si trattava, osservano logicamente i Giudici del merito, di una quantità critica, in grado di produrre danni irreversibili, specie in assenza di terapie medico sanitarie antagoniste rispetto alla possibile e conseguente azione ulcerosa, emorragica e perforante che l’ingestione della sostanza avrebbe naturalmente prodotto.

Nè colgono nel segno i rilievi sulla non idoneità del tentativo posto in essere, relativamente ad altra parte dell’azione commissiva, avuto riguardo al distretto corporeo attinto, attraverso l’impiego del coltello.

Si tratta, infatti, come correttamente ritenuto, di un’area vitale, attraversata da vasi sanguigni importanti e che, attraverso le cavità orbitarie, avrebbe permesso di attingere, con quello strumento lesivo (un coltello con lama di 14 cm) anche la massa encefalica, se non vi fosse stata una ferma resistenza della donna e un continuo e disperato movimento, funzionale al divincolarsi dall’azione.

D’altro canto, il giudizio sull’idoneità degli atti è un giudizio caratterizzato da una valutazione di cd. prognosi postuma e che si opera ex ante e in concreto, rapportandosi al momento dell’azione e non valutando l’idoneità degli atti stessi, in funzione del mancato verificarsi dell’evento, prospettiva che renderebbe fallace l’indagine e “inidoneo” (nel senso voluto dall’art. 56 c.p.) ogni delitto tentato.

La valutazione da compiere non è, pertanto, influenzata dal risultato naturale dell’azione, nè si giudica ab exitu. Rileva, piuttosto, l’idoneità causale degli atti compiuti per il conseguimento dell’obiettivo delittuoso nonchè l’univocità della loro destinazione, da apprezzarsi, come anticipato, con valutazione “ex ante” in rapporto alle circostanze di fatto ed alle modalità della condotta (Sez. 5, n. 7341 del 21/01/2015, Sciuto, Rv. 262768), come correttamente ha fatto la sentenza di merito.

Nè valgono le obiezioni sull’assenza del dolo d’omicidio per sorreggere la prospettazione secondo cui l’intenzione del K. sarebbe stata quella di ledere e non di uccidere.

Sul punto la sentenza di merito, oltre ad aver spiegato, contrariamente a quanto dedotto, perchè vi fosse dolo omicida, addirittura nella massima graduazione della premeditazione, ha annotato come valorizzassero detta ricostruzione la reiterazione delle condotte d’aggressione nei confronti della donna. Si trattava, invero, di un indicatore che escludeva in nuce la possibilità di pensare ad una mera azione lesiva, in funzione dimostrativa e dissuasiva come indicato in ricorso, e finalizzata a far interrompere a K.V. la relazione extraconiugale in atto.

La dura e violenta azione verso la donna, costrittiva e volta a farle ingerire acido muriatico e, i colpi ripetuti di coltello, solo in parte schivati e che attingevano, in altra parte, il volto della vittima attestavano un dolo d’omicidio. La condotta si interrompeva solo grazie all’intervento dei figli piccoli della coppia, che aprivano la porta di ingresso e permettevano ai vicini di intervenire, costringendo il ricorrente a desistere e ad allontanarsi dall’abitazione.

Il ricorso non si confronta con questo specifico incedere logico della motivazione e oppone, in maniera assertiva, l’anzidetta ipotesi dell’azione solo dissuasiva e non diretta realmente a produrre l’evento.

1.2. Manifestamente infondati risultano i rilievi sulla ritenuta premeditazione e sull’aggravante dell’aver agito con crudeltà.

A parte i richiami alla decisione del Giudice di primo grado, la Corte territoriale ha spiegato che l’imputato anticipò il suo rientro rispetto alle previsioni che aveva comunicato e rimase per ore ad attendere sotto casa il rientro della donna unitamente all’amante, attesa finalizzata all’omicidio. Il dato fu riferito dallo stesso K. alla moglie prima di accompagnarla a casa. In questa logica si è equiparata la

vicenda alla organizzazione di un “agguato rimasto deluso”, cui si affiancavano altri indici rivelatori, in fatto, dell’anzidetta forma di dolo premeditato. Tra essi la Corte territoriale ha evocato l’aver inaspettatamente prelevato la moglie al supermercato e l’aver cercato di convincerla a salire in appartamento, lasciando momentaneamente la figlia piccola in auto. Questi dati attestavano, dunque, che K. mantenne per un certo periodo di tempo, apprezzabile e sufficiente, il proposito criminoso, periodo in cui avrebbe certamente potuto far prevalere i freni inibitori e, dunque, recedere dalla spinta a delinquere. D’altro canto, i mezzi commissivi del delitto si è osservato erano ben noti all’imputato. Costui sapeva che in casa vi era acido muriatico e su quel dato aveva anche ironizzato circa un mese prima, proprio parlando con la moglie e complimentandosi per l’acquisto, affermando che gli sarebbe servito.

La stessa disponibilità dei coltelli in casa non avrebbe affatto richiesto una organizzazione specifica della fase commissiva del delitto, nè avrebbe imposto al K. di procurarsi mezzi lesivi che gli permettessero di realizzare quel proposito, oramai deliberato.

La sentenza impugnata, poi, ha esaminato le dichiarazioni dell’imputato tese ad escludere la premeditazione e sostenere l’ipotesi d’una azione dolosa sorretta da atteggiamento d’impeto. Sul tema ha osservato la Corte territoriale come si affastellassero circostanze confuse in contrasto con quanto affermato da K.V. e che non trovavano supporto nelle attività investigative.

Si intende allora come attraverso il ricorso si tenda ad ottenere una rivalutazione del risultato della prova in funzione di una diversa soluzione sulla sussistenza della premeditazione, secondo un tracciato inammissibile in sede di legittimità.

Decisamente generico è il motivo di ricorso teso ad escludere la circostanza aggravante dell’aver agito con crudeltà. Al di là di un mero richiamo all’elemento circostanziale, la doglianza non sviluppa argomenti persuasivi di critica alla motivazione svolta e il ricorso sul punto va, al pari, ritenuto inammissibile.

D’altro canto, la questione relativa non risulta neppure proposta con motivi specifici nell’atto di appello ed è preclusa in questa sede. In ogni caso, si tratta di un tema che, atteso il principio sotteso alla cd. doppia conforme, permette di integrare le due decisioni di merito e nella specie il Giudice di merito ha chiarito che la crudeltà, oltre ad emergere dall’intero contesto d’azione, si legava anche all’aver costretto la donna a subire un’aggressione di indubbia violenza, alla presenza dei figli minori che assistevano inermi al tentativo di omicidio della madre da parte del padre, così generandosi per la vittima una dose di sofferenza obiettivamente aggiuntiva, non necessaria alla commissione del delitto (Sez. U, n. 40516 del 23/06/2016, Del Vecchio, Rv. 267628; Rv 267629; Rv 267630; Sez. 1, n. 20185 del 20/12/2017 Ud. (dep. 2018), Q., Rv. 272828, Rv 272829).

1.3. Egualmente preclusa in questa sede è la doglianza relativa al sequestro di persona dei ragazzi da parte del K., con conseguente inammissibilità del motivo di ricorso, sviluppato sul punto. In ossequio al principio di devoluzione dell’impugnazione va ribadito che non è possibile censurare il vizio di motivazione della decisione, con il ricorso per cassazione, allorquando il tema non sia stato sottoposto al giudice di merito, sviluppando un motivo specifico d’appello.

Nella specie, a parte la cd. doppia conformità, della decisione di primo e secondo grado, la questione relativa al sequestro di persona non è stata proposta al giudice del gravame e risulta proposta per la prima volta innanzi a questa Corte, censurando la motivazione omessa, là dove la Corte territoriale, non essendole stata devoluta la questione, non aveva obbligo di affrontarla.

Quanto premesso realizza una preclusione processuale e rende la doglianza inammissibile.

1.4. Le ulteriori questioni dedotte attengono essenzialmente al merito sanzionatorio.

Ciò vale per le critiche alla motivazione sviluppata a supporto della determinazione del trattamento stesso e per le ragioni per le quali sono state negate le circostanze attenuanti generiche.

In questa logica la Corte territoriale ha valorizzato la gravità e il numero di reati commessi, le caratteristiche di crudeltà che hanno accompagnato il tentato omicidio, il mancato rispetto, in fase commissiva, della sensibilità dei figli minori, che sono stati costretti ad assistere allo “scempio del corpo della madre” oltre alla oggettiva gravità e pluralità delle ferite inferte alla donna. Il tutto in un contesto familiare già caratterizzato da maltrattamenti. Si tratta di elementi e di motivazione che dà conto in maniera adeguata delle ragioni che hanno indotto a confermare il trattamento penale già riservato al fatto e all’autore dal primo Giudice e che ha indotto anche il Giudice di secondo grado a negare le invocate circostanze attenuanti generiche.

La sentenza impugnata reca, pertanto, un’adeguata motivazione, sul punto. E’ principio più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità e che va qui ribadito che, ai fini della concessione o del diniego delle circostanze attenuanti generiche, il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall’art. 133 c.p., quello che ritiene prevalente ed atto a determinare o meno il riconoscimento del beneficio, sicchè anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole o all’entità del reato ed alle modalità di esecuzione di esso può essere sufficiente in tal senso (ex plurimis, Sez. 2, n. 3609 del 18/01/2011, Sermone, Rv. 249163).

Di talchè, la sentenza impugnata, avendo esplicitato le ragioni preponderanti della propria decisione sul punto, in modo adeguato e non illogico, non può essere sindacata in cassazione, neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati nell’interesse dell’imputato (tra tante, Sez. 6, n. 42688 del 24/09/2008, Caridi, Rv. 242419).

1.5. Quanto all’invocato riconoscimento della circostanza attenuante della provocazione in favore del K., circostanza che si legherebbe allo stato d’ira indotto dall’azione della donna e dalla relazione extraconiugale di costei, la Corte territoriale ha rigettato la richiesta con motivazione immune da censure.

La Corte di merito ha spiegato che la condotta aveva tratto scaturigine da un contesto di maltrattamenti già in atto verso K.V., che era impossibilitata a separarsi dall’uomo stante la ferma e minacciosa opposizione di costui. Ciò era accaduto anche dopo che la donna aveva rivelato al marito di amare un altro uomo.

In questo contesto era stata, pertanto, obbligata a promettere di interrompere la relazione. Pertanto, lo stato d’ira nasceva in una cornice del tutto peculiare e non si generava per effetto di un “fatto ingiusto altrui”, che caratterizza il nucleo centrale della circostanza attenuante. Correttamente ha ritenuto il Giudice di merito che l’azione indotta dall’ira derivasse, piuttosto, dal fatto che la donna aveva disatteso la condotta padronale e costrittiva dell’uomo, che pretendeva di affermare valori contrari ai principi di parità e di dignità.

Si tratta di una motivazione adeguata che ha, pertanto, correttamente escluso l’invocata provocazione, non potendo configurarsi essa attenuante allorquando il fatto che si assume “ingiusto” sia ritenuto tale dal solo agente e non sia, piuttosto, apprezzabile con i medesimi crismi nella valutazione generalizzata.

L’aver, pertanto, ammesso di amare un altro uomo e l’essersi trovata K.V. nell’impossibilità di interrompere la convivenza coniugale, proprio per l’atteggiamento padronale e costrittivo dell’uomo, non può integrare a favore del marito l’elemento strutturale della circostanza attenuante della provocazione, avendo inciso l’atteggiamento (questo ingiusto) di costui sul diritto personale della donna di non continuare una convivenza matrimoniale, essendo venuta meno l’affectio maritalis.

2. Alla luce di quanto premesso il ricorso va dichiarato inammissibile. Segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende, avuto riguardo al grado di colpa nella proposizione del ricorso.

L’imputato va, altresì, condannato alla rifusione delle spese sostenute nel presente giudizio dalle parti civili K.V. in proprio e nella qualità di genitore esercente la potestà sui figli minori, spese che si stima equo liquidare in complessivi 2010,00 Euro, oltre rimborso spese generali, spese vive, C.P.A. e I.V.A. come per legge, disponendo il pagamento a favore dell’Erario.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende, nonchè alla rifusione delle spese sostenute nel presente giudizio dalle parti civili K.V. in proprio e nella qualità di genitore esercente la potestà sui figli minori, spese che liquida in complessivi 2210,00 Euro, oltre rimborso spese generali, spese vive, C.P.A. e I.V.A. come per legge, disponendone il pagamento a favore dell’Erario.

In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.

Così deciso in Roma, il 8 novembre 2019. Depositato in Cancelleria il 3 febbraio 2020

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