Sentenza, Corte Suprema di Cassazione, Sezione V, 11-11-2015, n. 45184, Atti persecutori:

L’art 612-bis c.p prevede eventi alternativi, la realizzazione di ciascuno di essi è idoneo ad integrare il reato. In particolare, lo stress e l’ansia patiti dalla persona offesa possono essere desunti dalle sue dichiarazioni, dai suoi comportamenti successivi alla condotta dell’agente e dalla idoneità in astratto di quest’ultima a produrre l’evento. Il turbamento psichico pertanto non necessità di un accertamento clinico, essendo sufficiente il mutamento comportamentale della vittima successivo alla condotta dell’imputato, che denoti la sua perdita di serenità e destabilizzazione psicologica.

Corte Suprema di Cassazione, Sezione V, 11-11-2015, n. 45184

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VESSICHELLI Maria – Presidente –

Dott. PEZZULLO Rosa – Consigliere –

Dott. MICCOLI Grazia – Consigliere –

Dott. GUARDIANO Alfredo – Consigliere –

Dott. MICHELI Paolo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

S.B.G., nato a (OMISSIS);

avverso la sentenza emessa il 19/09/2014 dalla Corte di appello di Brescia;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Paolo Micheli;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. CARDINO Alberto, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

Il difensore di S.B.G. ricorre avverso la pronuncia indicata in epigrafe, recante la conferma della sentenza emessa nei confronti del suo assistito, in data 22/11/2013, dal Gup del Tribunale di Mantova. L’imputato risulta essere stato condannato a pena ritenuta di giustizia per il reato di atti persecutori ex art. 612-bis cod. pen., in ipotesi commesso in danno di S. V., figlia di un uomo (all’epoca deceduto) che in precedenza aveva avuto una relazione extraconiugale con la moglie dello stesso ricorrente.

Secondo la Corte territoriale, le argomentazioni che la difesa aveva sviluppato in sede di motivi di appello non potevano risultare decisive, in quanto: la circostanza che il S.B. si fosse trovato a transitare per soli motivi di lavoro sotto l’abitazione della persona offesa avrebbe potuto giustificare passaggi di mera routine, quando invece vari testimoni avevano riferito di un andirivieni ripetuto, con cadenza irregolare; in ogni caso, rimanevano inconfutabili le circostanze in cui l’imputato si era avvicinato alla ragazza presso la scuola da lei frequentata, tenendo conto che per la configurabilità del reato sarebbero stati sufficienti anche due soli episodi;

sui fatti accaduti il (OMISSIS), l’imputato era stato smentito, quanto alla dedotta impossibilità di lasciare il proprio luogo di lavoro, dal rilievo che in pari dati si era recato (comunque senza permesso) presso la scuola del figlio, per un colloquio con gli insegnanti;

il fatto che la S. non fosse stata in grado di indicare eventuali persone presenti in occasione delle condotte moleste dell’uomo appariva comprensibile, visto l’allarme ed il timore in lei suscitato dalle iniziative dell’imputato (e, dunque, la preponderante esigenza di sottrarsi a quei comportamenti);

l’inesistenza di elementi di sorta a sostegno della tesi della calunniosità delle denunce sporte dalla giovane;

la considerazione, desunta dalle risultanze istruttorie (fra cui la relazione di uno psicoterapeuta, il quale non si era di certo limitato a prendere atto di quel che la ragazza gli aveva rappresentato, procedendo invece a valutazioni proprie) di un grave e perdurante turbamento emotivo prodottosi nella S. in esito alle condotte in rubrica. Turbamento da intendersi “come una condizione emotiva spiacevole accompagnata da senso di oppressione, grave e non passeggera, che può assumere rilevanza penale anche quando non si traduca in precise sindromi canonizzate dalla scienza medico-psicologica e che, dunque, prescinde dall’accertamento di uno stato patologico conclamato, essendo sufficiente un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima”;

l’irrilevanza, al contrario, di eventuali problematiche psicologiche preesistenti in capo alla persona offesa (anche a causa della prematura morte di entrambi i genitori), giacchè, diversamente opinando, “ne risulterebbe elisa la tutela penale proprio nei confronti dei soggetti più deboli, in quanto già sofferenti sotto il profilo psichico-emotivo”.

Con l’odierno ricorso, la difesa deduce innanzi tutto l’inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 612-bis cod. pen.: in relazione al “perdurante e grave stato di ansia e di paura” indicato fra gli eventi che dovrebbero prodursi per ritenere ravvisabile il reato de quo, il difensore segnala che “per soddisfare il requisito di determinatezza, la formula normativa non può che riferirsi a forme patologiche caratterizzate dallo stress e specificamente riconoscibili proprio come conseguenza del tipo di comportamenti incriminati, le quali, sebbene non compiutamente codificate, trovano riscontro nella letteratura medica. A tal fine si deve ritenere che il legislatore, con i termini di “ansia” e “paura”, abbia inteso richiamare un elemento normativo di carattere extragiuridico, il quale comporta che il parametro di riferimento diventi inevitabilmente incerto. L’incertezza viene limitata mediante il riferimento alla scienza medica, la quale sola sarà in grado di dare concretezza di significato ai termini impiegati ….

Un’interpretazione corretta, ed in linea con gli intenti del legislatore, impone di considerare l’evento del grave disagio psichico (vista la indeterminatezza della figura) come una forma patologica contraddistinta dallo stress di tipo clinicamente definito grave e perdurante”.

A riprova della correttezza delle proprie argomentazioni, il difensore del S.B. invoca i rilievi formulati dal giudice delle leggi nella sentenza n. 172/2014, in forza della quale è stata ritenuta non fondata la questione di legittimità costituzionale del citato art. 612-bis, proprio perchè sarebbe possibile scongiurare il vizio di indeterminatezza della fattispecie (e giungere invece ad individuare una chiara portata del precetto della norma) attraverso una corretta interpretazione degli elementi extragiuridici ivi contemplati.

Condizione che, ad avviso del ricorrente, non può dirsi rispettata nel caso oggi in esame, dove la relazione dello psicologo versata in atti riferisce soltanto i racconti della S., senza certificare alcuna patologia, ed attestando piuttosto che la giovane non si era più realmente ripresa dopo la scomparsa del padre e della madre: nulla, dunque, che si ponga in linea con le indicazioni della Corte Costituzionale, secondo cui gli eventi previsti dalla norma incriminatrice (al di là di quello afferente le abitudini di vita), riguardando la sfera emotiva e psicologica, “debbono essere accertati attraverso un’accurata osservazione di segni e indizi comportamentali, desumibili dal confronto tra la situazione pregressa e quella conseguente alle condotte dell’agente, che denotino una apprezzabile destabilizzazione della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima”.

Inoltre, la difesa rappresenta mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione laddove risultano non valorizzate le circostanze, documentate, della necessità dell’imputato di passare lungo la strada ove si trovava il domicilio della vittima al fine di recarsi ai lavoro, come pure dell’inesistenza di annotazioni della polizia giudiziaria, a seguito dei servizi di osservazione che vennero disposti per ben 17 giorni, che attestassero la presenza del S.B. in prossimità della scuola della S. od alla fermata dell’autobus (quando peraltro, già in occasione dei fatti che la ragazza aveva denunciato, non erano stati segnalati testimoni di sorta che vi avessero assistito, malgrado gli episodi si fossero verificati poco prima dell’inizio delle lezioni, appena fuori dall’istituto).

Secondo il ricorrente, in definitiva, risulterebbe violato l’art. 192 cod. proc. pen., essendo stata pronunciata condanna “nonostante l’assoluta inconsistenza delle prove a suo carico”.

Motivi della decisione

1. Il ricorso non può trovare accoglimento.

Come si evince già dalla chiara lettera normativa, “il delitto di atti persecutori, cosiddetto stalking, (art. 612-bis cod. pen.) è un reato che prevede eventi alternativi, la realizzazione di ciascuno dei quali è idonea ad integrarlo; pertanto, ai fini della sua configurazione non è essenziale il mutamento delle abitudini di vita della persona offesa, essendo sufficiente che la condotta incriminata abbia indotto nella vittima uno stato di ansia e di timore per la propria incolumità” (Cass., Sez. 5, n. 29872 del 19/05/2011, L. Rv 250399). Per poter intendere realizzato il suddetto stato di ansia e timore, tuttavia, la giurisprudenza di questa Corte ha già chiarito che “non si richiede l’accertamento di uno stato patologico, ma è sufficiente che gli atti ritenuti persecutori … abbiano un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima, considerato che la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 612-bis cod. pen. non costituisce una duplicazione del reato di lesioni (art. 582 cod. pen.), il cui evento è configurabile sia come malattia fisica che come malattia mentale e psicologica” (Cass., Sez. 5, n. 16864 del 10/01/2011, C., Rv. 250158).

Anche la Corte Costituzionale, nella pronuncia richiamata dal ricorrente, non si riferisce mai alla necessità di inquadrare in effettive categorie nosologiche gli eventi che afferiscono alla sfera emotiva del soggetto passivo, richiedendo la necessità di una “accurata osservazione di segni e indizi comportamentali, desumibili dal confronto tra la situazione pregressa e quella conseguente alle condotte dell’agente, che denotino una apprezzabile destabilizzazione della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima”:

principi che, come appare evidente, costituiscono la conferma dell’elaborazione giurisprudenziale operata in sede di legittimità.

Nè può ritenersi che, nel caso di specie, manchi la “accurata osservazione” sopra evidenziata: tale aspetto riguarda il tema della prova del reato, e certamente può desumersi dalle stesse dichiarazioni della persona offesa (in ragione del grado di attendibilità che le si riconosca), come pure dalle stesse modalità della condotta posta in essere dall’autore. Infatti, si è già affermato che “in tema di atti persecutori, la prova dell’evento del delitto, in riferimento alla causazione nella persona offesa di un grave e perdurante stato di ansia o di paura, deve essere ancorata ad elementi sintomatici di tale turbamento psicologico ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall’agente ed anche da quest’ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l’evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata” (Cass., Sez. 6, n. 50746 del 14/10/2014, G., Rv 261535; v. anche, già in precedenza, Cass., Sez. 5, n. 24135 del 09/05/2012, G., Rv.

253764, secondo cui “la prova dello stato d’ansia o di paura denunciato dalla vittima del reato può essere dedotta anche dalla natura dei comportamenti tenuti dall’agente, qualora questi siano idonei a determinare in una persona comune tale effetto destabilizzante”).

E’ nello stesso corpo del ricorso, del resto, che si legge (con osservazioni ricavate ancora una volta dalla motivazione della pronuncia della Corte Costituzionale sopra ricordata) che occorre una prova fondata su “elementi sintomatici che rivelino un reale turbamento psicologico, ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall’agente, nonchè dalle condizioni soggettive della vittima, purchè note all’agente, e come tali necessariamente rientranti nell’oggetto del dolo”. Temi diffusamente trattati in entrambe le sentenze di merito, dove si riportano passi delle denunce della giovane, tanto più che – in un contesto affatto peculiare come quello vissuto dalla S., trovatasi a subire le iniziative soffocanti di un uomo la cui moglie aveva avuto una relazione con il padre della ragazza, e che dunque manifestava risentimento verso l’intera famiglia di costui, malgrado fosse già morto – ella si palesava oggettivamente come persona di particolare fragilità emotiva: ne deriva che l’avvicinarla di continuo, sino a giungere a minacciarla e strattonarla, come pure l’utilizzo di frasi di disprezzo o chiaramente evocative del decesso del padre, costituivano condotte certamente capaci di produrre le conseguenze di cui la S. aveva parlato nel descrivere la propria condizione.

Nè può ragionevolmente ritenersi che il quadro descritto dallo psicologo che visitò la ragazza, al di là del taglio apparente di mera riproduzione di quanto riferito da costei, debba essere interpretato come privo di valutazioni sullo stato obiettivo della S., evidentemente corrispondente al suo narrato; ed altrettanto ineccepibile risulta la considerazione della Corte territoriale circa l’irrilevanza, al fine di escludere la ravvisabilità del reato in esame, di eventuali problemi pregressi della vittima sul piano delle condizioni psicologiche. Da un lato, un soggetto che versa in uno stato di sofferenza emotiva appare obiettivamente meritevole di maggiore tutela rispetto a condotte qualificabili ex art. 612-bis cod. pen. (dove gli eventi indotti ben possono costituire aggravamenti di un’ansia od un timore pre- esistenti, ed altrimenti provocati); dall’altro, è pacifico che nella fattispecie concreta il S.B. fosse pienamente consapevole dello stato in cui si trovava la persona offesa, visto che di certo gli erano note le vicende che avevano portato alla morte dei di lei genitori, quanto meno con riguardo al padre.

Le censure relative alla omessa considerazione di alcune risultanze istruttorie da parte dei giudici di merito costituiscono mera iterazione di doglianze già formulate dinanzi alla Corte di appello, e che – come si evince dalla sopra illustrata indicazione degli elementi in base ai quali la decisione di primo grado aveva trovato conferma – erano state già fondatamente disattese nella motivazione della sentenza oggetto di ricorso.

2. Il rigetto del ricorso comporta la condanna del S.B. al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità.

Considerata la natura del reato in rubrica, il collegio ritiene doveroso disporre l’oscuramento dei dati identificativi delle parti private, in caso di pubblicazione della presente sentenza.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso, e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.

Così deciso in Roma, il 26 giugno 2015.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2015


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