Sentenza, Cassazione Civile, Sezione I, 20-01-2017, n. 1585, Annullamento del contratto per dolo:
Secondo la Suprema Corte il contratto non può essere annullato se il contraente che, si qualifichi come vittima degli artifici e raggiri dell’altro, non è stato in grado di smascherarli per sua negligenza o colpevole ignoranza.
Cassazione Civile, Sezione I, 20-01-2017, n. 1585
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –
Dott. SCALDAFERRI Andrea – Consigliere –
Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –
Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –
Dott. DOLMETTA Aldo Angelo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 14852-2012 proposto da:
C.F., (c.f. (OMISSIS)), elettivamente domiciliato in ROMA, Via PIETRO ROMANO 33, presso l’avvocato RAFFAELLA DE ANGELIS, rappresentato e difeso dall’avvocato MARCO PALIOTTA, giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente-
contro
TREVI FINANCE N.2 S.P.A., e per essa UNICREDIT CREDIT MANAGEMENT BANK S.P.A. (già denominata UNICREDITO GESTIONE CREDITI SOCIETA’ PER AZIONI – BANCA PER LA GESTIONE CREDITI), quale mandataria di UNICREDIT S.P.A., a sua volta mandataria della predetta TREVI FINANCE N.2 S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CHIANA 112/C, presso l’avvocato ARMANDO DE BONIS, che la rappresenta e difende, giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente – avverso la sentenza n. 1860/2011 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 28/04/2011;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 24/11/2016 dal Consigliere Dott. MASSIMO FALABELLA;
udito, per il ricorrente, l’Avvocato M. PALIOTTA che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CERONI Francesca, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.
Svolgimento del processo
Nel gennaio 2000 C.F. conveniva in giudizio l’ex coniuge S.M.L., da cui era divorziato dal (OMISSIS), e la Banca di Roma s.p.a. per sentire annullare il contratto di mutuo stipulato tra le convenute il (OMISSIS) e sentire inoltre condannate le stesse evocate in giudizio al risarcimento dei danni. Esponeva che nel febbraio 1993 S.M.L. aveva chiesto alla Banca di Roma un mutuo di Lire 150.000.000, da rimborsare in 15 anni, con rate semestrali di 1.300.000. Nell’occasione la predetta S., da cui all’epoca era separato, gli aveva chiesto di consentire l’iscrizione ipotecaria su di un immobile di proprietà comune, destinato ad abitazione, sito in (OMISSIS). L’attore aveva ricevuto rassicurazioni dalla banca circa l’effettuazione, da parte di quest’ultima, di tutti gli accertamenti del caso e in merito, specificamente, all’inesistenza, a carico di S.M.L., di protesti o di altre esposizioni debitorie. In seguito aveva appreso che il mutuo aveva durata decennale e che la ex moglie, oltre ad essere stata protestata, era in mora nei pagamenti nei confronti della stessa banca. Asseriva quindi che in assenza di quanto dichiaratogli da S.M.L. e dalla banca non avrebbe prestato il consenso all’iscrizione ipotecaria.
La banca si costituiva in giudizio contestando la fondatezza della domanda ed eccependo preliminarmente la prescrizione dell’azione di annullamento; assumeva di essere estranea ai motivi che avevano indotto l’attore a prestare il consenso alla prestazione della garanzia reale e aggiungeva che fin dal 1995 C. era a conoscenza della morosità di S.M.L.. Affermava, infine, che essa banca nulla sapeva circa la separazione dei coniugi.
Esperita l’istruttoria, il Tribunale di Roma rigettava la domanda.
C. proponeva appello cui resisteva la sola Capitalia s.p.a. alla quale subentrava, nel corso del giudizio, Trevi Finance n. 2 s.p.a., rappresentata dalla procuratrice UGC Banca s.p.a..
Nel corso del giudizio di gravame era espletata la prova testimoniale richiesta dall’appellante e quindi, con sentenza depositata il 28 aprile 2011, la Corte di appello di Roma respingeva l’impugnazione. Osservava la Corte di merito che l’interrogatorio formale di S.M.L. non aveva sortito alcun effetto confessorio, dal momento che quanto dichiarato dall’appellata – l’essersi C. determinato a sottoscrivere il contratto di mutuo sulla base delle assicurazioni ornitegli – aveva ad oggetto una valutazione, mentre le deposizioni dei testimoni non risultavano essere concludenti; il giudice dell’impugnazione rilevava, inoltre, che la buona fede riceve protezione solo se non si risolva in negligenza o ignoranza e che nella fattispecie l’attore avrebbe avuto la possibilità di acquisire conoscenza delle reali condizioni economiche della ex moglie; aggiungeva che la banca poteva anzi ragionevolmente supporre tale conoscenza, visto che nel contratto di mutuo C. e S.M.L. avevano dichiarato di essere coniugati e in regime di comunione legale dei beni.
Contro tale sentenza ricorre per cassazione C.F.. L’impugnazione si fonda su due motivi. Resiste con controricorso Unicredit Credit Management Bank s.p.a., già UGC Banca s.p.a., quale procuratrice di Trevi Finance n. 2 s.p.a.. S.M.L. non ha svolto attività processuale nella presente sede. Il ricorrente ha depositato memoria.
Motivi della decisione
Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 1439 c.c., con riferimento al mancato accertamento del dolo; la violazione e falsa applicazione è inoltre dedotta con riferimento all’art. 1344 c.c., per essere stato il contratto stipulato in frode alla legge, con riferimento all’art. 1345 c.c., posto che l’unico motivo illecito comune alle parti era quello della frode contrattuale in danno di esso ricorrente, all’art. 1418 c.c., per violazione delle norme imperative contenute negli artt. 1344 e 1345 c.c., oltre che della L. n. 386 del 1990, artt. 9, 9 bis, 9 ter, 10 e 10 bis. Il ricorrente lamenta, in sostanza, che l’operazione era stata preordinata a garantire alla banca il recupero di una somma di cui S.M.L.M.L. e il suo convivente si erano resi già debitori nei confronti dell’istituto di credito; sostiene l’istante che se la propria ex moglie e la Banca di Roma gli avessero rappresentato che la somma mutuata non sarebbe servita a S.M.L. per incrementare l’attività commerciale in favore delle figlie, ma sarebbe stata piuttosto destinata all’estinzione del mutuo che la stessa intimata e il suo compagno avevano in precedenza ottenuto, egli non avrebbe mai sottoscritto il contratto di mutuo. Sia l’istituto di credito che la ex moglie erano a conoscenza della insorta morosità, mentre l’istante la ignorava: il funzionario della Banca di Roma e S.M.L. erano stati in proposito reticenti, essendo consapevoli del fatto che, ove esso C. l’avesse appresa, egli avrebbe negato la richiesta garanzia.
Il secondo motivo denuncia insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia relativo, in particolare, alla mancata verifica, da parte della Banca di Roma, della garanzia patrimoniale offerta da S.M.L.; l’istante richiama in particolare l’interrogatorio formale, reso avanti al Tribunale, dalla convenuta contumace e la prova testimoniale, esperita in grado di appello, del convivente della predetta S..
I due motivi non risultano fondati.
E’ opportuno rammentare, in proposito, che il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione: il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. S.U. 5 maggio 2006, n. 10313; in senso conforme, ad es.: Cass. 11 gennaio 2016, n. 195; Cass. 30 dicembre 2015, n. 26110; Cass. 4 aprile 2013, n. 8315).
Ora, l’unica censura che, all’interno del primo motivo, è riconducibile alla fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3 risulta sollevata con riferimento all’affermazione della Corte territoriale secondo cui il dolo non può rilevare, quale vizio del consenso, se alla parte che se ne duole sia imputabile una negligenza. Ma sul punto la Corte distrettuale ha fatto corretta applicazione del principio affermato da questa S.C. per cui in tema di dolo quale causa di annullamento del contratto, sia nella ipotesi di dolo commissivo che in quella di dolo omissivo, gli artifici o i raggiri, la reticenza o il silenzio devono essere valutati in relazione alle particolari circostanze di fatto e alle qualità e condizioni soggettive dell’altra parte, onde stabilire se erano idonei a sorprendere una persona di normale diligenza, giacchè l’affidamento non può ricevere tutela giuridica se fondato sulla negligenza (Cass. 27 ottobre 2004, n. 20792; in tema cfr. pure Cass. 23 giugno 2009, in cui si sottolinea come il dolus malus ricorra solo se sussista, in chi se ne proclami vittima, assenza di negligenza o di incolpevole ignoranza).
Per il resto il primo motivo non coglie nel segno, dal momento che il ricorrente non denuncia propriamente l’errore della Corte di appello nell’individuazione e interpretazione delle norme da applicare alla fattispecie concreta o l’errore di sussunzione della fattispecie medesima in una norma che non le si addice: imputa, piuttosto, al giudice del gravame di non aver proceduto a un retto esame delle risultanze di causa, in modo da pervenire all’applicazione delle disposizioni indicate nel corpo del primo motivo; ma ciò – come si è spiegato – è materia del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, non di quello contemplato dall’art. 360 c.p.c., n. 3.
I profili di invalidità contrattuale veicolati dal richiamo agli artt. 1344 e 1345 c.c. e della L. n. 386 del 1990, artt. 9, 9 bis, 9 ter, 10 e 10 bis integrano, poi, altrettante questioni nuove. Premesso che quella sottesa dalle norme da ultimo richiamate non risulta essere nemmeno comprensibile (essendo davvero oscura la prospettazione di una nullità contrattuale per violazione della disciplina sanzionatoria in materia di assegni bancari), le altre, concernenti la frode alla legge e la nullità del contratto per illiceità del motivo, implicherebbero accertamenti di fatto, onde non possono scrutinarsi nella presente sede. Era del resto onere del ricorrente dar conto di come le suddette questioni, su cui tace la pronuncia della Corte di Roma, fossero entrate a far parte del thema decidendum nella precedente fase del giudizio. Qualora, infatti, con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso stesso, di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione (Cass. 18 ottobre 2013, n. 23675; cfr. pure: Cass. 28 luglio 2008, n. 20518; Cass. 26 febbraio 2007, n. 4391; Cass. 12 luglio 2006, n. 14599; Cass. 2 febbraio 2006, n. 2270).
Per quanto attiene al vizio di motivazione, deve poi osservarsi che l’istante, con la deduzione di esso, mira, in definitiva, ad un riesame delle risultanze istruttorie.
Il ricorso per cassazione conferisce, però, al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (Cass. 4 novembre 2013 n. 24679; Cass. 16 novembre 2011, n. 27197; Cass. 6 aprile 2011, n. 7921; Cass. 21 settembre 2006, n. 20455; Cass. 4 aprile 2006, n. 7846; Cass. 9 settembre 2004, n. 18134; Cass. 7 febbraio 2004, n. 2357).
Nessun dubbio, quindi, che non possa procedersi in questa sede a una nuova valutazione delle risultanze della prova testimoniale: prova che la Corte di appello ha affermato non consentisse alcuna precisa conclusione nel senso della sussistenza del dolo.
Ma non è fondata nemmeno la doglianza sollevata con riguardo al mancato apprezzamento della prova legale della confessione. L’istante attribuisce rilievo confessorio alla dichiarazione resa da Maria Luisa S. “circa la totale negligenza della banca nel non aver operato con accuratezza le dovute verifiche sull’effettività della garanzia patrimoniale della S. medesima” (pag. 32 del ricorso): tuttavia, tale dichiarazione non ha il valore che l’istante le conferisce, sia in quanto concerne un terzo soggetto estraneo all’asserito confitente, sia in quanto non è in sè rappresentativa di raggiri che avrebbero determinato il vizio del consenso. Riguardo, poi, alle ulteriori dichiarazioni rese sempre dalla ex moglie del ricorrente in sede di interrogatorio formale, (richiamate a pag. 19 del ricorso e riprodotte a pagg. 8 e 9 dello stesso atto), il ricorrente, mancando di assolvere all’onere di autosufficienza, non trascrive in modo completo i capitoli di prova su cui l’odierna intimata fu interrogata, limitandosi a inserire nel corpo della riprodotta verbalizzazione alcune indicazioni quanto al contenuto delle domande rivolte alla parte.
Peraltro, il valore confessorio delle nominate dichiarazioni, ove pure esistente, risulterebbe vanificato dalla ratio decidendi della sentenza impugnata che è basata sulla negligenza imputabile a C., il quale – secondo la Corte di merito avrebbe potuto agevolmente verificare le condizioni economiche della ex moglie. Tale ratio decidendi non risulta efficacemente censurata in sede di legittimità, ove è precluso il riesame delle prove, ed è quindi di per sè idonea a sorreggere la pronuncia.
E’ da aggiungere che, con riguardo alla posizione della banca, l’insussistenza del dolo trova fondamento, secondo la sentenza impugnata, anche nel rilievo per cui lo stesso C. aveva falsamente dichiarato di essere coniugato e in regime di comunione legale dei beni con la moglie: circostanza – questa – che, ad avviso del giudice del gravame, faceva dubitare della maliziosità della condotta dell’istituto di credito (potendo evidentemente quest’ultimo confidare nella conoscenza, da parte del marito, delle condizioni economiche della coppia). Nemmeno tale ratio decidendi – munita, peraltro, di sicura congruità logica – è stata censurata per vizio di motivazione.
In conclusione, il ricorso va respinto, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
LA CORTE rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate in Euro 2.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso spese generali e accessori dovuti per legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 24 novembre 2016.
Depositato in Cancelleria il 20 gennaio 2017