Sentenza, Corte Costituzionale, 26 maggio – 23 giugno 2020, n. 118, Vaccinazioni raccomandate – Indennizzo:

In quest’occasione la Corte Costituzionale, richiamando delle precedenti pronunce in tema di vaccinazioni raccomandate, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della legge 25 febbraio 1992, n. 210 (Indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazioni di emoderivati), nella parte in cui non prevede il diritto a un indennizzo, alle condizioni e nei modi stabiliti dalla medesima legge in caso di vaccinazioni obbligatorie, a favore di chiunque abbia riportato una menomazione permanente all’integrità psicofisica causata da vaccinazioni raccomandate, come quella contro il contagio dal virus dell’epatite A.

Corte Costituzionale, 26 maggio – 23 giugno 2020, n. 118:

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Marta CARTABIA;
Giudici: Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano
AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO,
Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco
VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della legge 25 febbraio
1992, n. 210 (Indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo
irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazioni di
emoderivati), promosso dalla Corte di cassazione, sezione lavoro, nel procedimento
vertente tra il Ministero della salute e A. O. e altri, con ordinanza dell’11 ottobre
2019, iscritta al n. 6 del registro ordinanze 2020 e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 5, prima serie speciale, dell’anno 2020.
Udito il Giudice relatore Nicolò Zanon nella camera di consiglio del 26 maggio 2020,
svolta ai sensi del decreto della Presidente della Corte del 20 aprile 2020, punto 1),
lettera a);
deliberato nella camera di consiglio del 26 maggio 2020.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza dell’11 ottobre 2019 (r.o. n. 6 del 2020), la Corte di cassazione,
sezione lavoro, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3 e 32 della Costituzione,
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della legge 25 febbraio
1992, n. 210 (Indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo
irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazioni di
emoderivati), nella parte in cui non prevede che il diritto all’indennizzo, istituito e
regolato dalla stessa legge, spetti anche, alle condizioni ivi previste, a soggetti che
abbiano subito lesioni o infermità, dalle quali sia derivata una menomazione
permanente della integrità psico-fisica, a causa di una vaccinazione non
obbligatoria, ma raccomandata, contro il contagio da virus dell’epatite A.
La Corte rimettente è chiamata a valutare il ricorso proposto dal Ministero della
salute contro una sentenza della Corte d’appello di Lecce, che ha disposto il
versamento dell’indennità in questione a favore di A. O. a suo tempo sottoposta alla
vaccinazione contro il virus dell’epatite A, e che, in conseguenza di ciò, è risultata
affetta da «lupus eritematoso sistemico». Il giudice di merito ha considerato
provata la sussistenza di un nesso causale tra somministrazione del vaccino e
patologia successiva. Inoltre, sulla scorta della giurisprudenza costituzionale che ha
esteso il diritto all’indennizzo in caso di conseguenze dannose derivanti da
specifiche vaccinazioni non obbligatorie, ma incentivate dall’autorità sanitaria, ha
ritenuto che tale diritto sussista anche con riferimento al vaccino somministrato nel
caso di specie.
Nella sentenza impugnata si specifica come l’interessata avesse aderito ad una
campagna di vaccinazione avviata nel 1997 ed estesa contro il contagio da epatite
A, e fosse stata sottoposta a vaccinazione, nel 2003 e nel 2004, a seguito di una
sua personale convocazione presso la sede dell’azienda sanitaria locale (ASL)
territorialmente competente. Dunque, secondo l’impugnata sentenza della Corte di
appello di Lecce, una interpretazione costituzionalmente orientata del comma 1
dell’art. 1 della legge n. 210 del 1992 legittimerebbe, nel caso di specie, il
riconoscimento del diritto all’indennizzo.
Il ricorso per cassazione del Ministero della salute si fonda sul vizio di violazione di
legge, essendo l’indennizzo previsto per le sole vaccinazioni obbligatorie. Il
ricorrente ha messo in luce, d’altra parte, come le decisioni della Corte
costituzionale citate nella sentenza impugnata riguardassero fattispecie diverse da
quella considerata nel giudizio (in particolare, il vaccino per morbillo, parotite e
rosolia quanto alla sentenza n. 107 del 2012, il vaccino contro l’epatite C per la
sentenza n. 423 del 2000 e il vaccino antipolio per la sentenza n. 27 del 1998).
1.1.– La Corte di cassazione, nel sollevare le indicate questioni di legittimità
costituzionale, muove dal presupposto che non vi siano margini per
l’interpretazione costituzionalmente orientata posta a fondamento della sentenza
d’appello. La lettera della legge si riferirebbe infatti inequivocabilmente alle
vaccinazioni obbligatorie, mentre le sentenze ricordate, dichiarative della parziale
illegittimità costituzionale della norma censurata riguardano vaccini diversi da quello
somministrato nella specie. Ciò significherebbe che una mera estensione della ratio
decidendi di quelle sentenze «determinerebbe la sostanziale disapplicazione ope
iudicis della disposizione censurata».
Posta tale premessa, la Corte rimettente sottolinea come siano soddisfatte tutte le
necessarie condizioni di (ammissibilità e) rilevanza delle questioni sollevate.
Osserva, in proposito, che il nesso eziologico tra la somministrazione del vaccino e
l’insorgere della patologia sofferta dalla parte che richiede l’indennizzo è ormai
definitivamente stabilito, così come risulta accertato che la vaccinazione era stata
fortemente raccomandata dalla autorità sanitaria.
La Giunta regionale della Regione Puglia, nel 2003, aveva infatti preso atto di come
le vaccinazioni raccomandate, al pari di quelle obbligatorie, fossero comprese nei
livelli essenziali di assistenza, garantiti gratuitamente dal Servizio sanitario
nazionale e recepiti con precedente delibera della medesima Giunta.
D’altra parte, nel periodo in cui l’interessata era stata vaccinata (anni 2003 e 2004),
era in corso una specifica campagna contro l’epatite A, anche perché era stato
abbandonato l’utilizzo del vaccino combinato contro i virus A e B dell’epatite ed era
già stata completata una campagna per la vaccinazione contro l’epatite B.
La persona interessata, nel caso di specie, era stata inoltre individualmente
convocata negli ambulatori della ASL, mediante una comunicazione che presentava
la vaccinazione «non tanto come prestazione raccomandata, ma quasi come se
fosse stata obbligatoria».
In punto di non manifesta infondatezza, la Corte rimettente rileva come l’originaria
tutela indennitaria concernente le sole vaccinazioni obbligatorie sia stata più volte
estesa dalla giurisprudenza costituzionale. Viene richiamata la ratio della sentenza
n. 268 del 2017, che ha dichiarato costituzionalmente illegittima la disposizione
ancor oggi censurata, nella parte in cui non consentiva la corresponsione di
indennizzo nel caso di vaccino antinfluenzale (non obbligatorio). Al lume di tale
pronuncia, sostiene il giudice a quo che l’obiettivo di salute pubblica, attraverso
fenomeni generalizzati di immunizzazione, può essere perseguito, sia mediante atti
che impongano le vaccinazioni, sia attraverso atti che ne fanno oggetto di
raccomandazione, che risulterà efficace in virtù del naturale affidamento dei singoli
riguardo alle indicazioni dell’autorità sanitaria. L’utilità pubblica delle vaccinazioni
raccomandate, in queste situazioni, legittima ed anzi impone la traslazione sulla
comunità del rischio connesso alla pratica vaccinale, a prescindere dalle particolari
motivazioni che muovono i singoli (in virtù degli artt. 2, 3 e 32 Cost., secondo i
principi enunciati nella giurisprudenza costituzionale in materia).
La Corte di cassazione ribadisce che nella specie si era perseguito un obiettivo di
necessaria immunizzazione contro l’epatite A, con toni di forte incentivazione per i
singoli, cosicché ricorrerebbero, anche per il relativo vaccino, le ragioni di
illegittimità costituzionale più volte rilevate dalla Corte costituzionale riguardo alla
mancata previsione di indennizzi per somministrazioni non obbligatorie.
2.– Il Presidente del Consiglio dei ministri non è intervenuto in giudizio, né vi è
stata costituzione delle parti del giudizio a quo.
Considerato in diritto
1.– La Corte di cassazione, sezione lavoro, ha sollevato questioni di legittimità
costituzionale, in riferimento agli artt. 2, 3 e 32 della Costituzione, dell’art. 1,
comma 1, della legge 25 febbraio 1992, n. 210 (Indennizzo a favore dei soggetti
danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie,
trasfusioni e somministrazioni di emoderivati), nella parte in cui non prevede che il
diritto all’indennizzo, istituito e regolato dalla stessa legge, spetti anche, alle
condizioni ivi previste, a soggetti che abbiano subito lesioni o infermità, da cui sia
derivata una menomazione permanente della integrità psico-fisica, a causa di una
vaccinazione non obbligatoria, ma raccomandata, contro il contagio da virus
dell’epatite A.
Quanto alla rilevanza delle questioni sollevate, il giudice a quo ha reso
specificamente conto dell’avvenuto accertamento del nesso causale che, nella
vicenda da cui origina il processo principale, collega la patologia alla
somministrazione della vaccinazione antiepatite A, al fine di dimostrare la
sussistenza delle ulteriori condizioni di applicabilità della disciplina che la legge n.
210 del 1992 reca in tema di indennizzo. Resta così chiarito, secondo il rimettente,
che solo l’eventuale accoglimento della questione sollevata varrebbe a legittimare
l’applicazione della disciplina indennitaria in favore della persona interessata.
In ordine alla non manifesta infondatezza delle stesse questioni, ritiene la Corte
rimettente che, in caso di complicanze di tipo irreversibile conseguenti alla
vaccinazione, contrasterebbe con i parametri costituzionali evocati il diverso
trattamento imposto dalla disposizione censurata, quanto alla corresponsione
dell’indennizzo, tra coloro che risultano affetti da lesioni o infermità provocate da
vaccinazioni obbligatorie e coloro che le medesime patologie manifestano a seguito
di una vaccinazione, non obbligatoria ma raccomandata dall’autorità sanitaria, come
quella contro il virus dell’epatite A. Risultando tale vaccinazione finalizzata anche
alla tutela della salute collettiva, oltre che di quella individuale, gli artt. 2, 3 e 32
Cost. renderebbero necessario, anche in tal caso, traslare sulla collettività le
conseguenze negative che il vaccino abbia provocato sul singolo, al pari di quanto
già accade, per effetto di varie pronunce di questa Corte (sono richiamate le
sentenze n. 268 del 2017, n. 107 del 2012, n. 423 del 2000 e n. 27 del 1998)
riferite a patologie dipendenti dalla somministrazione di vaccinazioni non
obbligatorie, ma raccomandate, contro malattie infettive diverse dall’epatite A.
2.– Osserva preliminarmente il giudice a quo che non sarebbe praticabile
un’interpretazione costituzionalmente conforme della disposizione censurata, volta
a riconoscere, nella fattispecie, il diritto all’indennizzo sulla base dei medesimi
principi che, nelle citate precedenti occasioni, hanno condotto questa Corte a
dichiarare costituzionalmente illegittima la stessa disposizione, nella parte in cui non
prevedeva l’indennizzo, a seguito di menomazioni permanenti derivanti da altre e
specifiche pratiche vaccinali, non obbligatorie ma raccomandate. Ciò sarebbe
impedito, sia dal tenore testuale della disposizione, sia – nella fattispecie di cui è
causa – dalla impossibilità di ravvisare, nelle raccomandazioni regionali a favore
della vaccinazione antiepatite A, «atti amministrativi di sostanziale imposizione d’un
obbligo». Ed anzi, l’estensione al caso di specie dei principi già enucleati dalla
giurisprudenza costituzionale con riferimento ad altre fattispecie vaccinali si
risolverebbe, ad avviso del rimettente, in una «sostanziale disapplicazione ope
iudicis della disposizione censurata». In definitiva, solo l’accoglimento delle
sollevate questioni, ad opera di questa Corte, potrebbe porre rimedio all’illegittimità
costituzionale rilevata.
Il ragionamento del rimettente è corretto.
La giurisprudenza costituzionale ha più volte affermato che l’univoco tenore della
disposizione segna il confine in presenza del quale il tentativo di interpretazione
conforme deve cedere il passo al sindacato di legittimità costituzionale (così, in
particolare, sentenza n. 232 del 2013 e, più di recente, sentenze n. 221 del 2019,
n. 83 e n. 82 del 2017). D’altra parte, sempre secondo una giurisprudenza
costituzionale ormai costante, quando il giudice a quo abbia consapevolmente
reputato che il tenore della disposizione censurata impone una determinata
interpretazione e ne impedisce altre, eventualmente conformi a Costituzione, la
verifica delle relative soluzioni ermeneutiche non attiene al piano dell’ammissibilità,
ed è piuttosto una valutazione che riguarda il merito della questione (così, ex
multis, sentenze n. 50 del 2020 e n. 133 del 2019).
Infine, con più diretto riferimento all’odierna fattispecie, il mero riscontro della
natura raccomandata della vaccinazione, per le cui conseguenze dannose si
domandi indennizzo, non consente ai giudici comuni di estendere automaticamente
a tale fattispecie la pur comune ratio posta a base delle precedenti, parziali,
declaratorie di illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della legge n. 210 del
1992 (analogamente, sia pur in diversa materia, sentenza n. 110 del 2012). Infatti,
in caso di complicanze conseguenti alla vaccinazione, il diritto all’indennizzo non
deriva da qualunque generica indicazione di profilassi proveniente dalle autorità
pubbliche, a quella vaccinazione relativa, ma solo da specifiche campagne
informative svolte da autorità sanitarie e mirate alla tutela della salute, non solo
individuale, ma anche collettiva. All’accertamento in fatto dell’esistenza di
raccomandazioni circa il ricorso alla vaccinazione in esame, che certamente spetta
ai giudici comuni, deve perciò necessariamente seguire – nell’ambito di un giudizio
di legittimità costituzionale – la verifica, da parte di questa Corte, circa la
corrispondenza di tali raccomandazioni ai peculiari caratteri che, secondo una
costante giurisprudenza costituzionale, finalizzano il trattamento sanitario
raccomandato al singolo alla più ampia tutela della salute come interesse della
collettività, ed impongono, dunque, una estensione della portata normativa della
disposizione censurata (sentenza n. 268 del 2017).
3.– La verifica in parola fornisce esito positivo e le questioni sono perciò fondate.
3.1.– In primo luogo, l’ordinanza di rimessione dà atto dell’esistenza, in Regione
Puglia, di una campagna vaccinale antiepatite A proprio nell’epoca in cui il soggetto
– che ha rivendicato il diritto all’indennizzo – si era sottoposto alla somministrazione
di quel vaccino, a seguito, del resto, di una specifica convocazione da parte
dell’autorità sanitaria.
Originata, infatti, nel 1997 da una peculiare situazione epidemica regionale, la
campagna vaccinale, peraltro proseguita anche negli anni successivi, risulta esser
stata preceduta da approfondite indicazioni dell’Osservatorio epidemiologico
regionale, nonché tradotta, esattamente nei periodi rilevanti per il giudizio a quo, in
puntuali delibere del Consiglio e della Giunta regionale.
In particolare, con delibera del 2 luglio 1996, il Consiglio della Regione Puglia aveva
approvato un programma regionale delle vaccinazioni obbligatorie e facoltative, che
comprendeva l’offerta gratuita del vaccino antiepatite A in favore di determinate
categorie a rischio. In coerenza con tale programma, la Giunta regionale, con
delibera n. 4272 del 18 luglio 1996, aveva tra l’altro stabilito (sulla base dei
ricordati studi dell’Osservatorio epidemiologico) di promuovere una campagna di
vaccinazione antiepatite A riguardo, in particolare, ai nuovi nati ed ai giovani
dodicenni, stabilendo che la somministrazione avesse i caratteri della gratuità e
della volontarietà e che fosse preceduta ed accompagnata da un programma di
informazione della popolazione.
A seguito di queste decisioni, negli anni successivi, la copertura vaccinale dei gruppi
di popolazione interessati era cresciuta esponenzialmente, di pari passo ad una
diminuzione del contagio. Nondimeno, e sempre sulla base di dati forniti
dall’Osservatorio epidemiologico regionale, con delibera n. 2087 del 27 dicembre
2001, la Giunta, nell’approvare il Piano sanitario regionale 2002-2004, aveva
riproposto l’obiettivo di «realizzazione del programma di vaccinazione anti-epatite
A, confermando il carattere della gratuità e della volontarietà». In fase ancora
successiva, la stessa Giunta regionale, con delibera n. 1327 del 4 settembre 2003,
aveva stabilito di fornire alle strutture sanitarie locali “indicazioni operative” di
perdurante attuazione della copertura vaccinale contro il virus dell’epatite A nei
confronti dei soggetti adolescenti.
Questo, dunque, ricostruito nei suoi tratti essenziali dal giudice a quo, il contesto in
cui la parte privata del giudizio principale, nata nel 1990 e vaccinata con duplice
applicazione nel 2003 e nel 2004, era stata richiesta di prestarsi alla
somministrazione del vaccino.
3.2.– Al lume delle condizioni poste dalla giurisprudenza di questa Corte (sentenze
n. 268 del 2017, n. 107 del 2012, n. 423 del 2000 e n. 27 del 1998), anche nel
caso di specie si è effettivamente in presenza di un’ampia e insistita campagna di
informazione e raccomandazione da parte delle autorità sanitarie pubbliche, in tal
caso regionali, circa la forte opportunità, per alcune classi di soggetti, di sottoporsi
alla vaccinazione contro l’epatite A.
La campagna vaccinale in esame si è basata su accurati presupposti scientifici ed
epidemiologici, che hanno messo in luce il rischio di un’ampia diffusione del virus
dell’epatite A, attraverso contagi anche interpersonali. Essa, come del resto le
campagne temporalmente successive, mirava perciò all’obiettivo di una congrua
copertura immunitaria della popolazione, a presidio della salute di ciascun singolo,
dei soggetti a rischio, dei più fragili, e in definitiva della collettività intera.
3.3.– Come si è visto, la strategia vaccinale elaborata dalla Regione Puglia ha fatto
ricorso alla tecnica della raccomandazione, non a quella dell’obbligo (a prescindere
dalle modalità che caratterizzano il caso di specie, in cui l’interessata è stata
addirittura convocata da parte dell’autorità sanitaria per sottoporsi alla
vaccinazione). E la natura raccomandata della vaccinazione escluderebbe, in virtù
del tenore testuale del censurato art. 1, comma 1, della legge n. 210 del 1992, il
diritto all’indennizzo in capo ai soggetti che lamentino, quale conseguenza della
stessa, lesioni o infermità di carattere irreversibile.
Tuttavia, come ha pure messo in evidenza la giurisprudenza di questa Corte
(sentenza n. 268 del 2017), benché la tecnica della raccomandazione esprima
maggiore attenzione all’autodeterminazione individuale (o, nel caso di minori, alla
responsabilità dei genitori) e, quindi, al profilo soggettivo del diritto fondamentale
alla salute, tutelato dal primo comma dell’art. 32 Cost., essa è pur sempre
indirizzata allo scopo di ottenere la migliore salvaguardia della salute come
interesse (anche) collettivo.
Ferma la differente impostazione delle due tecniche, quel che rileva è l’obiettivo
essenziale che entrambe perseguono nella profilassi delle malattie infettive: ossia il
comune scopo di garantire e tutelare la salute (anche) collettiva, attraverso il
raggiungimento della massima copertura vaccinale. In questa prospettiva,
incentrata sulla salute quale interesse (anche) obiettivo della collettività, non vi è
differenza qualitativa tra obbligo e raccomandazione: l’obbligatorietà del
trattamento vaccinale è semplicemente uno degli strumenti a disposizione delle
autorità sanitarie pubbliche per il perseguimento della tutela della salute collettiva,
al pari della raccomandazione.
La stretta assimilazione tra vaccinazioni obbligatorie e vaccinazioni raccomandate è
stata ribadita da questa Corte anche in sentenze più recenti, nell’ambito di giudizi di
legittimità costituzionale proposti in via principale contro leggi regionali o statali,
perciò concernenti profili in parte diversi da quelli correlati al diritto all’indennizzo,
qui in discussione. Nondimeno, in queste stesse pronunce si è osservato che
«nell’orizzonte epistemico della pratica medico-sanitaria la distanza tra
raccomandazione e obbligo è assai minore di quella che separa i due concetti nei
rapporti giuridici. In ambito medico, raccomandare e prescrivere sono azioni
percepite come egualmente doverose in vista di un determinato obiettivo»
(sentenza n. 5 del 2018; nello stesso senso, sentenza n. 137 del 2019), cioè la
tutela della salute (anche) collettiva.
3.4.– In presenza di una effettiva campagna a favore di un determinato
trattamento vaccinale, è naturale che si sviluppi negli individui un affidamento nei
confronti di quanto consigliato dalle autorità sanitarie: e ciò di per sé rende la
scelta individuale di aderire alla raccomandazione obiettivamente votata alla
salvaguardia anche dell’interesse collettivo, al di là delle particolari motivazioni che
muovono i singoli.
Questa Corte ha conseguentemente riconosciuto che, in virtù degli artt. 2, 3 e 32
Cost., è necessaria la traslazione in capo alla collettività, favorita dalle scelte
individuali, degli effetti dannosi che da queste eventualmente conseguano.
La ragione che fonda il diritto all’indennizzo del singolo non risiede quindi nel fatto
che questi si sia sottoposto a un trattamento obbligatorio: riposa, piuttosto, sul
necessario adempimento, che si impone alla collettività, di un dovere di solidarietà,
laddove le conseguenze negative per l’integrità psico-fisica derivino da un
trattamento sanitario (obbligatorio o raccomandato che sia) effettuato nell’interesse
della collettività stessa, oltre che in quello individuale.
Per questo, la mancata previsione del diritto all’indennizzo in caso di patologie
irreversibili derivanti da determinate vaccinazioni raccomandate si risolve in una
lesione degli artt. 2, 3 e 32 Cost.: perché sono le esigenze di solidarietà
costituzionalmente previste, oltre che la tutela del diritto alla salute del singolo, a
richiedere che sia la collettività ad accollarsi l’onere del pregiudizio da questi subìto,
mentre sarebbe ingiusto consentire che l’individuo danneggiato sopporti il costo del
beneficio anche collettivo (sentenze n. 268 del 2017 e n. 107 del 2012).
Giova peraltro ribadire, come già in altre occasioni (sentenze n. 5 del 2018 e,
ancora, n. 268 del 2017), che la previsione del diritto all’indennizzo – in
conseguenza di patologie in rapporto causale con una vaccinazione obbligatoria o,
con le precisazioni svolte, raccomandata – non deriva affatto da valutazioni
negative sul grado di affidabilità medico-scientifica della somministrazione di
vaccini. Al contrario, la previsione dell’indennizzo completa il “patto di solidarietà”
tra individuo e collettività in tema di tutela della salute e rende più serio e affidabile
ogni programma sanitario volto alla diffusione dei trattamenti vaccinali, al fine della
più ampia copertura della popolazione.
3.5.– Da ultimo, merita sottolineare che non avrebbero rilievo, né in senso contrario
all’accoglimento delle questioni sollevate, né in vista di una limitazione della platea
dei possibili destinatari dell’indennizzo (attraverso una pronuncia di accoglimento
“mirata”), considerazioni relative al carattere meramente regionale (e non
nazionale) della campagna vaccinale esaminata, oppure al suo essersi indirizzata
prevalentemente nei confronti di una determinata platea di soggetti “a rischio”
(selezionati, per quanto qui rileva in particolare, in base all’età). Nemmeno
potrebbe giocare alcun ruolo, ai fini di una ipotetica limitazione dei soggetti cui
l’indennizzo deve essere corrisposto, la circostanza, pure messa in luce dal giudice
a quo, che la vaccinazione raccomandata in questione, per le classi di soggetti
considerati “a rischio”, appartenga alle prestazioni gratuite garantite dal Servizio
sanitario nazionale, in quanto ricompresa nei livelli essenziali di assistenza.
In primo luogo, la campagna vaccinale è stata bensì essenzialmente regionale, ma
essa ha trovato anche vari riscontri e corrispondenze nei piani vaccinali nazionali (in
particolare, di recente, il Piano nazionale prevenzione vaccinale 2017-2019),
nonché in una specifica raccomandazione del Ministero della salute del 26 luglio
2017 (recante «Aggiornamento delle raccomandazioni di prevenzione e
immunoprofilassi in relazione alla epidemia di Epatite A»), atti i quali prescindevano
e prescindono da riferimenti territoriali specifici.
In secondo luogo, non ha conseguenze, ai fini qui rilevanti, la circostanza che una
campagna informativa e di raccomandazione in favore di un determinato vaccino si
indirizzi direttamente verso soggetti considerati “a rischio” (per età, per abitudini,
per collocazione geografica).
Da una parte, infatti, quel che conta, è comunque l’affidamento che il singolo,
chiunque egli sia (soggetto a rischio o non), ripone nella raccomandazione delle
autorità sanitarie, ed è anche a partire da questo suo punto di vista che devono
essere delineati i fondamenti della tutela indennitaria.
Dall’altra, questa Corte (sentenza n. 268 del 2017) ha già osservato che, per
quanto direttamente rivolte a determinate categorie di soggetti, le campagne di
informazione e sensibilizzazione tese alla copertura vaccinale coinvolgono
inevitabilmente la generalità della popolazione, a prescindere da una pregressa e
specifica condizione individuale di salute, di età, di lavoro, di comportamenti:
giacché l’applicazione del trattamento, anche se in origine pensato soprattutto per
determinate classi di soggetti, consente sempre di tutelare sia la salute individuale,
sia quella della più ampia collettività, ostacolando il contagio dei soggetti non
compresi nelle categorie a rischio e contribuendo in tal modo alla protezione di
tutti, anche di coloro che, pur essendo soggetti in modo specifico al rischio, non
possono ricorrere alla vaccinazione a causa della propria specifica condizione di
salute. In definitiva, la posizione dei soggetti a rischio non elide affatto il rilievo
collettivo che la tutela della salute – attuata anche mediante la mera
raccomandazione di determinate pratiche vaccinali – assume altresì nei confronti
della popolazione in generale.
In terzo luogo, e infine, nemmeno la circostanza che la raccomandazione sia
accompagnata dalla gratuità della somministrazione (come accaduto, nel caso di
specie, per il vaccino antiepatite A) potrebbe fondare alcuna limitazione soggettiva
del novero dei destinatari dell’indennizzo.
Del resto, in disparte la questione se vincoli di ordine finanziario possano
giustificare limitazioni del novero dei soggetti cui la vaccinazione, in quanto inserita
nei livelli essenziali di assistenza (come è per il vaccino antiepatite A), sia
somministrabile gratuitamente, di certo quei vincoli non giustificano alcun esonero
dall’obbligo d’indennizzo, in presenza delle condizioni previste dalla legge.
In definitiva, la logica di un accoglimento “mirato” (per categoria di soggetti o per
porzione del territorio), oltreché contrastare con il fondamento scientifico
dell’azione vaccinale (che rinviene uno strumento di protezione della salute nella
più diffusa copertura immunitaria), risulterebbe confliggere con la logica stessa
della tutela indennitaria, che ripaga a spese di “tutti” un danno subito nell’interesse
di “tutti”, falsificando le stesse premesse della raccomandazione: fino a far
degradare la scelta vaccinale dell’appartenente ad una categoria a rischio, o del
residente in una data zona del territorio, a scelta di vaccinazione volontaria
(ancorché in ipotesi indispensabile per la sua salute), priva di diretti riflessi sociali,
cui non dovrebbe allora essere accordata una tutela costituzionalmente imposta,
ma, al più, un discrezionale sussidio (sentenze n. 55 del 2019, n. 293 del 2011, n.
342 del 1996, n. 226 del 2000).
4.– Alla luce di tutte le considerazioni svolte, l’art. 1, comma 1, della legge n. 210
del 1992 deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non
prevede il diritto a un indennizzo, alle condizioni e nei modi stabiliti dalla medesima
legge, a favore di chiunque abbia riportato lesioni o infermità, da cui sia derivata
una menomazione permanente della integrità psico-fisica, a causa della
vaccinazione contro il contagio dal virus dell’epatite A.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della legge 25
febbraio 1992, n. 210 (Indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da
complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie,
trasfusioni e somministrazioni di emoderivati), nella parte in cui non
prevede il diritto a un indennizzo, alle condizioni e nei modi stabiliti dalla
medesima legge, a favore di chiunque abbia riportato lesioni o infermità,
da cui sia derivata una menomazione permanente della integrità psicofisica, a causa della vaccinazione contro il contagio dal virus dell’epatite
A.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il
26 maggio 2020.
F.to:
Marta CARTABIA, Presidente
Nicolò ZANON, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 23 giugno 2020.