Ordinanza, Corte Suprema di Cassazione, III Sezione Civile, 6 luglio 2020, n. 13872, Responsabilità sanitaria– nesso eziologico:

Secondo la Corte di Cassazione in materia civilistica e, in particolare, in materia di responsabilità sanitaria l’accertamento del nesso eziologico si basa sul principio della preponderanza dell’evidenza, il quale si compone di due criteri: 1) “ più probabile che non”, secondo cui il giudice deve prediligere, in base alle prove allegate, l’ipotesi che ha un grado di conferma logica maggiore; 2) “prevalenza relativa”, in base al quale il giudice, qualora coesistano più ipotesi capaci di spiegare il fatto e le stesse abbiano avuto un plausibile fondamento probatorio, deve considerare come vero l’enunciato che ha ricevuto maggiore conferma dalle prove assunte.

Corte Suprema di Cassazione, III Sezione Civile, 6 luglio 2020, n. 13872:

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ARMANO Uliana – Presidente –
Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –
Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –
Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –
Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 17188/2018 proposto da:
M.A., M.L., M.M., domiciliati ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA
CORTE DI CASSAZIONE, rappresentati e difesi dall’avvocato ALESSANDRA
COLAO;

ricorrenti –
contro
AZIENDA OSPEDALIERA UNIVERSITARIA (OMISSIS), in persona del Direttore
della U.O. Affari Generali, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CAIO MARIO 27,
presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO ALESSANDRO MAGNI, che la
rappresenta e difende;

controricorrente –
avverso la sentenza n. 674/2018 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata
il 22/03/2018;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 12/02/2020 dal
Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI.
Svolgimento del processo

M.M., A. e L., in proprio, nonchè quali successori nel processo di M.R., deceduto
nelle more del giudizio di primo grado, ricorrono, sulla base di due motivi, per la
cassazione della sentenza n. 674/18, del 22 marzo 2018, della Corte di Appello di
Firenze, che – accogliendo il gravame esperito dall’Azienda Ospedaliera
Universitaria (OMISSIS) (d’ora in avanti, “Azienza Ospedaliera”), avverso la
sentenza n. 3396/14, del 3 novembre 2014, del Tribunale di Firenze – ha rigettato la
domanda proposta dagli odierni ricorrenti volta a far accertare la responsabilità della
predetta Azienda Ospedaliera, in relazione al decesso della proprio congiunta, T.L..

Riferiscono, in punto di fatto, i ricorrenti di aver convenuto in giudizio – in origine,
insieme al loro padre, M.R. – la predetta Azienda Ospedaliera, lamentando che, in
data (OMISSIS), T.L. (madre degli odierni ricorrenti e moglie di M.R.), ricoverata in
attesa dell’esecuzione di un intervento di chirurgico di sostituzione di valvola mitrale,
era deceduta a causa di un “violento shock emorragico”, in occasione di un
intervento di taracotomia, resosi necessario a seguito dell’insorgenza di “emotorace
massivo a destra”.
Assumevano, in particolare, gli allora attori che la morte della paziente era da
ricondurre alla condotta colposa dei sanitari dell’Azienda Ospedaliera, i quali, dopo
aver eseguito manovra di toracentesi per versamento pleurico, non avrebbero
effettuato gli opportuni controlli successivi, omettendo di diagnosticare
tempestivamente l’emotorace massivo che condusse la paziente alla morte.
Radicato il giudizio, lo stesso veniva istruito anche a mezzo di CTU medico-legale, la
quale, pur dando atto degli inadempimenti e dei ritardi compiuti dai sanitari,
concludeva nel senso di non poter stabilire con certezza il rapporto eziologico tra la
toracentesi espletata dai sanitari e l’emotorace massivo insorto, soggiungendo che
l’evoluzione del quadro clinico non consentiva di affermare che un eventuale esame
radiologico avrebbe evidenziato elementi tali da far supporre un’emorragia. Inoltre,
l’errore commesso in sede di perizia autoptica, che ravvisava la causa della morte
nello sfiancamento globale del cuore da anemia acuta metaemorragica,
addebitandolo all’operazione di sostituzione della valvola mitrale (intervento, in
realtà, programmato per il (OMISSIS), e dunque mai eseguito, essendo la T.
deceduta il giorno precedente), veniva attribuito ad un mero difetto di comunicazione
tra medici.
Il primo giudice accoglieva la domanda risarcitoria, pervenendo a tale conclusione
sul presupposto che la relazione causa-effetto tra la toratocentesi e l’emotorace –
sebbene la CTU avesse escluso la possibilità di affermarla con certezza – fosse, in
mancanza di qualunque ipotesi alternativa, “l’unica sul tavolo”, ed inoltre che,
“rispetto ad essa”, non risultava fornita prova, “che incombeva a parte convenuta”,
della “inevitabilità della lacerazione, o per lo meno della corretta esecuzione della
toratocentesi”.
Su gravame dell’Azienda Ospedaliera, il giudice d’appello riformava “in toto” la
sentenza di primo grado, ritenendo insussistente la prova del nesso eziologico tra la
condotta dei sanitari e il decesso della paziente, nonchè del carattere illecito della
condotta dei medici, anche omissiva.

Avverso la decisione della Corte toscana hanno proposto ricorso per cassazione i
germani M., sulla base – come detto di due motivi.
3.1. Con il primo motivo – proposto a norma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – si
deduce la violazione degli artt. 2697, 1218, 1176 e 2236 c.c. e dell’art. 116 c.p.c.,
laddove il giudice d’appello ha ritenuto non raggiunta la prova in ordine al nesso di
causalità e al carattere lesivo dell’operato medico (in relazione sia all’esecuzione
della manovra di toracentesi, sia all’omesso esame radiologico successivo alla
predetta manovra).
A ben vedere, il presente motivo si compone di una pluralità di doglianze.
Anzitutto, si censura l’errata distribuzione dell’onere probatorio tra le parti del
giudizio, paziente (o, per esso, come nel caso di specie, i suoi eredi) e struttura
ospedaliera, laddove il giudice d’appello ha posto in capo alla parte attrice l’onere di
provare la sussistenza del nesso di causa tra la condotta del sanitario e il danno
lamentato, dovendo, invece, essa limitarsi ad allegare un inadempimento qualificato
del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato.
Inoltre, i ricorrenti lamentano la violazione delle norme e dei principi che regolano
l’accertamento delle cause e (soprattutto) delle concause di un evento, nella parte in
cui la sentenza ha affermato che non vi fossero elementi per “stabilire con certezza
un rapporto di causa effetto tra la toracentesi e la comparsa di un emotorace”, e ciò
“non potendosi escludere altre possibili cause alternative del decesso, stante le
critiche condizioni di salute della T.”, rispetto a quella della lacerazione di un vaso
sanguigno. La Corte territoriale, da un lato, non avrebbe applicato il principio del “più
probabile che non” ai fini dell’accertamento dell’efficienza eziologica della condotta
della convenuta, richiedendo, al contrario, un insolito grado di certezza nella
causazione dell’evento, dall’altro, avrebbe individuato delle ipotetiche concause o
cause alternative al decesso, mai allegate nè provate da alcuno, formulando una
mera congettura. Inoltre, essa avrebbe fatto, erroneamente, ricadere sul
danneggiato le conseguenze dell’incertezza circa l’accertamento del nesso di causa.
Si censura, poi, la sentenza della Corte toscana laddove ha escluso la lesività della
condotta omissiva dei sanitari (consistita nella mancata esecuzione della radiografia
di controllo post toracentesi, di norma eseguita ad un’ora di distanza dalla manovra
stessa), in quanto, accedendo alle conclusioni della CTU (che pure ritiene
“sicuramente censurabile la mancata esecuzione del controllo radiologico”), ha
affermato che, anche nell’ipotesi in cui la radiografia fosse stata eseguita, non è
certo che essa avrebbe evidenziato l’emorragia in atto. Pure in questo caso la
sentenza avrebbe errato nella ripartizione dell’onere probatorio, dovendo porre a
carico della struttura sanitaria l’onere di provare che l’esame omesso avrebbe dato
un risultato negativo.
Infine, i ricorrenti censurano la sentenza laddove ha escluso il carattere lesivo della
condotta dei sanitari, sul rilievo che dall’esame della cartella clinica è emerso il
costante monitoraggio della paziente.
3.2. Con il secondo motivo – proposto a norma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – si
deduce la violazione degli artt. 2697, 1218, 1176 e 2236 c.c. e dell’art. 116 c.p.c.,
laddove la sentenza ha gravato i danneggiati della prova della colpa medica.
I ricorrenti ritengono che il giudice d’appello avrebbe dovuto porre a carico della
struttura sanitaria l’onere di provare di aver adempiuto diligentemente le proprie
obbligazioni, ovvero di aver eseguito correttamente la toracentesi.

L’Azienda Ospedaliera ha resistito, con controricorso, all’avversaria
impugnazione, chiedendone la declaratoria di inammissibilità ovvero, in subordine, di
infondatezza.
Quanto al primo motivo di ricorso, esso sarebbe inammissibile, in quanto si
risolverebbe in una critica dell’accertamento in fatto compiuto dal giudice di merito;
insindacabile in sede di legittimità: Inoltre, la censura relativa all’errata ripartizione
dell’onere probatorio sarebbe infondata alla luce degli insegnamenti di questa Corte
(si richiama Cass. Sez. 3, sent. 19 luglio 2018, n. 19204).
In relazione al secondo motivo di ricorso, si osserva che esso finisce per censurare
un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa,
travolgendo, dunque, l’apprezzamento compiuto dal giudice in ordine alle stesse.

Entrambe le parti hanno presentato memoria, insistendo nelle rispettive
argomentazioni.
Motivi della decisione

Il ricorso va accolto, per quanto di ragione.

Il primo motivo di ricorso è fondato, nei limiti di cui si dirà, ovvero in relazione alla
censura di violazione dei principi in tema di ricostruzione del nesso causale.
7.1. Quanto, infatti, alla censura concernente la ripartizione dell’onere probatorio del
nesso causale tra paziente danneggiato (o, come nella specie, i suoi eredi) e
struttura sanitaria, va ribadito – nel senso della sua infondatezza – che, nei giudizi
risarcitori da responsabilità sanitaria, si delinea “un duplice ciclo causale, l’uno
relativo all’evento dannoso, a monte, l’altro relativo all’impossibilità di adempiere, a
valle”. Orbene, il primo, “quello relativo all’evento dannoso, deve essere provato dal
creditore/danneggiato, il secondo, relativo alla possibilità di adempiere, deve essere
provato dal debitore/danneggiante. Mentre il creditore deve provare il nesso di
causalità fra l’insorgenza (o l’aggravamento) della patologia”, ovvero la morte, “e la
condotta del sanitario (fatto costitutivo del diritto), il debitore deve provare che una
causa imprevedibile ed inevitabile ha reso impossibile la prestazione (fatto estintivo
del diritto)” (così, in motivazione, tra le altre, Cass. Sez. 3, sent. 26 luglio 2017, n.
18392, Rv. 645164-01).
Ne consegue, dunque, che “la causa incognita resta a carico dell’attore
relativamente all’evento dannoso, resta a carico del convenuto relativamente alla
possibilità di adempiere. Se, al termine dell’istruttoria, resti incerti la causa del danno
o dell’impossibilità di adempiere, le conseguenze sfavorevoli in termini di onere della
prova gravano rispettivamente sull’attore o sul convenuto. Il ciclo causale relativo
alla possibilità di adempiere acquista rilievo solo ove risulti dimostrato il nesso
causale fra evento dannoso e condotta del debitore. Solo una volta che il
danneggiato abbia dimostrato che l’aggravamento della situazione patologica (o
l’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’intervento)”, ovvero la morte del
paziente, “è causalmente riconducibile alla condotta dei sanitari sorge per la
struttura sanitaria l’onere di provare che l’inadempimento, fonte del pregiudizio
lamentato dall’attore, è stato determinato da causa non imputabile” (così,
nuovamente, Cass. Sez. 3, sent. n. 18392 del 2017, cit.; nello stesso senso anche
Cass. Sez. 3, sent. 4 novembre 2017, n. 26824, non massimata; Cass. Sez. 3, sent.
7 dicembre 2017, n. 29315, Rv. 646653-01; Cass. Sez. 3, sent. 15 febbraio 2018, n.
3704, Rv. 647948-01; Cass. Sez. 3, ord. 23 ottobre 2018, n. 26700, Rv. 651166-01,
nonchè, da ultimo, Cass. Sez. 3, sent. 11 novembre 2019, n. 28991, Rv. 655828-01).
Si tratta, peraltro, di conclusione – come è stato di recente sottolineato – che tiene
conto della peculiare configurazione che il “sottosistema” della responsabilità per
attività sanitaria riveste nell’ambito del sistema “generale” della responsabilità
contrattuale.
Se, invero, nell’ambito di quest’ultimo, la “causalità materiale, pur teoricamente
distinguibile dall’inadempimento per la differenza fra eziologia ed imputazione, non è
praticamente separabile dall’inadempimento, perchè quest’ultimo corrisponde alla
lesione dell’interesse tutelato dal contratto e dunque al danno evento”, non
altrettanto può dirsi in ambito di responsabilità sanitaria, giacchè nel “diverso
territorio del “tacere” professionale la causalità materiale torna a confluire nella
dimensione del necessario accertamento della riconducibilità dell’evento alla
condotta”. Qui, infatti, “l’interesse corrispondente alla prestazione è solo strumentale
all’interesse primario del creditore” (che, nel caso del “facere” professionale del
sanitario, è quello alla guarigione), giacchè oggetto della prestazione sanitaria è solo
“il perseguimento delle “leges artis” nella cura dell’interesse del creditore” (o,
altrimenti detto, il diligente svolgimento della prestazione professionale), di talchè, il
“danno evento in termini di aggravamento della situazione patologica o di insorgenza
di nuove patologie attinge non l’interesse affidato all’adempimento della prestazione
professionale, ma quello presupposto corrispondente al diritto alla salute”. Ne
consegue, pertanto, che non essendo l’aggravamento della situazione patologica o
l’insorgenza di nuove patologie (ovvero la morte) “immanenti alla violazione delle
“leges artis””, potendo “avere una diversa eziologia”, all’onere del creditore/
danneggiato “di allegare la connessione puramente naturalistica fra la lesione della
salute, in termini di aggravamento della situazione patologica o insorgenza di nuove
patologie, e la condotta del medico”, si affianca – “posto che il danno evento non è
immanente all’inadempimento”, anche quello “di provare quella connessione” (così
Cass. Sez. 3, sent. n. 28991 del 2019, cit.).
Da quanto precede, dunque, deriva che – nel caso che occupa l’onere di provare il
nesso tra la morte della T. e la condotta dei medici dell’Azienda Ospedaliera gravava
sui suoi eredi, già attori ed odierni ricorrenti, sicchè, solo una volta assolto tale
onere, assume rilievo quello della convenuta di dimostrare che l’inadempimento,
fonte del pregiudizio lamentato dagli attori, è stato determinato da causa ad essa
non imputabile.
Tali rilievi, tuttavia, se comportano il rigetto della prima censura in cui si articola il
primo motivo di ricorso non pregiudicano l’esito dell’impugnazione proposta dai
germani M..
7.2. Diverso, infatti, è l’esito della seconda censura in cui si articola il primo motivo di
ricorso, ovvero quella di violazione della “regula iuris” relativa al riscontro del nesso
di causalità materiale tra condotta del sanitario ed evento dannoso.
Si legge, infatti, nella sentenza impugnata – che recepisce, sul punto, le conclusioni
della CTU – che l’esistenza di tale nesso, nella specie, è stata esclusa in assenza di
elementi “che permettano (…) di stabilire con certezza un rapporto di causa effetto
tra la toracentesi e la comparsa dell’emotorace” (fatto, quest’ultimo, certamente
all’origine del decesso per “shock emorragico”). La sentenza, anzi, addirittura
aggiunge che “il mancato riconoscimento di una lesione vascolare in sede
operatoria” (omissione che l’ausiliario del giudice attribuisce alla necessità, per i
sanitari, di concentrare tutti i loro sforzi, in quel momento, nel tentativo di salvare la
vita del paziente), nonchè in sede autoptica – circostanza, per inciso, assai meno
giustificabile, giacchè frutto di una grossolana superficialità, in quanto si è “supposta”
la causa dell’emorragia nell’intervento di sostituzione della valvola mitrale solo
programmato, ma in realtà mai effettuato, visto che il decesso della paziente
precedette la sua esecuzione – si sono posti come “elementi che impediscono di
stabilire in maniera inequivocabile che la causa dell’emotorace sia stata la
toracentesi”.
Sul punto va, in primo luogo, respinta l’eccezione di inammissibilità della censura
sollevata dalla controricorrente, secondo cui la doglianza tenderebbe ad una
rivalutazione delle risultanze istruttorie.
Al riguardo, per contro, appare necessario rammentare che “l’errore compiuto dal
giudice di merito nell’individuare la regola giuridica in base alla quale accertare la
sussistenza del nesso causale tra fatto illecito ed evento è censurabile in sede di
legittimità ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”, restando, invece, inteso che
“l’eventuale errore nell’individuazione delle conseguenze che sono derivate
dall’illecito, alla luce della regola giuridica applicata, costituisce una valutazione di
fatto, come tale sottratta al sindacato di legittimità, se adeguatamente
motivata” (Cass. Sez. 3, sent. 25 febbraio 2014, n. 4439, Rv. 630127-01).
La censura degli odierni ricorrenti investe il primo di tali profili, visto che si addebita
alla Corte territoriale di non aver applicato il principio del “più probabile che non”, ai
fini della ricostruzione dell’efficienza eziologica della condotta della convenuta,
avendo, anzi, essa addirittura applicato una regola probatoria che esige un “inedito”
grado di certezza nella causazione dell’evento.
7.2.1. Tale doglianza è, come già rilevato, fondata.
7.2.1.1. Per pervenire a tale conclusione, tuttavia, appare necessario muovere da
alcune, indispensabili, premesse.
In via preliminare, va qui evidenziato come – nel “territorio” della responsabilità civile,
ampiamente intesa (ovvero come nozione comprensiva della responsabilità da fatto
illecito ex art. 2043 c.c., non meno che da inadempimento contrattuale) – la verifica
del nesso di causalità, tra la condotta del presunto danneggiante e l’evento di danno
lamentato dal preteso danneggiato, costituisca, realmente, per riprendere un’ormai
classica espressione della letteratura giuridica sul tema, un “cespuglio spinoso”.
La presente non è, certo, la sede per ripercorrere l’estrema complessità che il tema
della causalità – prima ancora che sul piano giuridico, su quello epistemologico (se
non filosofico “tout court”) ha, da sempre, rivelato. Si potrà, qui, solo accennare –
sulla scorta di una rielaborazione del tema operata da una autorevole dottrina
processualcivistica – come, secondo alcuni approdi della filosofia della scienza, la
nozione di causa possa essere intesa, in una prospettiva cognitivistica, alla stregua
di un “idealized cognitive model”, ovvero di una “modalità tipizzata con cui la mente
umana organizza la conoscenza di eventi, persone e oggetti, e delle loro relazioni
caratteristiche, in strutture che risultano significative nel loro insieme”.
Analogamente, del resto, la causalità è ricostruita secondo un’impostazione in cui
riecheggia la concezione humiana del nesso causale quale meccanismo psicologico,
o meglio, specifica attitudine della mente (“la sola che possa spingersi al di là dei
sensi, ed informarci dell’esistenza di oggetti che non vediamo nè sentiamo”) a
stabilire una connessione regolare tra accadimenti – come, appunto, un “modello
mentale”, utilizzato per interpretare i dati dell’esperienza.
Tuttavia, quanto qui interessa è – naturalmente – la nozione di causalità rilevante per
il (ed agli effetti del) diritto, e ciò con particolare riferimento al sistema della
responsabilità civile, ove la causalità assolve “alla duplice finalità di fungere da
criterio di imputazione del fatto illecito e di regola operativa per il successivo
accertamento dell’entità delle conseguenze pregiudizievoli del fatto che si traducono
in danno risarcibile” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 16 ottobre 2007, n.
21619, Rv. 599816-01). Esistono, infatti, nella ricostruzione, a tali fini, del nesso
causale – secondo le indicazioni fornite dalle Sezioni Unite di questa Corte – “due
momenti diversi”, ovvero “la costruzione del fatto idoneo a fondare la
responsabilità” (vale a dire, il momento della ricostruzione della “causalità materiale
o di fatto”, altrimenti definita pure come “Haftungsbegrundende Kausalitat”), e “la
successiva determinazione dell’intero danno cagionato, che costituisce l’oggetto
dell’obbligazione risarcitoria”, ovvero l’operazione che, “collegando l’evento al danno,
consente l’individuazione delle singole conseguenze dannose, con la precipua
funzione di delimitare, a valle, i confini di una (già accertata) responsabilità
risarcitoria”, ovvero il momento dell’apprezzamento della cosiddetta “causalità
giuridica”, della “Haftungsausfullende Kausalitat”, nel quale un ruolo rilevate è svolto
dall’art. 1223 c.c. (così, in motivazione, Cass. Sez. Un., sent. 11 gennaio 2008, n.
576, Rv. 600899-01; nello stesso senso, sempre in motivazione, già Cass. Sez. 3,
sent. 21619 del 2007, cit., mentre per l’applicazione successiva di tali principi si
vedano, nuovamente in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 21 luglio 2011, n. 15991,
Rv. 618882-01, nonchè, più di recente, Cass. Sez. 3, sent. 21 gennaio 2020, n.
1164, Rv. 656634-01).
A venire in rilievo, nel caso oggetto del presente giudizio di legittimità (o meglio, nello
scrutinio della censura che qui, partitamente, si esamina), è il primo di tali momenti.
7.2.1.2. Ciò premesso, va ulteriormente precisato – ancora una volta, sulla scorta dei
“dicta” delle Sezioni Unite di questa Corte – che la ricostruzione della “problematica
causale”, con riferimento alla suddetta “causalità materiale o di fatto, presenta
rilevanti analogie con quella penale, artt. 40 e 41 c.p.”, giacchè “il danno rileva solo
come evento lesivo” (così, in motivazione, Cass. Sez. Un., sent. n. 576 del 2008; per
l’applicazione degli artt. 40 e 41 c.p., al nesso di causalità materiale dell’illecito civile
si vedano anche Cass. Sez. 3, sent. 11 maggio 2009, n. 10741, Rv. 608391-01;
Cass. Sez. 3, sent. 8 luglio 2010, n. 16123, Rv. 613967-01; Cass. Sez. 3, ord. 12
aprile 2011, n. 8430, Rv. 616864-01). Sino a che punto, tuttavia, possa predicarsi
siffatta “analogia”, è quanto ha formato oggetto di puntualizzazione da parte della
giurisprudenza di questa Corte, culminata nel riconoscimento di un criterio di
ricostruzione del nesso causale – definito della “preponderanza dell’evidenza” (o
anche del “più probabile che non”) – differente da quello, “oltre ogni ragionevole
dubbio”, utilizzato nel sistema della responsabilità penale.
L’esito di tale percorso – dei cui effetti, rispetto al caso qui in esame, si dirà meglio di
seguito – richiede, tuttavia, ulteriori puntualizzazioni.
Invero, si è già sottolineata, in passato, da parte di questa Corte, la natura “muta”
della dizione contenuta nell’art. 40 c.p., giacchè essa – nello stabilire che l’evento
dannoso o pericoloso deve porsi come “conseguenza” dell’azione o omissione del
soggetto “candidato” al riconoscimento della responsabilità – non enuncerebbe, in
realtà, “alcuna “regola” causale”, risolvendosi in “una mera enunciazione lessicale”,
e ciò “se per regola correttamente si intende una proposizione che offre risposta al
triplice interrogativo “quando, come, perchè”” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3,
sent. 17 settembre 2013, n. 21255, Rv. 628702-01). D’altra parte, quello di
“conseguenza” – come è stato evidenziato, di recente, da un’attenta dottrina
civilistica – “non è un concetto normativo e, dunque, rinvia a saperi extragiuridici”, sui
quali “il diritto poi interviene con proprie autonome scelte di fondo che conducono
alla rielaborazione in termini giuridici delle conclusioni offerte dall’applicazione del
sapere extragiuridico cui, di volta in volta, si è attinto”. In questa stessa prospettiva
teorica, dunque, la “causalità materiale” (o “di fatto”), si rivelerebbe essa stessa una
“formula decettiva perchè suggerisce, in maniera contraria al vero, che si sia in
presenza di una nozione pregiuridica, mentre si è al cospetto di un concetto
normativo con aperture extrasistemiche che scaturisce dalla riformulazione giuridica
di saperi che appartengono a sistemi normativi diversi dal diritto”. Non è, pertanto,
un caso se le stesse ricostruzioni dommatiche e giurisprudenziali, che pure, “in
applicazione dei principi penalistici, di cui agli artt. 40 e 41 c.p., ritengono che un
evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il
primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (cd. teoria della “condicio
sine qua non”)” (così, nuovamente, Cass. Sez. Un., n. 576 del 2008, cit., che,
peraltro, precisa come il principio dell’antecedente necessario trovi “il suo
temperamento nel principio di causalità efficiente, desumibile dell’art. 41 c.p., comma
2″, norma che ha la funzione di escludere il rilievo eziologico di quegli antecedenti
che si collocano “fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale già in atto”),
reputino di dover ricostruire il nesso di causalità materiale in base alla cd. teoria
condizionalistica, “corretta” secondo il metodo della sussunzione sotto leggi
scientifiche.
E’, quest’ultimo, un modello ricostruttivo in base al quale la relazione intercorrente tra
due accadimenti viene – per richiamare la dottrina processualistica già in precedenza
citata – “provata in via inferenziale, ossia dimostrando che esiste una legge “di
copertura” riferibile al caso di specie”; un modello detto anche “nomologicodeduttivo”, in quanto l’inferenza “è “nomologica” perchè si fonda su una legge di
copertura, ed è “deduttiva” perchè questa legge di copertura è – almeno in linea di
principio – generale, e quindi include il caso particolare che è oggetto di
considerazione”.
7.2.1.3. Senonchè, proprio seguendo una simile impostazione come sottolinea la
dottrina civilistica, di cui pure si diceva – il tema della ricostruzione del nesso di
causalità finisce, nuovamente, per “coinvolgere anche il problema epistemologico
dei limiti della conoscenza scientifica”.
Invero, secondo quanto rilevato nuovamente – tra le altre – dalla dottrina da ultimo
menzionata, la “rivoluzione realizzata dalla teoria eisteiniana della relatività, con la
sua ridefinizione della concezione del tempo e della successione degli eventi”, in
uno con lo sviluppo della “meccanica quantistica, la quale ha condotto al
riconoscimento della natura statistica delle leggi ultime dei processi elementari”,
costituiscono altrettanti fattori di un vero e proprio rovesciamento della nozione
stessa di scoperta scientifica (o meglio, della sua “logica”). Ne è derivato, infatti, un
nuovo paradigma, nel quale, al concetto di “verità” dell’ipotesi scientifica, è
subentrato quello di “non falsificabilità” della stessa.
Orbene, “in un contesto epistemologico nel quale la scienza non è più sicura di sè e
delle sue leggi” – per dirla con un autorevole dottrina civilistica – “la causalità da
risultanza naturalistica o di esperienza, a seconda del contesto filosofico nel quale
essa può essere innestata”, risulterebbe scadere “a mera valutazione assistita dal
riferimento statistico”, sicchè non più di “causalità” in senso proprio sarebbe lecito
discorrere, bensì di “un criterio ideale di collegamento tra fatti che mima quello
causale, ma invece di accertarlo lo considera “als ob”, come se, in base a una
valutazione che non è l’esito di una ricognizione puramente naturalistica, bensì un
giudizio squisitamente orientato alla soluzione del problema di responsabilità”. Tale,
dunque, sarebbe l’esito “inevitabile”, dell’avvenuta “assimilazione, all’interno della
categoria “leggi scientifiche” delle leggi universali e delle leggi statistiche, in base
all’idea che “tutte le leggi scientifiche debbono essere considerate probabilistiche””.
A tale ordine di considerazioni non è rimasta estranea neppure la giurisprudenza di
questa Corte, la quale ha, da tempo, osservato che “lo stesso sintagma
“accertamento del nesso causale” cela una prima, latente, insidia lessicale, dacchè
ogni “accertamento” postula e tende ad una operazione logico-deduttiva o logicoinduttiva che conduca ad una conclusione, appunto, “certa”; mentre un’indagine, per
quanto rigorosa, funzionale a predicarne l’esistenza sul piano del diritto, si arresta,
sovente, quantomeno in sede civile, sulle soglie del giudizio probabilistico (sia pur
connotato da un diverso livello di intensità, dalla “quasi certezza” alla “seria ed
apprezzabile possibilità)” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. n. 21619 del
2007, cit., nonchè, in senso analogo e sempre in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. n.
15991 del 2011, cit.).
Ciò, tuttavia, non equivale – come si è addebitato a questa Corte – ad una
“svalutazione” del sapere scientifico, e quindi dell’apporto che esso è in grado di
fornire, proprio in relazione alla ricostruzione di quell’elemento della fattispecie della
responsabilità civile che è costituito dal nesso causale. Per contro, e specificamente
nell’ambito del sottosistema della responsabilità da malpractice sanitaria (che viene
in rilievo nel presente caso), questa Corte ha sottolineato la centralità dei saperi
scientifici, dei quali il giudice può fruire pure attraverso il contributo di quell’ausiliario
qualificato che è il consulente tecnico d’ufficio. Si è, infatti, affermato che, in materia
di responsabilità sanitaria, “la consulenza tecnica è di norma “consulenza
percipiente” a causa delle conoscenze tecniche specialistiche necessarie, non solo
per la comprensione dei fatti, ma per la rilevabilità stessa dei fatti, i quali, anche solo
per essere individuati, necessitano di specifiche cognizioni e/o strumentazioni
tecniche; atteso che, proprio gli accertamenti in sede di consulenza, offrono al
giudice il quadro dei fattori causali entro il quale far operare la regola probatoria della
certezza probabilistica per la ricostruzione del nesso causale” (così, in motivazione,
Cass. Sez. 3, sent. 20 ottobre 2014, n. 22225, Rv. 632945-01).
Il riconoscimento del carattere (spesso) soltanto “relativo” delle “certezze” espresse
dalle leggi scientifiche, pertanto, non vuole – nè può essere – l’adesione a quel
modello ricostruttivo, pure proposto da autorevole dottrina, soprattutto penalistica, e
un tempo recepito anche dalla giurisprudenza civile di questa Corte (si veda, a titolo
di esempio, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 28 aprile 1994, n. 4440), che affida la
ricostruzione del nesso causale alla “certezza morale” del giudicante in ordine alla
sussistenza di una legge di copertura, in grado di spiegare l’efficienza eziologica
della condotta del (presunto) danneggiante. Una simile impostazione, nella quale
riecheggia la teoria della “intime conviction du juge” di certa letteratura giuridica
d’oltralpe, presta il fianco, infatti, alla facile obiezione – espressa dalla dottrina
processuale, qui già più volte richiamata – secondo cui “non è chiaro il significato
dell’aggettivo “morale”, riferito al convincimento del giudice intorno all’esistenza di
una legge causale”, giacchè, se la ricostruzione del nesso di causalità pone
“problemi di prova, e quindi di carattere conoscitivo, non è facile intendere quale
possa essere la “moralità” del convincimento del giudice”.
In definitiva, come osserva sempre questa stessa dottrina, il problema della causalità
materiale, si risolve nella “dimostrazione probatoria della verità di un enunciato”,
ovvero quello che “descrive un nesso di causalità naturale e specifica” tra la
condotta del supposto danneggiante e l’evento lesivo lamentato dal preteso
danneggiato, sicchè, in ultima analisi, il cuore della questione consiste
nell’individuare “i criteri secondo i quali il giudice, in presenza di elementi di prova
che riguardano l’enunciato relativo all’esistenza di un nesso causale, stabilisce se
tale enunciato ha o non ha ricevuto una adeguata conferma probatoria”. Come
osservato da questa Corte, la verifica della sussistenza del nesso causale non è più
“soltanto questione di ricostruzione dei fatti nel loro svolgersi fenomenologico, ma
sempre ed anche vicenda “giuridica”, cioè questione anche di diritto, e, più
precisamente, vero e proprio ragionamento probatorio sui fatti, allegati e non,
dimostrati e non” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. n. 15991 del 2011, cit.).
Ragionamento da compiersi, evidentemente, in applicazione dell’art. 116 c.p.c.,
comma 1, senza, però, che ciò equivalga – come è stato ipotizzato – ad “avallare
l’angoscia nichilistica di un libero convincimento che sembra rimasto una mera
“scatola vuota””.
Difatti, se è vero – come sottolinea la dottrina processuale prima richiamata – che il
principio del libero convincimento, mentre “ha un chiaro significato negativo, nel
senso che svincola il giudice da regole legali di valutazione della prova”, esso “ha
tuttora un significato positivo quanto mai incerto”, visto che “non indica in quale
modo il giudice il giudice debba esercitare questo potere discrezionale” di
valutazione della prova. Nondimeno, sempre secondo tale condivisibile
impostazione, “il libero convincimento svincola il giudice da regole di prova legale,
ma non lo esime dall’osservanza dei criteri di razionalità e controllabilità logica del
ragionamento probatorio, soprattutto negli ordinamenti – come il nostro – nei quali
egli è soggetto all’obbligo di motivare la sua decisione con argomenti idonei a fornire
di essa un giustificazione razionale ed intersoggettivamente accettabile”.
Di ciò, del resto, si mostra ben consapevole questa Corte.
Invero, pur a fronte dell’avvenuta riduzione al “minimo costituzionale” – ai sensi
dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), nel testo “novellato” dal D.L. 22 giugno 2012, n.
83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012,
134 – del proprio sindacato sulla parte motiva della sentenza impugnata, essa ha
ribadito (tra l’altro, proprio con riferimento alla motivazione che abbia ad investire la
ricostruzione del nesso causale) il proprio potere di “verificare l’estrinseca
correttezza del giudizio di fatto sotto il profilo della manifesta implausibilità del
percorso che lega la verosimiglianza delle premesse alla probabilità delle
conseguenze”, e, pertanto, la possibilità di “sindacare la manifesta fallacia o non
verità delle premesse o l’intrinseca incongruità o contraddittorietà degli argomenti,
onde ritenere inficiato il procedimento inferenziale ed il risultato cui esso è
pervenuto, per escludere la corretta applicazione della norma entro cui è stata
sussunta la fattispecie” (così Cass. Sez. 3, sent. 5 luglio 2017, n. 16502, Rv.
644818-01).
7.2.1.4. Tuttavia, se discutere della causalità materiale (soprattutto, come si dirà
meglio di seguito, di quella definita come “individuale”, o “specifica”) significa
interrogarsi su di una regola probatoria, è proprio su questo piano che vanno
apprezzate le differenti soluzioni offerte dalla giurisprudenza di legittimità, penale e
civile, al problema della verifica del nesso causale, costituendo le stesse null’altro
che il riflesso della diversità – morfologica e funzionale – dei due sistemi di
responsabilità, con i quali il giudice si confronta.
Difatti, nella “ricostruzione del nesso causale, ciò che muta sostanzialmente tra il
processo penale e quello civile è la regola probatoria, in quanto nel primo vige la
regola della prova “oltre il ragionevole dubbio” (cfr. Cass. Pen. S.U. 11 settembre
2002, n. 30328, Franzese), mentre nel secondo vige la regola della preponderanza
dell’evidenza o “del più probabile che non”, stante la diversità dei valori in gioco nel
processo penale tra accusa e difesa, e l’equivalenza di quelli in gioco nel processo
civile tra le due parti contendenti” (così, in particolare, in motivazione, Cass. Sez.
Un., sent. n. 576 del 2008, cit.; in senso conforme, tra le più recenti, si vedano Cass.
Sez. 3, ord. 27 settembre 2018, n. 23197, Rv. 65060201, in motivazione, nonchè
Cass. Sez. Lav., sent. 3 gennaio 2017, n. 47, Rv. 642263-01).
Del resto, come osservato da questa Corte già prima del citato arresto delle Sezioni
Unite, sempre al fine di chiarire la diversità – in sede civile e penale – delle regole
probatorie in materia di causalità, queste ultime riflettono la differente morfologia e
funzione dei due sistemi. Invero, quanto al profilo morfologico, deve considerarsi
“come il baricentro della disciplina penale con riferimento al profilo causale del fatto
sia sempre e comunque rivolto verso l’autore del reato/soggetto responsabile,
orbitando, viceversa, l’illecito civile (quantomeno a far data dagli anni ‘60) intorno alla
figura del danneggiato” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. n. 21619 del 2007,
cit.). Quanto, poi, al profilo funzionale, più ancora che la constatazione – valida,
invero, per il solo caso in cui venga in rilievo un’ipotesi di responsabilità per
omissione – secondo cui una “valutazione del nesso di causa, fondata
esclusivamente sul semplice accertamento di un aumento (o di una speculare,
mancata diminuzione) del rischio in conseguenza della condotta omessa, è criterio
ermeneutico che inquieta l’interprete penale, poichè realmente trasforma
surrettiziamente la fattispecie del reato omissivo improprio da vicenda di danno in
reato di pericolo (o di mera condotta), mentre la stessa preoccupazione non pare
esportabile in sede civile, dove l’accento è posto, ormai, sul concetto di “danno
ingiusto”” (cfr. ancora una volta, e nuovamente in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. n.
21619 del 2007, cit.), decisivo appare quanto osservato in dottrina. Ovvero, che i
sistemi dell’illecito penale e del torto civile si caratterizzano, rispettivamente, “per la
personalità quanto alla pena, come ora ci sollecita a rilevare l’art. 27 Cost., comma 1
e per la patrimonialità quanto al risarcimento”, giacchè se “quest’ultimo è
essenzialmente riparazione, la pena è il negativo che si contrappone al negativo
dell’illecito in sè”. Una conclusione da tenere ferma pur a fronte dell’avvenuto
riconoscimento della non estraneità, al disegno costituzionale della responsabilità
civile, del carattere “polifunzionale” della stessa, poichè tale esito “non significa che
l’istituto aquiliano abbia mutato la sua essenza”, la quale resta principalmente quella
riparatoria, visto che “questa curvatura deterrente/sanzionatoria” della responsabilità
civile “esige una “intermediazione legislativa”, in forza del principio di cui all’art. 23
Cost. (correlato agli artt. 24 e 25), che pone una riserva di legge quanto a nuove
prestazioni patrimoniali” (così, in motivazione, Cass. Sez. Un., sent. 5 luglio 2017, n.
Rv. 644914-01, n. 16601, in tema di “punitive damages”).
7.2.1.5. Nè, d’altra parte, a contrastare tale conclusione, ovvero la necessità di
mantenere distinte in sede civile e penale – giacchè espressione delle differenti
caratteristiche dei due sistemi – le regole probatorie relative al riscontro del nesso
causale, vale l’obiezione formulata proprio dalla dottrina da ultima citata.
Il rilievo critico, come noto, si basa sulla constatazione che l’azione civile di danno
può essere esercita – a norma degli artt. 74 c.p.p. e segg. e dell’art. 185 c.p. – anche
nel giudizio penale, sicchè la teorizzata (da questa Corte) “duplicità del criterio
causale potrebbe avere come esito un fatto ritenuto in pari tempo causalmente
rilevante e no”.
Al riguardo, tuttavia, deve rilevarsi che il vigente codice di procedura penale,
scegliendo di limitare drasticamente i casi di sospensione del giudizio penale per
pregiudizialità civile (art. 3), allargando, per converso, quelli di accertamento
incidentale del giudice penale (art. 2), ha optato per “il principio di separatezza dei
due giudizi” (così, da ultimo, Cass. Sez. 3, ord. 15 luglio 2019, n. 18918, Rv.
654448-02), nell’ambito del quale persino il rischio del contrasto di giudicati non
costituisce (più) un’evenienza, per così dire, “patologica”, o meglio disfunzionale.
Invero, corna ancora di recente ribadito dalla giurisprudenza costituzionale, nel
processo penale l’azione civile “assume carattere accessorio e subordinato rispetto
all’azione penale, sicchè è destinata a subire tutte le conseguenze e gli adattamenti
derivanti dalla funzione e dalla struttura del processo penale, cioè dalle esigenze, di
interesse pubblico, connesse all’accertamento dei reati e alla rapida definizione dei
processi”, essendo, invero, “l’idea di fondo sottesa alla nuova codificazione”, quella
“che la costituzione di parte civile non dovesse essere comunque
“incoraggiata”” (così, da ultimo, Corte Cost., sent. 3 aprile 2019, n. 176.
Orbene, proprio tale “adattamento”, conosciuto dell’azione civile esercitata in sede
penale, non è privo di conseguenze, nuovamente, sul piano delle “regole
probatorie” (non escluse, ovviamente, quelle relative al riscontro del nesso causale).
Infatti, qualora il soggetto asseritamente danneggiato scelga peraltro, sempre con
possibilità di esercitare lo “ius poenitendi”, dal momento che la revoca della
costituzione di parte civile “non preclude il successivo esercizio dell’azione in sede
civile” (art. 82 c.p.p., comma 4) – di far valere, nel processo penale, la propria
pretesa risarcitoria, egli vede esaminata la propria domanda da un giudice la cui
potestà decisoria non coincide con quella delineata dall’art. 115 c.p.c., comma 1,
secondo cui, fatti salvi i diversi casi previsti dalla legge, la sua pronuncia interviene
“iuxta alligata et probata partium”. Diversamente da quello civile, il giudice penale,
nell’esercizio della propria “potestas iudicandi”, è invece legittimato con effetti,
evidentemente, anche in ordine alla pretesa risarcitoria azionata dalla parte civile –
ad avvalersi di un potere di “integrazione probatoria”, quello disciplinato dall’art. 507
c.p.p., che va oltre l’assunzione di “nuovi” mezzi di prova (come tale norma, nella
sua formulazione letterale, parrebbe suggerire). Di tale potere, infatti, esso può
avvalersi sia nel caso in cui le parti siano decadute dalla prova testimoniale per la
mancata o tardiva indicazione dei testimoni nella lista prevista dall’art. 468 c.p.p.,
sia, persino, in quello in cui non vi “sia stata ad iniziativa di esse una qualunque
attività probatoria” (Corte Cost., sent. 24 marzo 1993, n. 111). Difatti, la
giurisprudenza costituzionale – come già, per vero, quella di questa Corte (cfr. Cass.
Sez. Un. Pen., sent. dep. 21 novembre 1992, n. 11227, Rv. 191606-01), ha escluso
che il vigente codice di procedura penale abbia riservato al giudice “essenzialmente
un ruolo di garante dell’osservanza delle regole di una contesa tra parti
contrapposte”, nell’ambito di un giudizio che “avrebbe la funzione non di accertare i
fatti reali onde pervenire ad una decisione il più possibile corrispondente al risultato
voluto dal diritto sostanziale, ma di attingere – nel presupposto di un’accentuata
autonomia finalistica del processo – quella sola “verità” processuale che sia possibile
conseguire attraverso la logica dialettica del contraddittorio e nel rispetto di rigorose
regole metodologiche e processuali coerenti al modello”, modello del quale,
pertanto, uno degli assi portanti sarebbe “l’operatività di un principio dispositivo sotto
il profilo probatorio”. Per contro, si è ribadito che “fine primario ed ineludibile del
processo penale non può che rimanere quello della ricerca della verità”, di talchè,
“ad un ordinamento improntato al principio di legalità (art. 25 Cost., comma 2) – che
rende doverosa la punizione delle condotte penalmente sanzionate – nonchè al
connesso principio di obbligatorietà dell’azione penale” non possono ritenersi
“consone norme di metodologia processuale che ostacolino in modo irragionevole il
processo di accertamento del fatto storico necessario per pervenire ad una giusta
decisione” (così, Corte Cost., sent. n. 111 del 1993, cit.).
Nel contesto, dunque, di un simile processo, che rigetta il principio dispositivo in
materia di prova, deve ritenersi del tutto ragionevole – fugando i dubbi che sono stati,
al riguardo, paventati dalla citata dottrina – che la “utilitas” tratta dalla parte civile, nel
vedere esaminata la propria domanda risarcitoria da un giudice munito di un ampio
potere officioso di “integrazione” della prova, risulti “controbilanciata” dalla necessità
che quella prova, nella misura in cui investe (anche) il nesso causale tra la condotta
del preteso responsabile e l’evento di danno lamentato dall’asserito danneggiato,
venga raggiunta “oltre ogni ragionevole dubbio”.
7.2.1.6. Chiarite, pertanto, le ragioni dell’operatività – nel giudizio civile di danno –
della regola probatoria del “più probabile che non”, occorre illustrarne le modalità di
applicazione.
Essa – anche denominata, forse in modo preferibile, come “preponderanza
dell’evidenza” – costituisce, in realtà (lo sottolinea, nuovamente, la dottrina
processuale più volte richiamata), la “combinazione di due regole: la regola del “più
probabile che non” e la regola della “prevalenza relativa” della probabilità”.
La regola del “più probabile che non”, in particolare – per riprendere tale
impostazione dommatica – “implica che rispetto ad ogni enunciato si consideri
l’eventualità che esso possa essere vero o falso, ossia che sul medesimo fatto vi
siano un’ipotesi positiva ed una complementare ipotesi negativa”, sicchè, tra queste
due ipotesi alternative, “il giudice deve scegliere quella che, in base alle prove
disponibili, ha un grado di conferma logica superiore all’altra: sarebbe infatti
irrazionale preferire l’ipotesi che è meno probabile dell’ipotesi inversa”. In altri
termini, l’affermazione della verità dell’enunciato implica “che vi siano prove
preponderanti a sostegno di essa: ciò accade quando vi sono una o più prove dirette

di cui è sicura la credibilità o l’autenticità – che confermano quell’ipotesi, oppure vi
sono una o più prove indirette dalle quali si possono derivare validamente inferenze
convergenti a sostegno di essa”.
Per parte propria, la regola della “prevalenza relativa” della probabilità, rileva –
quanto al nesso causale, nel caso di cd. “multifattorialità” nella produzione di un
evento dannoso (ovvero quando all’ipotesi, formulata dall’attore, in ordine
all’eziologia dell’evento stesso, possano affiancarsene altre) – allorchè “sullo stesso
fatto esistano diverse ipotesi, ossia diversi enunciati che narrano il fatto in modi
diversi, e che queste ipotesi abbiano ricevuto qualche conferma positiva dalle prove
acquisite al giudizio”, dovendo, invero, essere prese in considerazione “solo le
ipotesi che sono risultate “più probabili che non”, poichè le ipotesi negative
prevalenti non rilevano”. Orbene, ricorrendo tale evenienza, vale a dire se “vi sono
più enunciati sullo stesso fatto che hanno ricevuto conferma probatoria, la regola
della prevalenza relativa” – sempre secondo l’impostazione dottrinaria di cui sopra –
“implica che il giudice scelga come “vero” l’enunciato che ha ricevuto il grado
relativamente maggiore di conferma sulla base delle prove disponibili”.
Quello che viene, così, a delinearsi – per dirla, questa volta, con la giurisprudenza di
questa Corte – è un modello di “certezza probabilistica”, nel quale “il procedimento
logico-giuridico” da seguire “ai fini della ricostruzione del nesso causale” implica che
l’ipotesi formulata vada verificata “riconducendone il grado di fondatezza all’ambito
degli elementi di conferma (e nel contempo di esclusione di altri possibili alternativi)
disponibili in relazione al caso concreto (c.d. probabilità logica o baconiana)”, nel
senso, cioè, che in tale “schema generale della probabilità come relazione logica va
determinata l’attendibilità dell’ipotesi sulla base dei relativi elementi di conferma (c.d.
evidence and inference nei sistemi anglosassoni)” (così, in motivazione, Cass. Sez.
Un., sent. n. 576 del 2008, cit., nello stesso senso, più di recente, Cass. Sez. 3, sent.
20 febbraio 2015, n. 3390, Rv. 634481-01; Cass. Sez. 3, ord. 29 gennaio 2018, n.
2061, non massimata, Cass. Sez. 3, ord. n. 23197 del 2018, cit.).
La nozione di probabilità “baconiana”, o “logica”, si distingue, dunque, dalla
probabilità “quantitativa” (i cui concetti e calcoli poco si prestano – come osservato
dalla migliore dottrina processualistica – a essere applicati al ragionamento sulle
prove), riferendosi al grado di conferma (ossia al cd. “evidential weight”, al peso
probatorio) che l’ipotesi, relativa all’efficienza eziologica della condotta del preteso
danneggiante a cagionare l’evento di danno lamentato dall’asserito danneggiato,
riceve sulla base delle inferenze tratte dagli elementi di prova disponibili.
7.2.2. Orbene, alla luce di tutte le considerazioni che precedono, risulta, di tutta
evidenza, il vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), in cui è incorsa – nel caso che
occupa – la sentenza impugnata.
Essa, sul presupposto che la disposta CTU ebbe ad evidenziare che “l’emotorace, a
seguito di toracentesi, è evenienza rara”, sicchè “la possibilità di ravvisare la causa
dell’emotorace nella toracentesi può essere posta in dubbio”, ha escluso di poter
“stabilire con certezza un rapporto di casa effetto” tra due accadimenti. Anzi, ha
soggiunto che “il mancato riconoscimento di una lesione vascolare in sede
operatoria e autoptica” (un esito questo, tuttavia, non del riscontro della inesistenza
di tale lesione, bensì del fatto che i chirurghi e il medico legale – impegnati,
rispettivamente, in tali sedi non effettuarono, per le ragioni già illustrate, verifiche di
sorta, “atte ad identificare la fonte del sanguinamento” che determinò il decesso
della paziente) avrebbe impedito “di stabilire in maniera inequivocabile che la causa
dell’emotorace sia stata la toracentesi”.
Così argomentando, tuttavia, la Corte territoriale ha affidato il riscontro del nesso
causale ad un criterio persino più rigoroso di quello utilizzato in sede penale,
giacchè, in tale ambito, l’efficienza eziologica della condotta addebitata all’imputato è
vagliata non già in termini di “certezza” (nè tantomeno di “inequivocabilità”), ma,
come detto, secondo la regola probatoria che impone di affermarne la responsabilità
“oltre ogni ragionevole dubbio”.
La sentenza impugnata ha, dunque, disatteso la “regula iuris” che impone di
accertare il nesso di causalità materiale secondo il criterio – consono alla morfologia
e alla funzione del sistema della responsabilità civile – del “più probabile che non” (o
meglio, della “preponderanza dell’evidenza”), nel duplice significato che si è, dianzi,
illustrato.
In particolare, essa avrebbe dovuto verificare, sulla scorta delle evidenze probatorie
acquisite (anche a mezzo della disposta di consulenza tecnica d’ufficio), innanzitutto,
se l’ipotesi sulla verità dell’enunciato relativo all’idoneità della toracentesi a
cagionare l’emotorace presentasse un grado di conferma logica maggiore rispetto a
quella della sua falsità (criterio del “più probabile che non”). Di seguito, essa avrebbe
dovuto stabilire – in applicazione, questa volta, del criterio della “prevalenza relativa
della probabilità” se tale ipotesi avesse ricevuto, sempre su un piano logico, ovvero
nuovamente sulla base delle prove disponibili, un grado relativamente maggiore di
conferma rispetto ad altrettante, differenti, ipotesi sulla eziologia tanto
dell’emotorace, quanto del decesso della paziente (facendo la sentenza riferimento a
non meglio precisate sue “critiche condizioni di salute” che avrebbero influito sul cd.
“exitus”), ipotesi anch’esse, però, da riscontrare preliminarmente, nella loro verità,
nello stesso modo, ovvero in applicazione del principio del “più probabile che non”.

Il secondo motivo resta assorbito dall’accoglimento del primo.

All’accoglimento del ricorso, nei termini indicati, segue la cassazione della
sentenza impugnata e il rinvio alla Corte di Appello di Firenze, in diversa
composizione, per la decisione nel merito, alla luce dei principi enunciati, in
particolare, nel p. 7.2.2., oltre che per la liquidazione delle spese anche del presente
giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso e dichiara assorbito il secondo,
cassando, per l’effetto, la sentenza impugnata e rinviando alla Corte di Appello
di Firenze, in diversa composizione, per la decisione nel merito, oltre che per
la liquidazione delle spese anche del presente giudizio.
Così deciso in Roma, all’esito di adunanza camerale della Sezione Terza Civile della
Corte di Cassazione, il 12 febbraio 2020.
Depositato in Cancelleria il 6 luglio 2020