Ordinanza, Corte Suprema di Cassazione, III Sezione Civile, 6 luglio 2020, n. 13848, Sinistro stradale – Fauna selvatica:
In virtù del fatto che la fauna selvatica è stata riconosciuta appartenente al patrimonio indisponibile dello Stato e che sono state attribuite alle Regioni le relative funzioni amministrative e di controllo, comunque suscettibili di delega ad altri Enti; i giudici di legittimità, pronunciandosi in materia di risarcimento danni per sinistri stradali causati dalla fauna selvatica, hanno sancito che il legittimato passivo della suddetta azione è la Regione e il titolo della relativa responsabilità è ravvisabile nell’art. 2052 c.c. . In materia di onere probatorio, la Corte sottolinea che il danneggiato deve provare il danno subito, il nesso eziologico tra il sinistro e la condotta dell’animale, l’appartenenza dello stesso al patrimonio indisponibile dello Stato oltre che la prova di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno ex art. 2054 c.c. . Mentre la Regione, per andare esente da responsabilità, dovrà provare il caso fortuito ossia una condotta imprevedibile e inevitabile nonostante i controlli messi in atto per monitorare la fauna selvatica.
Corte Suprema di Cassazione, III Sezione Civile, 6 luglio 2020, n. 13848:
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –
Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –
Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –
Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –
Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 21517/2018 proposto da:
REGIONE ABRUZZO, (OMISSIS), in persona del Presidente pro tempore,
elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso
l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;
ricorrente –
contro
M.V., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA OTTAVIANO 66, presso lo studio
dell’avvocato ANDREA VIEL, rappresentato e difeso dall’avvocato CARLO
GRUMELLI;
controricorrente –
avverso la sentenza n. 70/2018 del TRIBUNALE di L’AQUILA, depositata il
06/02/2018;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 27/11/2019 dal
Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI.
Svolgimento del processo
La Regione Abruzzo ricorre, sulla base di un unico motivo, per la cassazione della
sentenza n. 70/18, del 6 febbraio 2018, del Tribunale de L’Aquila, che – accogliendo
solo parzialmente il gravame esperito dall’odierna ricorrente contro la sentenza n.
1043/16, del 22 agosto 2016, del Giudice di pace di Pescara – ha confermato la
condanna della Regione a risarcire il danno alla vettura subito da M.V. (limitandosi
ad escludere, in ragione del parziale accoglimento dell’appello, la voce relativa al cd.
“danno da fermo tecnico”), a causa dell’impatto tra il veicolo e due cervi, sinistro
occorso in data (OMISSIS).
Riferisce, in punto di fatto, l’odierna ricorrente di essere stata convenuta in
giudizio dal M., che chiedeva il ristoro del danno patito a cagione del descritto
sinistro, e di essersi difesa, tra l’altro, eccependo il difetto di titolarità passiva
dell’obbligo dedotto in giudizio, da imputarsi, a suo dire, alla Provincia
territorialmente competente, all’ente proprietario della strada e/o al (OMISSIS).
Riconosciuta dal primo giudice la responsabilità della Regione, la stessa veniva
condannata a risarcire il danno al M., liquidato in complessivi Euro 2.498,72, importo
dal quale veniva esclusa, dal Tribunale dell’Aquila (che accoglieva, sul punto,
l’appello della convenuta soccombente) la somma di Euro 300,00, già liquidata a
titolo di danno da “fermo tecnico” della vettura.
Avverso la sentenza del Tribunale aquiliano ricorre per cassazione la Regione
Abruzzo, sulla base – come detto – di un unico motivo.
3.1. Esso deduce – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – violazione e falsa
applicazione delle previsioni di cui della L. 11 febbraio 1992, n. 157, artt. 1 e 9 e
dell’art. 2043 c.c., nonchè erronea imputazione, ad essa ricorrente, della
responsabilità per danni cagionati dalla fauna selvatica.
Rileva, preliminarmente, la Regione Abruzzo che la propria responsabilità è stata
riconosciuta, dalla sentenza impugnata, per effetto della mancata attivazione di
barriere di protezione o di altri strumenti volti ad evitare danni del tipo di quello
verificatosi nell’area interessata dal sinistro. In particolare, la responsabilità di essa
Regione è stata affermata sul presupposto che, in materia di controllo della fauna
selvatica, i compiti, pure attribuiti alle Province, sono considerati espressamente
“funzioni amministrative regionali ad esse delegate”. Nessuna autonomia decisionale
è stata, però, riconosciuta – sempre secondo la sentenza impugnata – alle Province
abruzzesi, in quanto la L.R. 28 gennaio 2004, n. 10, art. 55, comma 5, individuando
l’utilizzo delle risorse finanziarie che la Regione pone a disposizione delle Province,
non prende in considerazione le funzioni di controllo della fauna selvatica, il cui
esercizio, da parte dei delegati, resta pertanto privo di effettività e di concretezza. In
ragione di tale situazione non può, quindi, riconoscersi, sempre secondo la sentenza
impugnata, alcuna responsabilità in capo alla Provincia, non avendo ottenuto
dall’ente delegante adeguati poteri e provviste per fare fronte a tali situazioni.
Tali affermazioni, tuttavia, secondo la ricorrente, sarebbero state contraddette dalla
più recente giurisprudenza di legittimità, secondo cui la responsabilità aquiliana per
danni da fauna selvatica andrebbe ascritta esclusivamente alle Province, sul rilievo
che ad esse spetta l’esplicazione delle concrete funzioni amministrative e di gestione
della fauna, nell’ambito del loro territorio, in forza di compiti, rilevanti, di volta in volta
attribuiti dalle singole leggi regionali.
Si tratterebbe, peraltro, di affermazioni che la Suprema Corte avrebbe compiuto
anche con specifico riferimento alla Regione Abruzzo (è citata Cass. Sez. 3, ord. 13
ottobre 2017, n. 24089).
Ha proposto controricorso il M., per resistere all’avversaria impugnazione.
L’infondatezza del ricorso discenderebbe, secondo il controricorrente, innanzitutto
dalla previsione di cui alla l.r. 23 giugno 2003, n. 10, art. 4-bis, secondo cui la
Regione Abruzzo è responsabile per i danni causati da incidenti stradali, non
altrimenti risarcibili, provocati dalla fauna selvatica nel territorio regionale durante la
regolare circolazione veicolare lungo ogni strada aperta al pubblico transito,
prevedendosi anche che l’indennizzo sia pari al 100% del danno, demandando, solo
per l’accertamento dello stesso, le rispettive Province.
D’altra parte, poi, a fondare la responsabilità della Regione nel caso di specie,
verrebbe anche il rilievo che il sinistro si è verificato proprio su una strada regionale.
Di conseguenza, opererebbero le previsioni di cui agli artt. 2051 e 2043 c.c., per
cattiva o omessa custodia del tratto di strada, in special modo per la mancata
segnalazione della presenza, in zona, di fauna selvatica. Ad esonerare, dunque, la
Regione da responsabilità potrebbe, in astratto, rilevare soltanto il caso fortuito,
ipotizzabile quando l’evento dannoso presenti i caratteri delle imprevedibilità e della
inevitabilità, ovvero nel caso in cui l’insidia, nonostante l’attività di controllo e la
diligenza impiegata allo scopo di garantire un intervento tempestivo, non poteva
essere rimossa o segnalata per difetto del tempo strettamente necessario a
provvedere.
Entrambe le parti hanno presentato memoria, insistendo nelle rispettive
argomentazioni.
Motivi della decisione
Il ricorso va rigettato.
6.1. Il motivo, infatti, non è fondato.
6.1.1. La censura, come detto, investe esclusivamente la questione – che attiene alla
titolarità, da lato passivo, del rapporto dedotto in giudizio – della individuazione del
soggetto tenuto a subire, sul piano risarcitorio, le conseguenze dei danni cagionati,
in particolare nel caso che occupa nel territorio regionale abruzzese, dalla fauna
selvatica.
Sul punto, deve darsi atto dell’esistenza – nella giurisprudenza di questa Corte – di
orientamenti non sempre univoci, quanto al problema se tale soggetto, su un piano
generale, debba individuarsi nelle singole Regioni, ovvero nelle loro Provincie o in
altri enti che risultino, in concreto, coinvolti in ciascuna vicenda (ovvero quelli – e ciò,
soprattutto, in relazione a danni verificatisi in occasione di incidenti stradali –
proprietari della strada “teatro” del sinistro).
Tale incertezza rende, pertanto, necessario un ripensamento dell’intera tematica,
anche al fine di assicurare – pure in tale materia – l’esatta osservanza e l’uniforme
interpretazione della legge, e con esse l’unità del diritto oggettivo nazionale (come il
R.D. 30 gennaio 1942, n. 12, art. 65, ovvero la legge sull’ordinamento giudiziario,
richiede a questa Corte).
6.1.2. In tale prospettiva, pertanto, occorre muovere dalla constatazione che il tema
della risarcibilità dei danni causati dagli animali selvatici si è posto all’attenzione
della giurisprudenza, sostanzialmente, solo da quando il legislatore ha cominciato ad
intervenire in tale ambito, ciò che ha determinato il superamento di quella
tradizionale impostazione che ravvisava nella fauna selvatica una “res nullius”, con
conseguente impossibilità del ristoro dei pregiudizi dalla stessa cagionati.
In particolare, con la L. 27 dicembre 1977, n. 968 (Principi generali e disposizioni per
la protezione e la tutela della fauna e la disciplina della caccia), la fauna selvatica è
stata dichiarata patrimonio indisponibile dello Stato e tutelata nell’interesse della
comunità nazionale (art. 1), assegnandosi le relative funzioni amministrative alle
Regioni (quelle legislative ad esse già spettando in virtù della competenza in materia
di caccia, secondo la previsione del testo originario dell’art. 117 Cost.), pur
riconoscendosi la possibilità di delega alle Province (art. 5).
Questo assetto è stato confermato dalla L. 11 febbraio 1992, n. 157 (Norme per la
protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio), secondo cui
le Regioni a statuto ordinario provvedono “ad emanare norme relative alla gestione
ed alla tutela di tutte le specie della fauna selvatica” (art. 1), ad esercitare “le funzioni
amministrative di programmazione e di coordinamento ai fini della pianificazione
faunisticovenatoria”, nonchè a svolgere “i compiti di orientamento, di controllo e
sostitutivi previsti dalla presente legge e dagli statuti regionali”, oltre ad attuare “la
pianificazione faunistico-venatoria mediante il coordinamento dei piani
provinciali” (art. 9), essendo, infine, titolari “di poteri sostitutivi nel caso di mancato
adempimento da parte delle province” delle loro funzioni (art. 10). Esse, inoltre,
“provvedono al controllo delle specie di fauna selvatica anche nelle zone vietate alla
caccia”, controllo che, “esercitato selettivamente, viene praticato di norma mediante
l’utilizzo di metodi ecologici” (art. 19), nonchè istituiscono e disciplinano il fondo
destinato al “risarcimento dei danni prodotti dalla fauna selvatica e dall’attività
venatoria”, per “far fronte ai danni non altrimenti risarcibili arrecati alla produzione
agricola e alle opere approntate sui terreni coltivati e a pascolo dalla fauna selvatica,
in particolare da quella protetta” (art. 26). Per parte propria, alle Province “spettano
le funzioni amministrative in materia di caccia e di protezione della fauna secondo
quanto previsto dalla L. 8 giugno 1990, n. 142″, il cui art. 14, comma 1, lett. f), infatti,
stabiliva – con previsione, tuttavia, riprodotta, identicamente, nel D.Lgs. 18 agosto
2000, n. 267, art. 19, comma 1, lett. f) – che spettano alla Provincia “le funzioni
amministrative di interesse provinciale che riguardino vaste zone intercomunali o
l’intero territorio provinciale” nel settore costituito da “caccia e pesca nelle acque
interne”.
6.1.3. A fronte di tale quadro legislativo, la questione che si è posta all’esame
dell’autorità giudiziaria è consistita nello stabilire in applicazione di quale norma
codicistica, nonchè a carico di quale soggetto, andasse affermata la responsabilità
per i danni cagionati dalla fauna selvatica.
Quanto al primo interrogativo, la giurisprudenza di questa Corte si è, fin qui,
pressochè univocamente orientata – a differenza di quanto sostenuto in dottrina – nel
senso che il “danno cagionato dalla fauna selvatica non è risarcibile in base alla
presunzione stabilita dall’art. 2052 c.c., inapplicabile per la natura stessa degli
animali selvatici, ma soltanto alla stregua dei principi generali sanciti dall’art. 2043
c.c., anche in tema di onere della prova, e perciò richiede l’individuazione di un
concreto comportamento colposo ascrivibile all’ente pubblico” (così, da ultimo, in
motivazione, Cass. Sez. 3, ord. 27 febbraio 2019, n. 5722, Rv. 652994-01; in senso
conforme, per limitarsi alle pronunce più recenti, Cass. Sez. 1, sent. 24 aprile 2014,
n. 9276, Rv. 631131-01; Cass. Sez. 3, sent. 20 novembre 2009, n. 24547, Rv.
610178-01; Cass. Sez. 3, sent. 21 novembre 2008, n. 27673, Rv. 605619-01).
Un’impostazione, questa, ritenuta non incostituzionale dal giudice delle leggi, il quale
ha escluso la sussistenza di una irragionevole disparità di trattamento tra il privato,
proprietario di un animale domestico (o in cattività), e la Pubblica Amministrazione,
nel cui patrimonio sono ricompresi anche gli animali selvatici (Corte Cost., ord. 4
gennaio 2001, n. 4).
Più problematica è sempre stata, invece, l’identificazione del soggetto nei cui
confronti ritenere operante la Generalklausel di cui all’art. 2043 c.c., sebbene – in
passato – prevalesse l’orientamento che lo identificava nella Regione, quale ente
titolare della competenza a disciplinare, sul piano normativo e amministrativo, la
tutela della fauna e la gestione sociale del territorio; e ciò anche laddove la Regione
avesse delegato i suoi compiti alle Province, poichè la delega non fa venir meno la
titolarità di tali poteri e deve essere esercitata nell’ambito delle direttive dell’ente
delegante (cfr., tra le altre, Cass. Sez. 3, sent. 21 febbraio 2011, n. 4202, Rv.
616849-01; Cass. Sez. 3, sent. 16 novembre 2010, n. 23095, Rv. 614666-01; Cass.
Sez. 3, sent. 13 gennaio 2009, n. 467, Rv. 606148-01; Cass. Sez. 3, sent. 7 aprile
2008, n. 8953, Rv. 602462-01).
Nondimeno, a tale indirizzo si è venuto progressivamente contrapponendo un altro,
secondo cui – proprio sul presupposto che il fondamento della responsabilità fosse
da individuare nell’art. 2043 c.c., richiedendo, pertanto, l’individuazione di un
concreto comportamento colposo ascrivibile all’ente pubblico – i danni causati dagli
animali selvatici non fossero sempre imputabili alla Regione, bensì all’ente, fosse
esso Regione, Provincia, Ente Parco, Federazione o Associazione, cui fossero stati
concretamente affidati, nel singolo caso, poteri di amministrazione del territorio e di
gestione della fauna ivi insediata, e ciò sia che essi derivassero dalla legge, sia che
trovassero la fonte in una delega o concessione (in tal senso, tra le più recenti,
Cass. Sez. 6-3, ordin. 17 settembre 2019, n. 23151, Rv. 655507-01; Cass. Sez. 3,
ordin. 31 luglio 2017, n. 18952, Rv. 645378-01; Cass. Sez. 3, sent. 21 giugno 2016,
n. 12727, Rv. 640258-01).
Tuttavia, nell’ambito di tale secondo orientamento, si sono venute operando delle
puntualizzazioni ulteriori. Da un lato, infatti, si è affermata la persistente
responsabilità della Regione, a meno che non sia dimostrato che la delega attribuita,
soprattutto alle Province, conferisca loro un’autonomia decisionale ed operativa
sufficiente a consentire di svolgere l’attività in modo da poter efficientemente
amministrare i rischi di danni a terzi e da poter adottare le misure normalmente
idonee a prevenire, evitare o limitare tali danni (Cass. Sez. 3, sent. 21 febbraio 2011,
n. 4202, Rv. 616849-01). Dall’altro, si è sottolineata la necessità di un’indagine
finalizzata a stabilire che l’ente delegato sia stato ragionevolmente posto in
condizioni di adempiere ai compiti affidatigli, o non sia, invece, “nudus minister”,
senza alcuna concreta ed effettiva possibilità operativa (Cass. Sez. 63, ord. 17
settembre 2019, n. 23151, Rv. 655507-01; Cass. Sez. 3, sent. 21 giugno 2016, n.
12727, Rv. 640258-01; Cass. Sez. 3, sent. 6 dicembre 2011, n. 26197, Rv.
620678-01). Ed ancora, in altri casi, si è stabilito che la responsabilità
extracontrattuale per danni provocati alla circolazione stradale da animali selvatici
vada imputata alla Provincia a cui appartiene la strada ove si è verificato il sinistro, in
quanto ente cui sono stati concretamente affidati poteri di amministrazione e funzioni
di cura e protezione degli animali selvatici nell’ambito di un determinato territorio (cfr.
Cass., Sez. 3, sent. 12 maggio 2017, n. 11785, Rv. 644198-01; Cass. Sez. 6-3, sent.
19 giugno 2015, n. 12808, Rv. 635775-01).
6.1.4. Orbene, l’assenza di un indirizzo giurisprudenziale univoco, in relazione
all’individuazione del soggetto tenuto a risarcire i danni “de quibus” (o meglio, a
sopportarne la relativa responsabilità), evidenzia l’esistenza di una forte criticità in
relazione allo stesso principio – di rilievo costituzionale, oltre che per il diritto
dell’Unione Europea e la Convenzione Europea per la salvaguardia del diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali – dell’effettività della tutela giurisdizionale (sulla
cui operatività, anche nei giudizi civili di danno, si veda, in particolare, Cass. Sez. 3,
sent. 17 settembre 2013, n. 21255, Rv. 628700-01).
Questa Corte, infatti, ha sottolineato – ancora in tempi recenti la stretta connessione
che esiste tra la “stabilità” degli indirizzi giurisprudenziali (soprattutto, ma non solo,
su questioni processuali) ed il carattere “effettivo” del principio della tutela
giurisdizionale delle situazioni giuridiche soggettive (cfr., da ultimo, Cass. Sez. Lav.,
sent. 29 marzo 2018, n. 7833, Rv. 648040-01).
Di qui, allora, la necessità di un ripensamento dello stesso criterio di imputazione
della responsabilità per i danni da fauna selvatici, dovendosi riconoscere che le
incertezze nella identificazione del soggetto che – sul piano delle conseguenze
risarcitorie – debba farsene carico sono una conseguenza della scelta iniziale di
escludere il regime previsto dall’art. 2052 c.c.. Una scelta, questa, a propria volta,
giustificata sull’assunto che la previsione contemplata da tale articolo riguarderebbe,
esclusivamente, gli animali domestici e non pure quelli selvatici, in quanto recante un
criterio di imputazione della responsabilità basato sulla violazione di un dovere di
“custodia” dell’animale, da parte del proprietario o di chi lo utilizza per trarne un’utilità
(patrimoniale o affettiva), custodia per natura non concepibile per gli animali
selvatici, vivendo essi in libertà.
Nondimeno, tanto la lettera della norma, quanto la sua funzione, non giustificano una
simile opzione ermeneutica, visto che – quanto al primo profilo – l’art. 2052 c.c., non
reca alcuna espressa menzione che sia limitata gli animali domestici, ma fa
riferimento, esclusivamente, a quelli suscettibili di “proprietà” o di “utilizzazione” da
parte dell’uomo. La norma, inoltre, prescinde dalla sussistenza di una situazione di
effettiva custodia dell’animale, come si desume, nuovamente, dal suo stesso tenore
letterale, là dove prevede, espressamente, che la responsabilità del proprietario o
dell’utilizzatore sussista sia che “l’animale fosse sotto la sua custodia, sia che fosse
smarrito o fuggito”.
Il riferimento, dunque, alla proprietà e all’utilizzazione (quale relazione, come detto,
dalla quale si trae una “utilitas” anche non patrimoniale), ha la funzione di individuare
un criterio oggettivo di allocazione della responsabilità in forza del quale, dei danni
causati dall’animale, deve rispondere il soggetto che dallo stesso trae un beneficio,
in sostanziale applicazione del principio “ubi commoda ibi et incommoda”, con
l’unica salvezza del caso fortuito.
Che poi, in un simile caso, sussista un diritto di proprietà statale in relazione ad
alcune specie di animali selvatici (precisamente, quelle oggetto della tutela di cui alla
citata L. n. 157 del 1992), è conseguenza che deriva tanto dalla loro appartenenza al
patrimonio indisponibile dello Stato, quanto, soprattutto, dall’essere tale regime di
proprietà pubblica espressamente disposto in funzione della tutela generale
dell’ambiente e dell’ecosistema.
Orbene, poichè tale funzione si realizza, come visto, mediante l’attribuzione alle
Regioni di specifiche competenze normative e amministrative, nonchè di indirizzo,
coordinamento e controllo (non escluso il potere sostitutivo) sugli altri enti, titolari di
più circoscritte funzioni amministrative nello stesso ambito, è in capo alle Regioni
che va imputata la responsabilità, ai sensi dell’art. 2052 c.c..
6.2. Sulla base di questi rilievi il (solo) motivo di ricorso va, pertanto, rigettato,
giacchè basato esclusivamente sull’asserita imputabilità alla Provincia (e non alla
Regione) della responsabilità per danni da fauna selvatica, non senza, però,
compiere – ma solo a fini nomofilattici – alcune precisazioni che attengono: ai
presupposti per l’imputazione della responsabilità, in applicazione del suddetto
criterio ex art. 2052 c.c.; all’individuazione dell’effettivo oggetto della prova liberatoria
gravante sulla Regione; alle conseguenze scaturenti dal negligente esercizio delle
funzioni amministrative, delegate o proprie, da parte di altri enti (in particolare, ma
non solo, le Province).
6.2.1. Per l’esattezza, quanto al regime di imputazione della responsabilità, in
applicazione del criterio oggettivo di cui all’art. 2052 c.c., sarà a carico del preteso
danneggiato allegare e dimostrare che il pregiudizio lamentato sia stato causato
dall’animale selvatico. Siffatto onere potrà ritenersi soddisfatto allorchè sia stata
dimostrata la dinamica del sinistro, nonchè il nesso causale tra la condotta
dell’animale e l’evento dannoso subito, oltre che l’appartenenza dell’animale stesso
ad una delle specie oggetto della tutela di cui alla L. n. 157 del 1992, o, comunque,
che si tratti di animale selvatico rientrante nel patrimonio indisponibile dello Stato.
Nella peculiare ipotesi – invero, statisticamente piuttosto frequente – di danni
derivanti da incidenti stradali che abbiano coinvolto veicoli e animali selvatici, non
potrà ritenersi sufficiente la sola dimostrazione della presenza dell’animale sulla
carreggiata, e dell’impatto tra lo stesso ed il veicolo, in quanto il danneggiato, oltre a
dover provare che la condotta dell’animale sia stata la “causa” dell’evento dannoso,
è comunque onerato – ai sensi dell’art. 2054 c.c., comma 1 – della prova di avere
fatto tutto il possibile per evitare il danno, cioè di avere, nella specie, adottato ogni
opportuna cautela nella propria condotta di guida.
Invero, che il criterio di imputazione della responsabilità a carico del proprietario di
animali di cui all’art. 2052 c.c., non impedisca l’operatività della presunzione prevista
dall’art. 2054 c.c., comma 1, nei confronti del conducente di veicolo senza guida di
rotaie per danni prodotti a persone o cose, compresi anche gli animali, dalla
circolazione del veicolo, è affermazione costante nella giurisprudenza di questa
Corte. E ciò sul presupposto che l’art. 2054 c.c., esprima principi di carattere
generale, applicabili a tutti i soggetti che subiscano danni dalla circolazione (cfr., tra
le tante, Cass. Sez. 3, sent. 7 marzo 2016, n. 4373, Rv. 639473-01; Cass. Sez. 3,
sent. 6 agosto 2002, n. 11780, Rv. 556722-01).
6.2.2. Quanto alla prova liberatoria, che ha ad oggetto la dimostrazione che il fatto
sia avvenuto per “caso fortuito”, premesso che essa non riguarda direttamente il
nesso di causa tra la concreta e specifica condotta dell’animale ed il danno causato
da tale condotta, consisterà nel dimostrare che la condotta dell’animale si sia posta
del tutto al di fuori della sua sfera di possibile controllo, operando, così, come causa
autonoma, eccezionale, imprevedibile ed inevitabile del danno. Occorrerà, in altri,
provare che si sia trattato di una condotta che non era ragionevolmente prevedibile
e/o che, comunque, non era evitabile, e ciò anche mediante l’adozione delle più
adeguate e diligenti misure di gestione e controllo della fauna (e di connessa
protezione e tutela dell’incolumità dei privati), concretamente esigibili in relazione
alla situazione di fatto, purchè, peraltro, sempre compatibili con la funzione di
protezione dell’ambiente e dell’ecosistema cui la stessa tutela della fauna è diretta.
Viene in rilievo, in proposito, una nozione di caso fortuito analoga a quella elaborata
da questa stessa Corte, con riguardo alla fattispecie di cui all’art. 2051 c.c., in
particolar modo con riguardo all’ipotesi di danni causati da anomalie dei beni
demaniali di ampia estensione, in cui si dà rilievo alla concreta esigibilità da parte
dell’ente pubblico di una condotta, nella manutenzione del bene e nell’adozione di
misure di protezione degli utenti, tale da poter effettivamente impedire il danno (cfr.,
tra le più recenti, Cass. Sez. 3, ord. 18 giugno 2019, n. 16295, Rv. 654350-01; Cass.
Sez. 3, sent. 5 marzo 2019, n. 6326, Rv. 653121-01; Cass. Sez. 6-3, ordinanza 23
gennaio 2019, n. 1725, Rv. 652290-01).
6.2.3. Infine, per venire all’ultimo dei tre profili di cui sopra si diceva, chiariti i termini
in cui l’attore/danneggiato è tenuto ad assolvere i propri oneri probatori, e la
Regione, per parte propria, a fornire la prova del caso fortuito, qualora essa,
convenuta in giudizio per il risarcimento, reputi che le misure idonee ad impedire il
danno avrebbero dovuto essere adottate da un altro ente, potrà – anche in quello
stesso giudizio – agire in rivalsa, senza, però, che ciò implichi modifica, in relazione
all’azione posta in essere dal danneggiato, del criterio di individuazione del titolare,
da lato passivo, del rapporto dedotto in giudizio.
Di conseguenza, solo con riferimento dell’azione di rivalsa tra la Regione e l’ente da
questa indicato come effettivo responsabile potranno – e quindi limitatamente al
rapporto processuale tra di essi intercorrente – assumere rilievo tutte le questioni
inerenti al trasferimento o alla delega di funzioni alle Province (ovvero
eventualmente ad altri enti) e l’effettività della delega stessa (anche sotto il profilo del
trasferimento di adeguata provvista economica, laddove ciò possa ritenersi rilevante
in tale ottica), così come tutte le questioni relative al soggetto effettivamente
competente a porre in essere ciascuna misura di cautela.
Quanto, infine, alle spese del presente giudizio, le stesse vanno integralmente
compensate tra le parti, a norma dell’art. 92 c.p.c., comma 2, in considerazione
dell’oggettiva incertezza interpretativa sussistente in ordine alle questioni giuridiche
esaminate.
A carico della ricorrente, stante il rigetto dell’impugnazione, sussiste l’obbligo di
versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30
maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso, compensando integralmente tra le parti le spese del
presente giudizio.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo
introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, la Corte dà atto
della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente,
dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il
ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, all’esito di adunanza camerale della Sezione Terza Civile della
Corte di Cassazione, il 27 novembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 6 luglio 2020