Ordinanza, Suprema Corte di Cassazione, I Sezione Civile, 14 agosto 2020, n. 17183, Mantenimento del figlio maggiorenne:

In virtù del principio di autoresponsabilità e autodeterminazione, i giudici di legittimità, dando una nuova interpretazione dell’art. 337 – septies c.c., affermano che il figlio maggiorenne deve attivarsi per inserirsi nel mondo lavorativo svolgendo qualsiasi attività quando non riesce ad affermarsi per le competenze professionali acquisite, non potendo gravare sulla famiglia d’origine per troppo tempo. Il ragazzo, infatti, al raggiungimento della maggiore età si presume capace di produrre reddito. Tale presunzione deve essere vinta attraverso prova contraria fornita dal beneficiario (non più dal genitore convenuto), il quale dimostri circostanze oggettive e estranee alla sua volontà, tali da permettere al giudice, secondo il suo giudizio discrezionale, di assegnargli il mantenimento da versare direttamente all’avente diritto.

Suprema Corte di Cassazione, I Sezione Civile, 14 agosto 2020, n. 17183:

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –
Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – Consigliere –
Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –
Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –
Dott. NAZZICONE Loredana – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 20272/2018 proposto da:
P.M., domiciliata in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di
Cassazione, rappresentata e difesa dall’avvocato Galli Adriano, giusta procura in
calce al ricorso;

ricorrente –
contro
C.F., elettivamente domiciliato in Roma, Via C. Mirabello n. 18, presso lo studio
dell’avvocato Richiello Umberto, che lo rappresenta e difende unitamente
all’avvocato Bastianini Paolo, giusta procura in calce al controricorso;

controricorrente –
avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositato il 29/03/2018;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 16/07/2020 dal
Cons. Dott. NAZZICONE LOREDANA.
Svolgimento del processo
Viene proposto ricorso da P.M., sulla base di due motivi, avverso la sentenza della
Corte d’appello di Firenze del 29 marzo 2018, la quale, in riforma della decisione del
Tribunale di Grosseto che aveva ridotto l’assegno di mantenimento in favore della
medesima per il figlio A. da Euro 300,00 ad Euro 200,00 mensili, ha revocato con
decorrenza dal 1 dicembre 2015 l’assegno medesimo, nonchè l’assegnazione della
ex casa familiare.
Si difende l’intimato con controricorso.
La ricorrente ha depositato la memoria.
Motivi della decisione

– I motivi. I motivi di ricorso possono essere così riassunti:
1) violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e art. 115 c.p.c., avendo la
sentenza impugnata erroneamente affermato che il figlio abbia conseguito redditi
significativi, sebbene modesti, sulla base dei documenti prodotti in atti: ed, invece, il
reddito annuo lordo di Euro 20.973,22, di cui è parola nel decreto del tribunale in
primo grado, attiene alla media annua, non a quanto percepito effettivamente dal
medesimo, nè il giudice può porre a fondamento della decisione la sua scienza
personale; il figlio è inserito nelle graduatorie di fascia III, quale insegnante non
abilitato, onde compie solo supplenze occasionali e, per essere inserito in
graduatoria ai fini di una cattedra di insegnante, dovrebbe frequentare un tirocinio
formativo attivo di circa un anno, con il costo della relativa tassa fino ad Euro
3.600,00;
2) violazione e falsa applicazione degli artt. 147, 148, 315-bis, 326-bis, 337-sexies e
337-septies c.c., per avere la corte di merito richiamato la capacità del figlio
maggiorenne di mantenersi autonomamente, senza però considerare che egli, che
ha comunque prescelto la carriera dell’insegnamento, è un insegnante precario, che
conclude meri contratti a tempo determinato, come tale di fatto incapace di
mantenersi da sè: onde manca il comprovato raggiungimento di una effettiva e
stabile indipendenza economica; e la S.C. ha affermato come l’impiego, cui il figlio
possa dedicarsi, deve essere all’altezza della sua professionalità ed offrirgli
un’appropriata collocazione nel contesto economico-sociale di riferimento, adeguata
alle sue aspirazioni, in mancanza dovendo l’obbligo di mantenimento permanere
invariato in capo al genitore.

– La sentenza impugnata. La corte territoriale, per quanto ancora rileva in questa
sede, ha ritenuto che l’obbligo di mantenimento cessa in relazione alla raggiunta
capacità di mantenersi, che deve essere presunta oltre i trenta anni, quando una
persona normale deve presumersi autosufficiente da ogni punto di vista, anche
economico, salvi comprovati deficit, come avviene in tutte le parti del mondo, ma
meno in Italia; nè la mancanza congiunturale del lavoro, in dati momenti storici,
equivale ad incapacità di mantenersi, potendo essa riguardare anche persone più
avanti con l’età (come lo stesso padre sessantenne, che è stato costretto a tornare
dalla anziana madre, dopo la chiusura del negozio di ferramenta), senza che ciò
faccia sopravvivere l’obbligo parentale di mantenimento, il quale altrimenti si
trasformerebbe in una copertura assicurativa. Altro è l’obbligo alimentare, che resta
perennemente in vita tra congiunti ed è reciproco.
In particolare, il figlio maggiorenne della coppia (33 anni nel (OMISSIS)) ha da
tempo concluso gli studi ed ha trovato occupazione precaria come insegnante
supplente, conseguendo redditi modesti, ma significativi; anche la coabitazione con
la madre si è rarefatta, recandosi egli in una diversa provincia per insegnare. Onde
egli, eventualmente riducendo le proprie ambizioni adolescenziali, è tenuto a trovare
il modo di auto-mantenersi, risultato che dipenderà dall’impegno profuso per
incrementare le supplenze o integrare le proprie entrate con ogni opportunità
disponibile.

– Profili di inammissibilità dei motivi. I due motivi, che affrontano entrambi la
questione dei limiti dell’obbligo di mantenimento del figlio maggiorenne, possono
essere trattati congiuntamente.
Essi sono in parte inammissibili ed in parte infondati: la prima statuizione coglie i
motivi, laddove essi intendono ripetere un giudizio sul fatto o censurano affermazioni
che non sono proprie della corte d’appello, ma del giudice di primo grado, quale il
riferimento ad un reddito annuo di oltre ventimila Euro.

– Infondatezza dei motivi: il diritto al mantenimento del figlio maggiorenne.
L’assunto della ricorrente, in punto di diritto, è che il figlio maggiorenne, quando non
goda di redditi sufficienti per provvedere al suo mantenimento, abbia sempre e per
sempre il diritto di ricevere tali mezzi dai genitori: ciò, in ragione della mera
circostanza che egli non abbia ancora raggiunto la completa indipendenza
economica nello specifico lavoro prescelto (nella specie, insegnante di musica),
adeguato alle sue aspirazioni ed idoneo ad inserirlo, col dovuto prestigio, nel
contesto economico-sociale.
Tale assunto è infondato.
4.1. – Le norme positive. Il dovere di mantenimento dei figli ha assunto connotati
nuovi sin dalla riforma di cui alla L. 8 febbraio 2006, n. 54, che con l’art. 155-
quinquies c.c., ha dettato una disposizione ad hoc “in favore di figli maggiorenni”.
La norma, abrogata dal D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, art. 106, ma è stata
trasposta nell’art. 337-septies c.c., da esso introdotto.
Da allora, dunque, sussistono modalità diverse per l’adempimento del dovere di
mantenimento verso il figlio, a seconda che questi sia un minore (art. 337-ter) o un
maggiorenne ma non indipendente economicamente (art. 337-septies).
Il quadro normativo era, dunque, anteriormente costituito dall’art. 155-quinquies c.c.,
introdotto dalla L. n. 54 del 2006, secondo cui “Il giudice, valutate le circostanze, può
disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il
pagamento di un assegno periodico”.
Prevede ora l’art. 337-septies c.c., comma 1, che il giudice “valutate le circostanze,
può disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il
pagamento di un assegno periodico” (l’articolo è stato aggiunto dal D.Lgs. 28
dicembre 2013, n. 154, art. 55, decreto che ha, nel contempo, abrogato l’altra
disposizione).
Peraltro, occorre sin d’ora osservare come la questione si ponga in generale, fuori
dalla specifica situazione di una crisi coniugale; dove, sovente, il reale conflitto che
emerge e gli interessi sottesi, che impropriamente giocano un ruolo, sono quelli tra i
genitori, non con il figlio maggiorenne ormai adulto.
E l’estraneità del tema al rapporto fra i genitori risulta in modo incontrovertibile dal
diritto positivo: l’assegno “è versato direttamente all’avente diritto”, salvo diversa
determinazione del giudice (art. 337-septies c.c., comma 2).
Uno è l’elemento indeterminato della fattispecie, dalla cui integrazione discende il
diritto all’assegno per il figlio ed il corrispondente obbligo in capo al genitore: la
qualità dell’essere il primo “non indipendente economicamente”. Il vero elemento
discretivo è, tuttavia, un altro: esso risiede nell’uso del verbo “può”, che indica mera
possibilità, accanto al criterio generale ed usuale della “valutazione delle
circostanze”. Peraltro, è pur vero che, come in altre disposizioni, in cui il legislatore
utilizza detto verbo servile, alla raggiunta prova della integrazione delle circostanze
che fondano il diritto, il giudice sarà tenuto a disporre l’assegno in discorso.
Si tratta, dunque, di un tipico giudizio discrezionale, rimesso al prudente
apprezzamento del giudice del merito. Qui si apprezza il ruolo che l’ordinamento, in
tutte le norme di mero standard, assegna al giudice del caso concreto.
Peraltro, la necessaria valutazione fattuale non esclude che, in ordine al diritto al
mantenimento in capo al figlio maggiorenne a carico del genitore, la Corte detti, in
coerenza al proprio compito di nomofilachia ex art. 65 ord. giud., alcuni parametri di
riferimento, a fini di uniformità, uguaglianza e più corretta interpretazione ed
applicazione della norma. Ciò è quanto, appunto, questa Corte negli anni ha
compiuto.
4.2. – I precedenti. Sono stati già affermati, infatti, dalla Suprema Corte alcuni
condivisibili principi.
4.2.1. – In via generale, si è, anzitutto, precisato come la valutazione delle
circostanze, che giustificano il permanere dell’obbligo dei genitori al mantenimento
dei figli maggiorenni, conviventi o no con i genitori o con uno d’essi, vada effettuata
dal giudice del merito caso per caso (Cass. 22 giugno 2016, n. 12952; Cass. 6 aprile
1993 n. 4108, in tema di assegnazione della casa coniugale per convivenza con i
figli maggiorenni; si veda pure Cass. 12 marzo 2018, n. 5883).
Si è pure condivisibilmente osservato come il relativo accertamento non possa che
ispirarsi a criteri di relatività, in quanto necessariamente ancorato alle occupazioni ed
al percorso scolastico, universitario e post-universitario del soggetto ed alla
situazione attuale del mercato del lavoro, con specifico riguardo al settore nel quale
il medesimo abbia indirizzato la propria formazione e la propria specializzazione,
investendo impegno personale ed economie familiari (Cass. 26 gennaio 2011, n.
1830).
E’ stato puntualizzato, inoltre, come la valutazione debba necessariamente essere
condotta con “rigore proporzionalmente crescente, in rapporto all’età dei beneficiari,
in modo da escludere che tale obbligo assistenziale, sul piano giuridico, possa
essere protratto oltre ragionevoli limiti di tempo e di misura” (Cass. 22 giugno 2016,
n. 12952; Cass. 7 luglio 2004, n. 12477) e che, oltre tali “ragionevoli limiti”,
l’assistenza economica protratta ad infinitum “potrebbe finire col risolversi in forme di
vero e proprio parassitismo di ex giovani ai danni dei loro genitori sempre più
anziani” (Cass. 6 aprile 1993 n. 4108, in motivazione, in tema di assegnazione della
casa coniugale per convivenza con i figli maggiorenni; concetto ripreso es. da Cass.
22 giugno 2016, n. 12952).
Questa Corte, pertanto, ha già operato un’interpretazione del sistema normativo, che
pone una stretta e necessaria correlazione tra diritto-dovere all’istruzione ed
all’educazione e diritto al mantenimento: sussiste “il diritto del figlio all’interno e nei
limiti del perseguimento di un progetto educativo e di un percorso formativo,
“tenendo conto” (e, a norma dei novellati art. 147 c.c. e art. 315-bis c.c., comma 1,
“nel rispetto…”) delle sue capacità, inclinazioni ed aspirazioni, com’è reso palese dal
collegamento inscindibile tra gli obblighi di mantenimento, istruzione ed educazione”.
Dunque, ha concluso la Corte, “la funzione educativa del mantenimento è nozione
idonea a circoscrivere la portata dell’obbligo di mantenimento, sia in termini di
contenuto, sia di durata, avendo riguardo al tempo occorrente e mediamente
necessario per il suo inserimento nella società” (Cass. 20 agosto 2014, n. 18076;
nonchè Cass. 22 giugno 20i.6, n. 12952, in motiv.).
Inoltre, è stato ormai chiarito che il progetto educativo ed il percorso di formazione
prescelto dal figlio, se deve essere rispettoso delle sue capacità, inclinazioni ed
aspirazioni, deve tuttavia essere “compatibile con le condizioni economiche dei
genitori” (Cass. 20 agosto 2014, n. 18076; nello stesso senso molte altre, ad es.
Cass. 11 aprile 2019, n. 10207, non massimata).
A ciò, si aggiunge coerentemente che il matrimonio o, comunque, la formazione di
un autonomo nucleo familiare escludono l’esistenza dell’obbligo di mantenimento del
figlio maggiorenne: posto che il matrimonio, come la convivenza, sono espressione
di una raggiunta maturità affettiva e personale, implicando di regola che nessun
obbligo di mantenimento possa sopravvivere (Cass. 26 gennaio 2011, n. 1830;
Cass. 17 novembre 2006, n. 24498).
Dunque, ormai è acquisita la “funzione educativa del mantenimento”, in una col
“principio di autoresponsabilità”, anche tenendo conto, di contro, dei doveri gravanti
sui figli adulti.
Si è anche osservato come il riconoscimento d’un diritto al mantenimento protratto
oltre tali i limiti in favore dei figli conviventi e sedicenti non autonomi finirebbe per
determinare una “disparità di trattamento ingiustificata ed ingiustificabile” nei
confronti dei figli coetanei che, essendosi in precedenza resi autosufficienti, abbiano
in seguito perduto tale condizione: solo i primi, infatti, si gioverebbero della
normativa sul mantenimento, più favorevole, mentre per gli altri varrebbe solo il
diritto agi alimenti (Cass. 7 luglio 2004, n. 12477).
Nessun rilievo ha la situazione economico-patrimoniale del genitore, posto che, al
contrario, il diritto e l’obbligo de quibus si fondano sulla situazione del figlio, non sulle
capacità reddituali dell’obbligato: onde si è reputato inammissibile il motivo che
tendeva a denunziare l’omessa considerazione delle “ottime condizioni economiche”
del padre, il quale “era titolare di diversi fabbricati e terreni e aveva acquisito bene in
via ereditaria” (Cass. 25 settembre 2017, n. 22314).
4.2.2. – Nell’inventario delle situazioni che sicuramente escludono il diritto al
mantenimento, questa Corte ne ha individuate diverse.
Si è, così, affermato che l’obbligo dei genitori non possa protrarsi sine die e che,
pertanto – a parte le situazioni di minorazione fisica o psichica altrimenti tutelate
dall’ordinamento – esso trovi il suo limite logico e naturale: allorquando i figli si siano
già avviati ad un’effettiva attività lavorativa tale da consentir loro una concreta
prospettiva d’indipendenza economica; quando siano stati messi in condizioni di
reperire un lavoro idoneo a procurar loro di che sopperire alle normali esigenze di
vita; od ancora quando abbiano ricevuto la possibilità di conseguire un titolo
sufficiente ad esercitare un’attività lucrativa, pur se non abbiano inteso approfittarne;
o, comunque, quando abbiano raggiunto un’età tale da far presumere il
raggiungimento della capacità di provvedere a se stessi; infine, vi sono le ipotesi,
che inducono alle medesime conclusioni, nelle quali il figlio si sia inserito in un
diverso nucleo familiare o di vita comune, in tal modo interrompendo il legame e la
dipendenza morali e materiali con la famiglia d’origine (cfr., per tali concetti: Cass. 7
luglio 2004, n. 12477).
4.2.3. – Si nota, pertanto, già un’evoluzione del diritto vivente, con riguardo alla
ritenuta autonomia del figlio, che tiene conto del mutamento dei tempi e sempre più
richiama il principio dell’autoresponsabilità: se, un tempo, vi era il riferimento ad una
raggiunta “capacità del figlio di provvedere a sè con appropriata collocazione in seno
al corpo sociale” (Cass. 10 aprile 1985, n. 2372) ed alla “percezione di un reddito
corrispondente alla professionalità acquisita” (Cass. 26 gennaio 2011, n. 1830), in
seguito le mutate condizioni del mercato del lavoro e la non infrequente
sopravvenuta mancanza di autonomia “di ritorno” – a volte in capo allo stesso
genitore, come nel caso di specie – hanno ormai indotto a ritenere che l’avanzare
dell’età abbia notevole rilievo, giacchè si discorre, come sopra ricordato, di una
“funzione educativa del mantenimento” e del “tempo occorrente e mediamente
necessario per il suo inserimento nella società” (Cass. 20 agosto 2014, n. 18076).
Infatti: “l’obbligo di mantenimento non può essere correlato esclusivamente al
mancato rinvenimento di un’occupazione del tutto coerente con il percorso di studi o
di conseguimento di competenze professionali o tecniche prescelto. Sotto questo
profilo la crisi occupazionale giovanile conserva un’incidenza nel senso di dare al
parametro dell’adeguatezza un carattere relativo sia in ordine al contenuto
dell’attività lavorativa che del livello reddituale conseguente. L’attesa o il rifiuto di
occupazioni non perfettamente corrispondenti alle aspettative possono costituire, se
non giustificati, indici di comportamenti inerziali non incolpevoli” (Cass. 22 giugno
2016, n. 12952, in motiv.), in quanto “il diritto del figlio si giustifica all’interno e nei
limiti del perseguimento di un progetto educativo e di un percorso formativo, tenendo
conto delle sue capacità, inclinazioni ed aspirazioni, posto che la funzione educativa
del mantenimento è nozione idonea a circoscrivere la portata dell’obbligo di
mantenimento, sia in termini di contenuto, sia di durata, avendo riguardo al tempo
occorrente e mediamente necessario per il suo inserimento nella società” (Cass. 5
marzo 2018, n. 5088: pur nell’ambito dell’affermazione secondo cui l’onere della
prova per sottrarsi all’obbligo di mantenimento del maggiorenne grava sul genitore).
In sostanza, è esigibile l’utile attivazione del figlio nella ricerca comunque di un
lavoro, al fine di assicurarsi il sostentamento autonomo, in attesa dell’auspicato
reperimento di un impiego più aderente alle proprie soggettive aspirazioni; non
potendo egli, di converso, pretendere che a qualsiasi lavoro sia adatti soltanto, in
vece sua, il genitore.
Un’analoga evoluzione di concetti, si noti, ha interessato il diritto all’assegnazione
della casa familiare, dove si afferma con maggior rigore, nell’attuale diritto vivente,
che “il ritorno, in una data frazione temporale, deve non solo avvenire con cadenza
regolare, ma anche essere frequente, sicchè non può affermarsi la convivenza del
figlio che, in una data unità temporale, particolarmente estesa, risulti obiettivamente
assente da casa, sia pure per esigenze lavorative o di studio, e che sebbene vi
ritorni regolarmente non appena possibile. L’assenza per tutto il periodo considerato
e la rarità dei rientri per quanto regolari, non possono essere controbilanciati dalla
sola ipotetica regolarità del ritorno, altrimenti il collegamento con l’abitazione
diverrebbe troppo labile, sconfinando nel mero rapporto di ospitalità” (Cass. 17
giugno 2019, n. 16134, in motivazione, la quale ha confermato il decreto di revoca
dell’assegnazione della casa coniugale, basato sull’accertato rientro della figlia,
iscritta all’università in altra città, nell’abitazione del genitore divorziato solo per pochi
giorni durante le vacanze natalizie, pasquali ed estive), così superando il precedente
più lato orientamento.
Ciò conferma come, quando siano di rilievo i concetti del dovere e
dell’autoresponsabilità – e non solo quelli del “diritto ad ogni possibile diritto” –
dall’assistenzialismo anche il nostro ordinamento giuridico proceda di pari passo con
l’evoluzione della società civile, pur corroborando tali principi con l’applicazione
razionale e perdurante del principio di solidarietà ex art. 2 Cost..
4.2.4. – Invero, il principio dell’autoresponsabilità” ha fatto ampio ingresso nel nostro
ordinamento, anche in presenza di un diritto che chieda di essere affermato, ed,
anzi, proprio per rendere ragionevole e “sostenibile” qualsiasi diritto. La pienezza
della scelta esistenziale personale deve pur fare i conti nel bilanciamento con le
libertà e diritti altrui di pari dignità.
Nei precedenti di questa Corte, il principio di “autoresponsabilità” è spesso
richiamato, nei settori più diversi: a delimitare il diritto soggettivo secondo
ragionevolezza, alla stregua delle clausole generali della diligenza e della buona
fede. Si tratta di un principio sovente richiamato nella giurisprudenza di questa
Corte, man mano che l’evoluzione dei tempi induce ad accentuare i legami tra la
pretesa dei diritti e l’adempimento dei doveri, indissolubilmente legati già nell’art. 2
Cost..
Detto principio si rinviene, infatti, in una pluralità di decisioni: sia quanto ai rapporti
personali, con riguardo ad esempio all’assegno di divorzio (Cass. 9 agosto 2019, n.
21228; Cass. 29 agosto 2017, n. 20525; Cass. 30 agosto 2019, n. 21926) o del
separato con nuova convivenza, che tale scelta consapevole abbia compiuto (Cass.
19 dicembre 2018, n. 32871; Cass. 27 giugno 2018, n. 16982).
Del pari, nei rapporti patrimoniali, dove si richiama l’autoresponsabilità dell’operatore
qualificato, allorchè sottoscriva la relativa dichiarazione nel contratto d’investimento
finanziario (Cass. 24 aprile 2018, n. 10115, non mass.; Cass. 20 marzo 2018, n.
6962, non mass.); dell’acquirente nel contratto di compravendita, dove viene esclusa
la garanzia nel caso di facile riconoscibilità dei vizi della cosa venduta, ai sensi
dell’art. 1491 c.c. (Cass. 6 febbraio 2020, n. 2756); quanto agli effetti della
trascrizione, agganciati all’autoresponsabilità del trascrivente, con riguardo
all’inesatta indicazione, nella nota, delle generalità della persona contro cui si
intenda trascrivere (Cass. 19 marzo 2019, n. 7680).
Il concetto è poi criterio cui ampiamente si fa ricorso, alla stregua della regola
generale ex art. 1227 c.c., nelle decisioni sui danni, fra gli altri, da fumo attivo (Cass.
10 maggio 2018, n. 11272; Cass. 30 luglio 2013, n. 18267; Cass. 4 luglio 2007, n.
15131; nonchè Cass. pen. 21 giugno 2013, n. 37762; Cass. pen. 27 gennaio 2012,
n. 9479; Cass. pen. 21 dicembre 2011, n. 11197), al lavoratore per l’omissione di
cautele doverose (Cass. pen., sez. IV, 28 novembre 2018, n. 5007; Cass. pen., sez.
IV, 10 febbraio 2016, n. 8883 e Cass. pen., sez. IV, 14 gennaio 2016, n. 3616),
all’utente nel trasporto ferroviario (Cass. 27 aprile 2011, n. 9409); per il concorso del
danneggiato pur minorenne (Cass. 1 febbraio 2018, n. 248) e per i danni cagionati
dai cd. grandi minori, ai sensi dell’art. 2048 c.c. (Cass. 31 gennaio 2018, n. 2334);
per la responsabilità da cose in custodia ex art. 2051 c.c. si richiede, da parte del
danneggiato, l’adozione delle cautele normalmente attese (fra le tante, Cass. 1
febbraio 2018, n. 2480).
E non mancano numerose decisioni che adottano il criterio della autoresponsabilità
processuale: quanto all’interpretazione dell’art. 37 c.p.c. (Cass., sez. un., 20 aprile
2018, n. 9912; Cass., sez. un. 20 ottobre 2016, n. 21260; Cass., sez. un., 29 marzo
2011, n. 7097; Cass., sez. un., 28 gennaio 2011 n. 2067; Cass., sez. un., 9 ottobre
2008, n. 24883), ed, ancora, in tema di scelta del foro competente, di notificazione,
di mancata integrazione del contraddittorio, di appello incidentale ex art. 346 c.p.c.,
nella lettura dell’art. 547 c.p.c., sulla dichiarazione di terzo, per l’irripetibilità delle
spese eccessive o superflue di cui all’art. 92 c.p.c., comma 1, o nel giudizio di
opposizione agli atti esecutivi (rispettivamente, cfr. Cass. 16 luglio 2019, n. 19048;
Cass. 26 settembre 2019, n. 24071; Cass., sez. un., 21 marzo 2019, n. 7940 e Cass.
31 luglio 2019, n. 20726; Cass. 26 febbraio 2019, n. 5489; Cass. 5 ottobre 2018, n.
24571; Cass. 12 giugno 2018, n. 15193); ed in tema di notifica nel domicilio eletto
dell’invito al pagamento del contributo unificato, la stessa Corte costituzionale ha
fatto ricorso al principio (Corte Cost. 29 marzo 2019, n. 67).
4.3. – I figli minorenni. Nella materia in esame, occorre ora ulteriormente osservare
come, alla stregua della lettera e della ratio dell’art. 337-septies c.c., comma 1, la
legge si fondi sull’assunto secondo cui l’obbligo in questione permane a carico dei
genitori sino al momento in cui il figlio raggiunga la maggiore età, alla stregua del
dovere di mantenere e del diritto di essere mantenuto, rispettivamente previsti
dall’art. 147 c.c. (per gli adottivi, dalla L. 4 maggio 1983, n. 184, art. 48, comma 2) e
art. 315-bis c.c., comma 1.
Tale obbligo economico viene configurato, in modo paritario, unitamente ad altri
essenziali diritti-doveri verso la prole: ossia quelli di “istruire, educare e assistere
moralmente i figli”.
Così come il dovere di educare a tutte le esigenze della vita e di procurare
un’istruzione ai figli – e, specularmente, di esigere la continuazione negli studi oltre
quelli dell’obbligo – può ragionevolmente datarsi dalla nascita alla maggiore età del
figlio, del pari il dovere di mantenere i figli permane sicuramente fino a quella età, ai
sensi degli artt. 147 e 315-bis c.c..
4.4. – I figli maggiorenni. Da tale momento, subentra la diversa disposizione “in
favore dei figli maggiorenni”, di cui all’art. 337-septies c.c., comma 1, ogniqualvolta
essi siano “non indipendenti economicamente”: nella quale l’obbligo non è posto
direttamente ed automaticamente dal legislatore, ma è rimesso alla dichiarazione
giudiziale alla stregua di tutte le “circostanze” del caso concreto.
Esso sarà quindi disposto – pena la superfluità della norma di riserva alla decisione
del giudice – non solamente e non semplicemente perchè manchi l’indipendenza
economica del figlio maggiorenne.
Affinchè la disposizione menzionata abbia un qualche effetto, occorre, invero,
eliminare ogni automatismo, rimettendo essa al giudice la decisione circa
l’attribuzione del diritto al mantenimento, prima di quel momento inesistente.
Nel concetto di “indipendenza economica” questa Corte ha condivisibilmente
ricondotto quanto occorre per soddisfare le primarie esigenze di vita, secondo
nozione ricavabile dall’art. 36 Cost., dunque in presenza della idoneità della
retribuzione a consentire un’esistenza dignitosa (Cass. 11 gennaio 2007, n. 407). La
legge, quindi, fonda l’estinzione dell’obbligo di contribuzione dei genitori nei confronti
dei figli maggiorenni, in concomitanza all’acquisto della capacità di agire e della
libertà di autodeterminazione, che si conseguono al raggiungimento della maggiore
età.
Tale la conclusione appare coerente, sul piano assiologico, con gli artt. 1, 4 e 30
Cost.: i primi due che proclamano – addirittura in cima ai principi fondamentali della
Repubblica – essere questa “fondata sul lavoro”; il terzo che afferma il “dovere e
diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli”, secondo una correlazione
ineliminabile fra funzione educativo-formativa ed obbligo di mantenimento.
Osservandosi dunque dalla dottrina, che si è occupata ex professo dell’argomento,
come, perchè si dia un senso all’obbligo economico a favore dei figli maggiorenni a
carico dei genitori, ormai non più titolari di poteri disciplinari e rappresentativi, tale
obbligo necessariamente si correla alla concreta condotta di impegno nella
personale formazione, o, dove terminata, nella ricerca di un impiego.
Si tratta, in sostanza, dell’applicazione del principio dell’abuso del diritto, o, meglio,
ricorrendo alle clausole generali da tempo caratterizzanti il nostro ordinamento, della
buona fede oggettiva: il diritto al mantenimento del figlio maggiorenne non può
sorgere già “abusivo” o “di mala fede”: onde, perchè esso sia correttamente inteso,
occorre che la concreta situazione economica non sia il frutto di scelte irragionevoli e
sostanzialmente volte ad instaurare un regime di controproducente assistenzialismo,
nel disinteresse per la ricerca della dovuta una indipendenza economica.
Al riguardo, questa Corte ha da tempo operato condivisibili riferimenti ai principi
predetti della “ragionevolezza”, della “normalità” e del divieto di abuso del diritto
(Cass. 20 agosto 2014, n. 18076; nonchè Cass. 1 febbraio 2016, n. 1858).
Secondo il principio della autoresponsabilità dei soggetti, più sopra richiamato.
Non è dunque necessaria una prescrizione legislativa, che, come da taluno in
dottrina aveva auspicato, fissi in modo specifico l’età in cui l’obbligo di mantenimento
del figlio viene meno: in quanto, sulla base del sistema positivo, tale limite è già
rinvenibile e risiede nel raggiungimento della maggiore età, salva la prova (sovente
raggiunta agevolmente ed in via indiziaria) che il diritto permanga per l’esistenza di
un percorso di studi o, più in generale, formativo in fieri, in costanza di un tempo
ancora necessario per la ricerca comunque di un lavoro o sistemazione che assicuri
l’indipendenza economica.
Il concetto è quello della cd. capacità lavorativa, intesa come adeguatezza a
svolgere un lavoro, in particolare un lavoro remunerato. Essa si acquista con la
maggiore età, quando la legge presuppone raggiunta l’autonomia ed attribuisce
piena capacità lavorativa, da spendere sul mercato del lavoro, tanto che si gode
della capacità di agire (e di voto): salva la prova di circostanze che giustificano, al
contrario, il permanere di un obbligo di mantenimento.
In mancanza, il figlio maggiorenne non ne ha diritto; ed, anzi, può essere ritenuto
egli stesso inadempiente all’obbligo, posto a suo carico dall’art. 315-bis c.c., comma
4, di “contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio
reddito, al mantenimento della famiglia finchè convive con essa”.
4.5. – Fondamenti sostanziali del diritto al mantenimento del maggiorenne. I criteri
del diritto all’ulteriore mantenimento sono quelli sopra esposti, come di seguito
specificati in ordine alle diverse circostanze, peraltro limitatamente a quelle afferenti
l’odierno thema decidendum.
4.5.1. – La raggiunta età matura del figlio, in ragione dello stretto collegamento tra
doveri educativi e di istruzione, da un lato, ed obbligo di mantenimento, dall’altro
lato, assume rilievo in sè (i primi non potendo che cessare ad un certo punto
dell’evoluzione umana): l’età maggiore, pertanto, tanto più quando è matura – perchè
sia raggiunta, secondo l’id quod plerumque accidit, quell’età in cui si cessa di essere
ragazzi e di accettare istruzioni ed indicazioni parentali per le proprie scelte di vita,
anche minuta e quotidiana, e si diventa uomini e donne – implica l’insussistenza del
diritto al mantenimento.
4.5.2. – Con particolare riguardo all’attività di studio, occorre osservare come sia del
tutto corretto che tale opportunità venga dai genitori offerta alla prole, atteso che
l’ordinamento giuridico tutela le esigenze formative e culturali (artt. 9, 30, 33 e 34
Cost.), comportando tale arricchimento personale anche un indiretto beneficio alla
società.
Ciò vuol dire che, trascorso un lasso di tempo sufficiente dopo il conseguimento di
un titolo di studio, non potrà più affermarsi il diritto del figlio ad essere mantenuto: il
diritto non sussiste, cioè, certamente dopo che, raggiunta la maggiore età, sia altresì
trascorso un ulteriore lasso di tempo, dopo il conseguimento dello specifico titolo di
studio in considerazione (diploma superiore, laurea triennale, laurea quinquennale,
ecc.), che possa ritenersi idoneo a procurare un qualche lavoro, dovendo essere
riconosciuto al figlio il diritto di godere di un lasso di tempo per inserirsi nel mondo
del lavoro.
Tale regola vale in tutti i casi in cui il soggetto ritenga di avere concluso il proprio
percorso formativo e non abbia, pertanto, l’intenzione di proseguire negli studi per un
migliore approfondimento, in quanto il figlio reputi terminato il periodo di formazione
ed acquisizione di competenze.
La capacità di mantenersi e l’attitudine al lavoro sussistono sempre, in sostanza,
dopo una certa età, che è quella tipica della conclusione media un percorso di studio
anche lungo, purchè proficuamente perseguito, e con la tolleranza di un ragionevole
lasso di tempo ancora per la ricerca di un lavoro.
Invero, occorre affermare come il diritto al mantenimento debba trovare un limite
sulla base di un termine, desunto dalla durata ufficiale degli studi e dal tempo
mediamente occorrente ad un giovane laureato, in una data realtà economica,
affinchè possa trovare un impiego; salvo che il figlio non provi non solo che non sia
stato possibile procurarsi il lavoro ambito per causa a lui non imputabile, ma che
neppure un altro lavoro fosse conseguibile, tale da assicurargli l’auto-mantenimento.
A ciò si aggiunga che, del pari, dovrà tenersi conto dell’adeguatezza e
ragionevolezza delle opzioni formative, operate dal figlio, rispetto alle condizioni
della famiglia, cui non è ammesso imporre un contributo per essa eccessivamente
gravoso e non rientrante nelle sue concrete possibilità economiche, tenuto conto –
secondo buona fede – della non imposizione di un eccessivo sacrificio alle altrui
esigenze di vita.
Occorre, altresì, considerare l’esistenza di provvidenze e sovvenzioni, che lo Stato e
molte istituzioni formative predispongono in favore degli studenti meritevoli: i quali –
laddove maggiorenni, che pretendano il mantenimento dai propri genitori – potranno,
in tal modo, agevolmente dimostrare come la vincita, ad esempio, di una borsa di
studio palesi la proficuità della prosecuzione negli studi e la debenza, quindi,
dell’intero mantenimento in proprio favore.
Più in generale, pertanto, una maggiore tutela meriterà il figlio che prosegua negli
studi con impegno, diligenza e passione, rispetto a chi si trascini stancamente in un
percorso di “studi” nient’affatto proficuo.
4.5.3. – Quanto al tipo di impiego desiderato, non sussiste, nella dovuta ricerca
dell’aspirato lavoro, un rigido vincolo alla preparazione teorica in atto, dal momento
che integra, invece, un dovere del figlio la ricerca comunque dell’autosufficienza
economica, secondo un principio di autoresponsabilità nel contemperare le
aspirazioni di lavoro con il concreto mercato del lavoro.
Anzi, deve ritenersi che tale dovere sussista, vuoi ex ante, sin dagli esordi del corso
di studi, che il figlio ha l’onere di ponderare in comparazione con le proprie effettive
capacità personali, di studio e di impegno, oltre che con le concrete offerte ed
opportunità di prestazioni lavorative; vuoi ex post, quando esso si atteggia quale
dovere di ricercare qualsiasi lavoro e di attivarsi in qualunque direzione sia
necessario.
4.5.4. – Riassuntivamente, tra le evenienze che comportano il sorgere del diritto al
mantenimento in capo al figlio maggiorenne non autosufficiente, si pongono, fra le
altre: a) la condizione di una peculiare minorazione o debolezza delle capacità
personali, pur non sfociate nei presupposti di una misura tipica di protezione degli
incapaci; b) la prosecuzione di studi ultraliceali con diligenza, da cui si desuma
l’esistenza di un iter volto alla realizzazione delle proprie aspirazioni ed attitudini, che
sia ancora legittimamente in corso di svolgimento, in quanto vi si dimostrino effettivo
impegno ed adeguati risultati, mediante la tempestività e l’adeguatezza dei voti
conseguiti negli esami del corso intrapreso; c) l’essere trascorso un lasso di tempo
ragionevolmente breve dalla conclusione degli studi, svolti dal figlio nell’ambito del
ciclo di studi che il soggetto abbia reputato a sè idoneo, lasso in cui questi si sia
razionalmente ed attivamente adoperato nella ricerca di un lavoro; d) la mancanza di
un qualsiasi lavoro, pur dopo l’effettuazione di tutti i possibili tentativi di ricerca dello
stesso, sia o no confacente alla propria specifica preparazione professionale.
Nella concreta valutazione di tali elementi, può essere ragionevolmente operato dal
giudice proficuo riferimento ai dati statistici, da cui risulti il tempo medio, in un dato
momento storico, al reperimento di una occupazione, a seconda del grado di
preparazione conseguito.
4.6. – Conseguenze sull’onere della prova. Da quanto esposto deriva che l’onere
della prova delle condizioni che fondano il diritto al mantenimento è a carico del
richiedente.
L’obbligo di mantenimento legale cessa con la maggiore età del figlio; in seguito ad
essa, l’obbligo sussiste laddove stabilito dal giudice, sulla base delle norme
richiamate.
Ai fini dell’accoglimento della domanda, pertanto, è onere del richiedente provare
non solo la mancanza di indipendenza economica – che è la precondizione del diritto
preteso – ma di avere curato, con ogni possibile, impegno, la propria preparazione
professionale o tecnica e di avere, con pari impegno, operato nella ricerca di un
lavoro.
Non è dunque il convenuto – soggetto passivo del rapporto – onerato della prova
della raggiunta effettiva e stabile indipendenza economica del figlio, o della
circostanza che questi abbia conseguito un lavoro adeguato alle aspirazioni
soggettive.
Infatti, raggiunta la maggiore età, si presume l’idoneità al reddito, che, per essere
vinta, necessita della prova delle fattispecie che integrano il diritto al mantenimento
ulteriore.
Ciò è coerente con il consolidato principio generale di prossimità o vicinanza della
prova, secondo cui la ripartizione dell’onere probatorio deve tenere conto, oltre che
della partizione della fattispecie sostanziale tra fatti costitutivi e fatti estintivi od
impeditivi del diritto, anche del principio riconducibile all’art. 24 Cost, ed al divieto di
interpretare la legge in modo da rendere impossibile o troppo difficile l’esercizio
dell’azione in giudizio della riferibilità o vicinanza o disponibilità dei mezzi di prova;
conseguentemente, ove i fatti possano essere noti solo ad una delle parti, ad essa
compete l’onere della prova, pur negativa (Cass. 25 luglio 2008, n. 20484; nonchè
ancora Cass. 16 agosto 2016, n. 17108; Cass. 14 gennaio 2016, n. 486; Cass. 17
aprile 2012, n. 6008; Cass., sez. un., 30 ottobre 2001, n. 13533; Cass. 25 luglio
2008, n. 20484; Cass. 1 luglio 2009, n. 15406).
4.7. – La prova presuntiva. Peraltro, le concrete situazioni di vita saranno sovente
ragione d’integrazione della prova presuntiva circa l’esistenza del diritto, in quanto,
ad esempio, incolpevole del tutto o inesigibile sia la conquista attuale di una
posizione lavorativa, che renda il figlio maggiorenne economicamente
autosufficiente.
Se, pertanto, sussista una condotta caratterizzata da intenzionalità (ad es. uno stile
di vita volutamente inconcludente e sregolato) o da colpa (come l’inconcludente
ricerca di un lavoro protratta all’infinito e senza presa di coscienza sulle proprie reali
competenze), certamente il figlio non avrà dimostrato di avere diritto al
mantenimento.
Ne deriva che, in generale, la prova sarà tanto più lieve per il figlio, quanto più
prossima sia la sua età a quella di un recente maggiorenne; di converso, la prova del
diritto all’assegno di mantenimento sarà più gravosa, man mano che l’età del figlio
aumenti, sino a configurare il “figlio adulto”, in ragione del principio
dell’autoresponsabilità, con riguardo alle scelte di vita fino a quel momento operate
ed all’impegno profuso, nella ricerca, prima, di una sufficiente qualificazione
professionale e, poi, di una collocazione lavorativa.
In particolare, tale onere della prova risulterà particolarmente lieve in prossimità della
maggiore età, appena compiuta, ed anche per gli immediati anni a seguire, quando il
soggetto abbia intrapreso, ad esempio, un serio e non pretestuoso studio
universitario: già questo integrando la prova presuntiva del compimento del giusto
sforzo per meglio avanzare verso l’ingresso nel mondo del lavoro (e non solo).
4.8. – Volontaria assunzione dell’obbligo di mantenimento. Giova appena aggiungere
che la volontaria assunzione dell’obbligo di mantenimento da parte del genitore, sia
egli convivente o no, è ben ammissibile anche al di fuori delle condizioni esposte.
Ciò, tuttavia, sulla base del diverso principio della libera autodeterminazione delle
opzioni proprie della famiglia.
4.9. – L’obbligo degli alimenti. Altro è il perdurare dell’obbligo degli alimenti.
La disciplina prevede che presupposto per il conseguimento dell’assegno sia la
mancanza dei mezzi necessari di sussistenza, nè essi sono rinunciabili.
L’entità dell’assegno viene qui commisurata ai bisogni primari ed essenziali, per tutto
il tempo in cui ciò sia necessario, posto che il relativo diritto viene meno solo se
cessino i requisiti richiesti per la sua erogazione; onde il genitore non interromperà
comunque l’adempimento della prestazione de qua, che permane dopo la maggiore
età.
4.10. – Nella specie, la corte territoriale non ha violato i predetti principi, onde si
palesa l’infondatezza dei motivi proposti.

– Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di
lite, che liquida in Euro 3.200,00, ivi compresi Euro 200,00 per esborsi, oltre
alle spese forfetarie nella misura del 15% sui compensi ed agli accessori pi
legge.
Dispone oscuramento dei dati sensibili come previsto dalla legge.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 15, art. 13, comma 1-quater, dà atto della
sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente,
dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto,
per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
In caso di diffusione del presente provvedimento si omettano le generalità e gli
altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 16 luglio 2020.
Depositato in Cancelleria il 14 agosto 2020