Sentenza, Corte Suprema di Cassazione, III Sezione Civile, 5 maggio 2020, n.8459, Campioni biologici – Accertamento della paternità:
Secondo i giudici di legittimità, il CTU può procedere all’analisi di campioni biologici conservati da una struttura ospedaliera dove il presunto genitore naturale abbia svolto delle analisi, al fine di procedere all’accertamento giudiziale della paternità. Le strutture sanitarie, infatti, conservano e archiviano campioni biologici, idonei a rivelare l’identità di una persona, per fini istituzionali e di giustizia.
Corte Suprema di Cassazione, III Sezione Civile, 5 maggio 2020, n.8459:
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ARMANO Uliana – Presidente –
Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –
Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –
Dott. OLIVIERI Stefano – rel. Consigliere –
Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 28839/2017 proposto da:
F.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ENNIO QUIRINO VISCONTI 103, presso lo
studio dell’avvocato LUISA GOBBI, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati
RUGGERO SONINO, ALDO SILANOS, ELISABETTA ORSINI, PATRIZIA CHIAMPAN;
ricorrente –
contro
B.C., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA VALSAVARANCHE, 46 SC. D, presso lo studio
dell’avvocato MARCO CORRADI, che lo rappresenta e difende;
controricorrenti –
e contro
B.M.P.;
intimata –
avverso la sentenza n. 2014/2017 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il
28/11/2017;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 16/05/2019 dal Consigliere
Dott. STEFANO OLIVIERI;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. BASILE Tommaso, che ha
concluso per l’accoglimento del 1 motivo;
udito l’Avvocato ELISABETTA ORSINI;
udito l’Avvocato MARCO CORRADI.
Svolgimento del processo
La Corte d’appello di Venezia, con sentenza in data 19.9.2017 n. 2014, ha rigettato l’appello
proposto da F.G., confermando la decisione di prime cure che aveva accolto la domanda
proposta da B.C. di accertamento del proprio status di figlio naturale di T.A. (deceduto nel
corso del giudizio ed al quale era succeduto l’erede F.G.), ed aveva invece rigettato la
domanda riconvenzionale, proposta dal F., di condanna al risarcimento danni per doloso
occultamento della procreazione con conseguente ingiusta privazione per il padre del
rapporto di filiazione.
Il Giudice territoriale dichiarava inammissibili i motivi di gravame volti a reiterare le
medesime eccezioni di nullità delle operazioni di indagine medico-legale svolte
dall’ausiliario in primo grado, in quanto del tutto sforniti di una puntuale critica agli
argomenti in fatto e diritto svolti dal Giudice di prime cure a fondamento del rigetto delle
eccezioni. Quanto alla domanda riconvenzionale di condanna, la Corte territoriale ha
ritenuto inconfigurabile un danno da perdita di chances avuto riguardo alla condotta del T.
ostinatamente volta a contestare di aver intrattenuto una relazione con B.M.P. e la propria
paternità naturale di B.C.. Avverso la sentenza di appello, notificata in data 2.10.2017, F.G. ha
proposto ricorso per cassazione affidato a cinque motivi.
Resiste con controricorso B.C.. Non ha svolto difese B.M.P. cui il ricorso è stato notificato, in
via telematica, in data 28.11.2017 presso l’indirizzo PEC del difensore domiciliatario.
Il ricorrente ha depositato memoria illustrativa ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
p.1. Con il primo motivo il ricorrente censura la dichiarazione di inammissibilità dei motivi
di gravame, deducendo la violazione dell’art. 342 c.p.c., in quanto l’atto di appello
rispondeva a tutti i requisiti prescritti dalla norma processuale come modificata dal D.L. n.
83 del 2012, conv. in L. n. 134 del 2012, avendo dedotto l’appellante, con il primo motivo,
l’errore commesso dal Tribunale laddove aveva ritenuto abbandonata – in quanto non
specificamente reiterata alla udienza di precisazione delle conclusioni – la eccezione di
nullità della c.t.u., tempestivamente sollevata nella prima difesa utile (verbale udienza
27.9.2013) successiva al deposito dell’elaborato peritale, e nuovamente reiterata con la
generale richiesta di accoglimento di tutte le domande, eccezioni ed istanze formulata a
verbale di udienza 16.6.2015 fissata per la precisazione delle conclusioni in primo grado; ed
avendo contestato, con il secondo e con il terzo motivo di gravame, indicando le norme del
D.Lgs. n. 196 del 2003, che erano state violate, la statuizione del Tribunale che aveva
ritenuto legittima la utilizzazione dei dati personali sensibili (campioni di sostanze
biologiche e dati genetici dagli stessi ricavati) riferiti al T., nonchè la illegittimità della
“delega all’espletamento dell’incarico” conferita di fatto dal CTU agli specialisti ed ai tecnici
di laboratorio di cui si era avvalso.
1.1 Con il secondo motivo la sentenza di appello viene impugnata, per violazione dell’art.
189 c.p.c., nella parte in cui, pur dopo aver dichiarato la inammissibilità dei motivi di
gravame ex art. 342 c.p.c., aveva esaminato egualmente nel merito il primo motivo di
appello, ritenendolo infondato e condividendo la pronuncia del primo Giudice che aveva
ritenuto abbandonata la eccezione di nullità della c.t.u..
1.2 Con il terzo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n.
196 del 2003, artt. 11 e 16, art. 13 Cost., art. 8 CEDU, art. 16 TFUE e art. 8 CDFUE, in quanto
la Corte d’appello, pur dopo aver dichiarato inammissibile i motivi di gravame secondo e
terzo, li aveva poi esaminati egualmente, aderendo agli argomenti svolti dal Tribunale, così
affermando erroneamente la legittimità delle operazioni peritali, atteso che i dati personali
posti a fondamento delle risultanze della c.t.u. non avrebbero invece potuto essere utilizzati
nel processo civile, in quanto illecitamente “ceduti” dalle strutture ospedaliere, atteso il
disposto dell’art. 191 c.p.p., che fa espresso divieto della utilizzazione di prove
illegittimamente acquisite.
1.3 Con il quarto motivo la sentenza di appello viene impugnata per violazione e falsa
applicazione degli artt. 62 e 194 c.p.c., in quanto la c.t.u. avrebbe dovuto essere dichiarata
affetta da nullità essendo state svolte le indagini da soggetti diversi dall’ausiliario incaricato
dal Giudice e non avendo il CTU presenziato alle operazioni peritali.
1.4 I motivi, stante la oggettiva connessione, possono essere trattati unitariamente.
1.4.1 La Corte d’appello, dopo aver dato atto che la verifica di ammissibilità del gravame
doveva essere compiuta alla stregua del testo dell’art. 342 c.p.c., precedente alle modifiche
introdotte dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. oa), conv. con mod. in L. 7
agosto 2012, n. 134 -, ha correttamente rilevato il perimetro tracciato dalla giurisprudenza
di legittimità – anteriormente alla indicata modifica legislativa – nella individuazione dei
requisiti minimi che i motivi di gravame debbono rivestire per superare il vaglio preliminare
di ammissibilità, e che sono stati successivamente compendiati nella pronuncia di questa
Corte Sez. U -, Sentenza n. 27199 del 16/11/2017. Le Sezioni Unite, nel fornire la
interpretazione del “nuovo” testo dell’art. 342 c.p.c., hanno evidenziato come il Legislatore
abbia inteso formalizzare in norma quelli che erano già i consolidati approdi
giurisprudenziali in tema di ammissibilità dell’atto di appello, ed hanno enunciato il
principio di diritto secondo cui “Gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal D.L. n. 83 del
2012, conv. con modif. dalla L. n. 134 del 2012, vanno interpretati nel senso che
l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle
questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze,
affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni
addotte dal primo giudice, senza che occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la
redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado,
tenuto conto della permanente natura di “revisio prioris instantiae” del giudizio di appello, il
quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata”, principio che
si pone, quindi, interamente in linea con i canoni interpretativi dell’art. 342 c.p.c., già
elaborati ante riforma.
Tuttavia alla corretta enunciazione dei principi non è seguita, da parte del Giudice
territoriale, la corretta applicazione degli stessi nella fattispecie concreta.
La pronuncia di inammissibilità dell’appello, per difetto del requisito di specificità di motivi
di gravame, si palesa infatti meramente assertiva e non conforme a diritto, in quanto
dall’esame dell’atto di appello, cui la Corte ha diretto accesso attesa la natura del vizio di
legittimità denunciato, emerge – al contrario – che, nella esposizione delle ragioni di
impugnazione, l’appellante aveva fornito gli elementi minimi idonei a sottoporre al Giudice
del gravame l’esame degli argomenti in fatto e diritto volti a contrastare le statuizioni
assunte del primo Giudice in ordine all’asserito abbandono e, comunque anche alla
infondatezza, della eccezione di nullità della c.t.u. medico-legale: le critiche alla sentenza di
prime cure veniva mosse, infatti, dall’appellante, tanto in relazione al profilo della
reiterazione della eccezione anche alla udienza di precisazione delle conclusioni, quanto in
relazione al profilo della allegazione del pregiudizio subito dalla utilizzabilità delle
risultanze peritali, laddove la nullità delle indagini tecniche svolte dal CTU veniva fondata
sulla presupposta “inutilizzabilità” dei “dati personali” identificativi delle caratteristiche
genetiche del T., con conseguente caducazione dell’accertamento di paternità, in quanto non
assistito anche da altri elementi probatori.
1.4.2 L’errore processuale in cui è incorsa la Corte d’appello, non determina tuttavia la
cassazione della sentenza impugnata, atteso che il Giudice di merito ha, comunque,
esaminato anche nel merito i predetti motivi di gravame condividendo la valutazione di
infondatezza del Tribunale, dovendo quindi procedersi all’esame degli altri motivi di ricorso.
p.2. Entrambi i Giudici dei gradi precedenti hanno concluso per l’insussistenza dell’obbligo
di pronuncia sulla questione di nullità della c.t.u., ritenendo che alla udienza di precisazione
delle conclusioni in primo grado i difensori del F. non avessero insistito nella relativa
eccezione.
A sostegno della tesi della rituale reiterazione della eccezione di nullità della c.t.u., il
ricorrente assume invece che, con il primo motivo dell’atto di appello aveva puntualmente
dedotto che i propri difensori, alla udienza 16.6.2015 di precisazione delle conclusioni in
primo grado, avevano espressamente dichiarato di insistere anche “per l’ammissione delle
proprie istanze”, tra cui doveva ricomprendersi anche la detta eccezione.
2.1 Osserva il Collegio che viene in questione la correttezza della rilevazione, da parte del
Giudice di merito, delle richieste, espressamente formulate a verbale di udienza, che i
difensori, in considerazione delle capacità professionali loro riconosciute, sono tenuti a
formulare secondo un preciso linguaggio tecnico-giuridico: in tal senso il Giudice è tenuto ad
attribuire alle richieste conclusive delle parti – salvi eventuali errori di qualificazione
giuridica sempre emendabili il significato proprio che le stesse assumono in relazione alle
diverse figure tipizzate di istanze connesse alla attività processuale.
Al proposito si possono delineare due scenari:
se il difensore non compare alla udienza di precisazione delle conclusioni, il Giudice non può
trarre da tale condotta processuale alcuna inferenza presuntiva intesa a dimostrare la
volontà di abbandono delle domande, eccezioni, istanze di ammissione di prove, formulate
dalla parte nei propri atti difensivi. La mancata partecipazione del procuratore della parte
alla udienza fissata per la precisazione delle conclusioni non comporta, infatti, secondo la
consolidata giurisprudenza di legittimità, “alcuna volontà di rinuncia alle domande e alle
eccezioni in precedenza proposte, dovendosi presumere che la parte stessa abbia inteso
tenere ferme, senza variarle, le conclusioni formulate in precedenza formulate negli atti
tipici a ciò destinati e, quindi, nell’atto introduttivo del giudizio o nella comparsa di risposta,
come anche nell’udienza o nei termini ex art. 183 c.p.c…” (cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n.
5018 del 4/03/2014). Tale conclusione non muta neppure nel caso in cui, sulle istanze
istruttorie, il Giudice si sia pronunciato con ordinanza istruttoria: poichè le ordinanze
comunque motivate non pregiudicano mai la decisione della causa – art. 177 c.p.c., comma 1 –
, ne segue che anche l’ordinanza istruttoria che rigetta la ammissione delle prove si
caratterizza per la sua “interinalità” dovendo sempre essere riconsiderata nella motivazione
della sentenza – anche se soltanto in modo implicito o per relationem mediante conferma
della ordinanza – la istanza istruttoria del difensore della parte non comparso alla udienza di
precisazione delle conclusioni se il difensore compare alla udienza di precisazione delle
conclusioni, il Giudice è tenuto a verificare il perimetro oggettivo delineato dalle richieste
conclusive, che si sostituiscono a tutte le precedenti istanze, domande, eccezioni (pur
potendo il difensore eventualmente limitarsi soltanto ad un loro richiamo: come nel caso di
generica richiesta di esame di tutte le difese svolte): in tal caso la eventuale difformità –
anche soltanto quantitativa – tra le precedenti richieste e quelle conclusive, comporta una
presunzione di abbandono delle richieste non riprodotte, salvo che non emergano elementi,
evidenziati dalla complessiva condotta processuale della parte, o dalla stretta connessione
della domanda non riproposta con quelle esplicitamente reiterate, dai quali possa desumersi
una contraria inequivoca volontà della parte di insistere sulla domanda od eccezione
pretermessa (cfr. Corte Cass. Sez. 2, Sentenza n. 9465 del 19/05/2004; id. Sez. 3, Sentenza n.
3593 del 16/02/2010; id. Sez. 3, Sentenza n. 1603 del 03/02/2012; id. Sez. L, Sentenza n.
22626 del 03/10/2013; id. Sez. 1, Sentenza n. 15860 del 10/07/2014; id. Sez. 2, Sentenza n.
17582 del 14/07/2017). Ipotesi – quest’ultima – che si verifica qualora si riscontri una
relazione di pregiudizialità-dipendenza tecnico-giuridica tra le domande od eccezioni e più
in generale di implicazione logica tra le istanze difensive: in tal caso sussiste la presunzione
di persistenza della domanda “pregiudicante” o della istanza “implicante” non reiterata,
salvo che la parte interessata vi abbia espressamente rinunciato e non sia necessario, per
legge, decidere la questione pregiudiziale con efficacia di giudicato (cfr. Corte Cass. Sez. 2,
Sentenza n. 12482 del 26/08/2002; id. Sez. 3, Sentenza n. 2093 del 29/01/2013).
2.2 Tanto premesso, dall’esame del verbale di udienza 16.6.2015 in primo grado, risulta che
“i procuratori del sig. F. concludono come da comparsa di costituzione e risposta dimessa in
data 19.7.2011 con esclusione della domanda oggi rinunciata; in via istruttoria, insistono per
l’ammissione delle istanze non ammesse” (verbale 16.6.2015, trascritto dal resistente –
controric. pag. 10).
Orbene la richiesta conclusiva – formulata a verbale di udienza con il rinvio alla comparsa di
risposta – di rigetto della domanda attorea di dichiarazione giudiziale di paternità e di
accoglimento della domanda riconvenzionale di condanna condizionata, evidenzia – avuto
riguardo allo svolgimento del processo, condotto esclusivamente mediante espletamento di
c.t.u. medico legale che aveva accertato la compatibilità genetica tra l’attore ed il T. pari al
99,99% – una manifesta incompatibilità con la presunzione di abbandono dell’unica
eccezione di invalidità per vizio processuale, formulata del convenuto T. (e del successore
erede F.), idonea a contrastare attraverso la invalidazione dell’unica risultanza istruttoria la
domanda attorea: tra la negazione della prova dei fatti costitutivi della domanda ed il vizio di
nullità della c.t.u. sussiste infatti un nesso di implicazione necessaria tale per cui la richiesta
conclusiva di rigetto della pretesa attorea non si giustifica altrimenti che con la reiterazione
della eccezione, volta – tra l’altro – a conseguire non soltanto la invalidità dell’atto istruttorio
compiuto (per asserita lesione del diritto al contraddittorio), ma la stessa inammissibilità
“tout court” del mezzo istruttorio “percipiente” sul presupposto della asserita
“inutilizzabilità” probatoria dei dati personali sensibili riferiti al T..
2.3 Anche in questo caso, tuttavia, l’errore compiuto dalla Corte territoriale in ordine alla
affermata correttezza della decisione del Tribunale che aveva ritenuto abbandonata la
eccezione di nullità della c.t.u. – non travolge la sentenza di appello impugnata, in quanto lo
stesso Giudice ha poi esaminato egualmente nel merito detta eccezione di nullità, che era
stata riproposta con il secondo e terzo motivo di gravame, ritenendola infondata e tale
decisione, che è stata impugnata con il terzo e quarto motivo di ricorso per cassazione, deve
quindi essere sottoposta al sindacato di legittimità in relazione alle censure prospettate
delle quali, pertanto, occorre passare a trattare.
p.3. Il terzo motivo di ricorso per cassazione è infondato.
3.1 La categoria della “inutilizzabilità” della prova ex art. 191 c.p.p. – posta a tutela del diritto
di difesa dell’imputato: cfr. art. 193 c.p.p., commi 3 e 7, art. 197 bis c.p.p., comma 5, artt. 203,
240, 270, 271 c.p.p., art. 350 c.p.p., commi 6 e 7 – non è contemplata nell’ordinamento
processuale civile, non venendo in rilievo, nei giudizi in cui si controverte di diritti aventi
fonte in rapporti di diritto privato, le medesime esigenze di garanzia richieste invece dal
giudizio penale – cui provvede l’art. 238 c.p.p., comma 1 -, tenuto conto della diversa
rilevanza degli interessi che vengono in questione nel giudizio penale (status libertatis) ed in
quello civile, nel quale il Giudice non incontra i limiti della “tipicità” del mezzo probatorio
(cfr. Corte Cass. Sez. L -, Sentenza n. 28974 del 04/12/2017 – con riferimento alla
utilizzabilità nel giudizio del lavoro degli scritti anonimi e la inapplicabilità dei limiti posti
dagli artt. 240 e 333 c.p.p. -; id. Sez. 5, Sentenza n. 8206 del 22/04/2015). Nel giudizio civile,
infatti, le prove atipiche sono comunque utilizzabili (salvo che il mezzo di prova costituisca
“ex se” – per il suo modo di essere – lesione di un diritto fondamentale della persona)
dipendendo la loro rilevanza esclusivamente in relazione alla maggiore o minore efficacia
probatoria ad esse riconosciuta dal Giudice di merito, non sussistendo – nè potendo essere
censurato in cassazione – alcun vizio invalidante la formazione della prova atipica per essere
stata questa assunta nel diverso processo in violazione di regole a quello esclusivamente
applicabili, neppure se tale vizio integri un difetto della garanzia del contraddittorio, atteso
che nel processo civile il contraddittorio sulla prova viene assicurato dalle forme e modalità
“tipizzate” di introduzione della stessa nel giudizio, che trovano disciplina nella fase
istruttoria del processo volta ad assicurare la discussione in contraddittorio delle parti sulla
efficacia dimostrativa del mezzo atipico in ordine al fatto da provare (cfr. Corte Cass. Sez. 3,
Sentenza n. 11555 del 14/05/2013; id. Sez. 1, Sentenza n. 17392 del 01/09/2015; id. Sez. 2 –
, Sentenza n. 1593 del 20/01/2017, con specifico riferimento al verbale di “sommarie
informazioni testimoniali”).
3.2 Tanto premesso, esclusa – in via di principio – una applicazione diretta od analogica della
norma processuale penale al giudizio civile, la censura attiene all’invalido svolgimento della
c.t.u. in quanto fondata su elementi probatori (vetrini con campioni biologici del T.
conservati presso i nosocomi ove era stato ricoverato) che il ricorrente assume essere stati
illecitamente acquisiti, in violazione delle norme del D.Lgs. n. 196 del 2003.
Orbene è corretto il rilievo formulato dal ricorrente in ordine alla erroneità della statuizione
della sentenza di appello volta ad affermare la irrilevanza della censura prospettata dal F.,
“in mancanza di una espressa previsione normativa che vieti l’impiego nell’ambito
processuale di raccolta di materiale in modo illecito”, essendo appena il caso di osservare, al
proposito, come la violazione delle prescrizioni dettate dalla legge per “la raccolta, la
registrazione, l’organizzazione, la conservazione, la consultazione, l’elaborazione, la
modificazione, la selezione, l’estrazione, il raffronto, l’utilizzo, l’interconnessione, il blocco, la
comunicazione, la diffusione, la cancellazione e la distruzione di dati” (cfr. D.Lgs. n. 196 del
2003, art. 4, comma 1, lett. a, nel testo applicabile ratione temporis, successivamente
abrogato dal D.Lgs. 10 agosto 2018, n. 101 e riformulato dall’art. 4, paragr. 1, n. 1, del
regolamento UE 2016/679 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, che
individua ora tra le predette operazioni “la raccolta, la registrazione, l’organizzazione, la
strutturazione, la conservazione, l’adattamento o la modifica, l’estrazione, la consultazione,
l’uso, la comunicazione mediante trasmissione, diffusione o qualsiasi altra forma di messa a
disposizione, il raffronto o l’interconnessione, la limitazione, la cancellazione o la
distruzione”) viene a tradursi nella illecita acquisizione e disponibilità, ai fini probatori, di
informazioni identificative della qualità di una persona fisica che costituiscono oggetto del
“diritto assoluto alla protezione dei dati personali”, ricompreso tra le “libertà fondamentali
della persona” (spettando a “chiunque”: D.Lgs. n. 196 del 2003, artt. 1 e 2; art. 1 reg. UE.
L’interessato è titolare di un diritto personalissimo che gli consente non solo di opporsi al
trattamento dei dati per motivi legittimi, ma finanche di ottenere la eliminazione definitiva
del dato, pur se regolarmente trattato), stante il divieto espresso posto dalla legge alla
utilizzabilità di “dati personali trattati in violazione della disciplina” (D.Lgs. n. 196 del 2003,
art. 11, comma 2). Con la conseguenza che viene in questione, allora, non la violazione della
norma processuale sull’acquisizione della prova, ma “a monte” la condotta illecita per
violazione del divieto prescritto dalla norma di diritto sostanziale, venendo a coincidere la
vittima dell’illecito civile – che ha subito la lesione del “jus arcendi” sulla informazione
identificativa -, con la stessa parte processuale contro la quale tale informazione viene fatta
valere quale fonte di prova, non potendo quindi trasformarsi in lecita – attraverso le rituali
forme di assunzione delle prove nel processo – la condotta illecita relativa alla divulgazione e
comunicazione del dato che non poteva essere acquisito o raccolto, atteso che l’utilizzo
probatorio del dato integrerebbe proprio quel pregiudizio che la norma di divieto intende
impedire a tutela del diritto dello stesso soggetto cui la legge intende apprestare la
protezione.
3.3 Il principio che stabilisce la estraneità dalle fonti di prova – anche atipiche – di quelle
acquisite con modalità tali da ledere le libertà fondamentali e costituzionalmente garantite,
quali la libertà personale, il diritto alla segretezza della corrispondenza, la inviolabilità del
domicilio, è stato ripetutamente affermato da questa Corte (cfr. Corte Cass. Sez. 5, Sentenza
n. 20253 del 19/10/2005, con riferimento, nel giudizio tributario, alle prove acquisite nel
corso di una perquisizione domiciliare illegittima, in quanto eseguita in assenza di
preventiva autorizzazione del PM; Corte Cass. Sez. U, Sentenza n. 3271 del 12/02/2013; id.
Sez. 1, Sentenza n. 1948 del 02/02/2016; id. Sez. L, Sentenza n. 10017 del 16/05/2016; id.
Sez. U -, Sentenza n. 14552 del 12/06/2017, che affermano tutte la utilizzabilità, nel
procedimento disciplinare, di intercettazioni telefoniche ed ambientali, disposte in un
diverso procedimento penale, “purchè siano state legittimamente disposte nel rispetto delle
norme costituzionali e procedimentali, non ostandovi i limiti previsti dall’art. 270 c.p.p.,
riferibili al solo procedimento penale”; Corte Cass. Sez. 5, Sentenza n. 2916 del 07/02/2013
che ritiene legittima la utilizzabilità nel giudizio tributario di sommarie informazioni
testimoniali ed intercettazioni telefoniche, acquisite nel corso di indagini penali, qualora le
modalità di formazione della prova non abbiano determinato lesioni degli artt. 15 e 24
Cost.), dovendo pertanto distinguersi le ipotesi in cui le norme processuali violate,
preordinate alle modalità di acquisizione probatoria, abbiano determinato una lesione dei
diritti costituzionalmente tutelati del soggetto contro cui la prova si intende far valere, da
quelle in cui non si verifica tale lesione, essendo diretta la norma violata a tutelare un bene
diverso non riferibile direttamente alla sfera giuridica dell’interessato (cfr. Corte Cass. Sez.
U., Sentenza n. 3727 del 25/02/2016; id. Sez. 2 -, Sentenza n. 28905 del 12/11/2018, con
riferimento all’utilizzo probatorio di atti coperti dal segreto istruttorio ed acquisiti in
violazione dei limiti imposti dal segreto, in quanto dettati dall’art. 329 c.p.p., non a tutela del
“diritto alla riservatezza dei soggetti coinvolti nelle indagini penali, ma delle indagini stesse).
Dunque deve ritenersi errata l’affermazione della Corte d’appello secondo cui, in assenza di
norme espressamente limitative dell’utilizzo – nel giudizio civile di prove acquisite
illecitamente, si ricaverebbe il principio di una generale ammissione di tali fonti di prova,
dovendo al contrario affermarsi il principio secondo cui rimane precluso l’accesso a quelle
prove la cui acquisizione concreti una diretta lesione di interessi costituzionalmente tutelati
riferibili alla parte contro cui la prova viene utilizzata.
3.4 Tanto premesso, così corretta in diritto la motivazione della sentenza, osserva il Collegio
che la pronuncia della Corte di appello secondo cui, nel caso di specie, è difettata del tutto
qualsiasi violazione delle norme del D.Lgs. n. 196 del 2003, va esente da censura, dovendo
ritenersi infondato il corrispondente motivo di ricorso per cassazione.
Ed infatti è la stessa legge conformativa del diritto che ne definisce i limiti, attribuendo
prevalenza, rispetto al “jus arcendi” dell’interessato, al trattamento dei dati personali
qualora “effettuato per ragioni di giustizia”, per tali intendendosi “i trattamenti di dati
personali direttamente correlati alla trattazione giudiziaria di affari e di controversie”
(D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 47, nel testo anteriore alla abrogazione disposta con il D.Lgs. n.
101 del 2018). Il regolamento UE n. 679/2016, art. 9, paragr. 1 e 2, lett. f), prevede che il
divieto espresso di “trattare dati personali che rivelino l’origine razziale o etnica, le opinioni
politiche, le convinzioni religiose o filosofiche, o l’appartenenza sindacale, nonchè trattare
dati genetici, dati biometrici intesi a identificare in modo univoco una persona fisica, dati
relativi alla salute o alla vita sessuale o all’orientamento sessuale della persona” non si
applica nei casi in cui il trattamento si renda necessario “per accertare, esercitare o
difendere un diritto in sede giudiziaria o ogniqualvolta le autorità giurisdizionali esercitino
le loro funzioni giurisdizionali”; analogamente, il potere del soggetto interessato di opporsi
al trattamento, cancellare i dati o limitare il trattamento dei dati a taluni utilizzi soltanto,
incontra il limite dell’accertamento, dell’esercizio o della difesa di un diritto in sede
giudiziaria: art. 18, paragr. 2, art. 17, paragr. 3, lett. e), art. 21, paragr. 1, regolamento UE n.
679/2016. Ed ulteriori limitazioni alle disposizioni della legge possono essere apportate
dagli Stati membri nel caso in cui, fatta salva la essenza dei diritti e delle libertà
fondamentali, debbano essere adottate “misure necessarie e proporzionate” al fine di
salvaguardare “la tutela dell’interessato o dei diritti e delle libertà altrui” od ancora
“l’esecuzione delle azioni civili” (art. 23, paragr. 1, lett. i) e j), reg. UE cit.).
La Corte d’appello si è, dunque, conformata al principio enunciato da questa Corte Cass. Sez.
U, Sentenza n. 3034 del 08/02/2011 secondo cui, in tema di protezione dei dati personali,
non costituisce violazione della relativa disciplina il loro utilizzo mediante lo svolgimento di
attività processuale, giacchè detta disciplina non trova applicazione in via generale, ai sensi
del D.Lgs. n. 193 del 2003, artt. 7, 24, 46 e 47 (cd. codice della privacy), quando i dati stessi
vengano raccolti e gestiti nell’ambito di un processo; in esso, infatti, la titolarità del
trattamento spetta all’autorità giudiziaria e in tal sede vanno composte le diverse esigenze,
rispettivamente, di tutela della riservatezza e di corretta esecuzione del processo, per cui, se
non coincidenti, è il codice di rito a regolare le modalità di svolgimento in giudizio del diritto
di difesa e dunque, con le sue forme, a prevalere in quanto contenente disposizioni speciali e,
benchè anteriori, non suscettibili di alcuna integrazione su quelle del predetto codice della
privacy.
3.5 L’assunto difensivo secondo cui il CTU non avrebbe potuto acquisire presso le Aziende
ospedaliere i vetrini con i campioni biologici (relativi a “washing bronchiale” ed a
“agoaspirato polmonare”) in quanto i “dati personali”, alla data di cessazione del
trattamento, avrebbero dovuto essere distrutti, e non potevano essere “ceduti” dalle
strutture sanitarie è destituito totalmente di fondamento.
3.5.1 La disposizione invocata (D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 16) che, per quanto interessa nel
caso di specie, prescrive “in caso di cessazione, per qualsiasi causa, di un trattamento, i dati
sono: 1) distrutti” deve, infatti, essere integrata dalla lettura sistematica delle altre ipotesi
previste dalla stessa norma del Codice della privacy (il dato può anche essere ceduto ad altro
titolare per un trattamento conforme allo scopo per cui è stato raccolto, od anche conservato
o ceduto ad altro titolare “per scopi storici, statistici o scientifici, in conformità alla legge, ai
regolamenti alla normativa comunitaria ed ai codici di deontologia… “), nonchè dalle altre
regole dettate per i soggetti pubblici non economici, per i quali il trattamento dei dati anche
sensibili è consentito “soltanto per lo svolgimento delle funzioni istituzionali” (D.Lgs. n. 196
del 2003, art. 18, comma 3).
Assume a tal fine particolare rilievo la disposizione del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 22,
comma 5, seconda parte, che demanda ai soggetti pubblici di valutare specificamente il
rapporto di indispensabilità tra i dati e la realizzazione degli obblighi e dei compiti ad essi
assegnati, disponendo che “I dati che, anche a seguito delle verifiche, risultano eccedenti o
non pertinenti o non indispensabili non possono essere utilizzati, salvo che per l’eventuale
conservazione, a norma di legge, dell’atto o del documento che li contiene”.
3.5.2 Dal complesso normativo sopra indicato emerge che anche la “conservazione” del dato
personale (tale dovendo configurarsi anche il vetrino contenente il campione biologico in
quanto risulti corredato da indicazioni atte alla identificazione del soggetto cui appartiene)
rientra nelle operazioni di trattamento e può, quindi, trovare giustificazione rispetto alle
finalità istituzionali dell’ente pubblico, laddove queste prevedano, appunto, forme
obbligatorie ex lege di archiviazione dei dati in funzione del perseguimento di interessi
pubblici prevalenti, quali – ad esempio – l’impiego giudiziario del campione biologico, ovvero
qualora la conservazione venga effettuata per fini scientifici o statistici.
Ne segue che un automatico obbligo di distruzione del dato non è configurabile in capo al
titolare del trattamento laddove il termine della conservazione sia correlato alle predette
finalità istituzionali, come nel caso in esame in cui il cd. “materiale di archivio campionato”
(blocchetti in paraffina e vetrini) venga a costituire oggetto di specifico obbligo, imposto alle
Aziende ospedaliere, relativo alla conservazione dei referti e delle cartelle cliniche (cfr. Linee
guida sulla “tracciabilità, raccolta, trasporto, conservazione e archiviazione di cellule e
tessuti per indagini diagnostiche di anatomia patologica” elaborate dal Ministero della
Salute Consiglio Superiore di Sanità – maggio 2015) e sia previsto uno specifico obbligo di
legge alla conservazione per dieci anni dei campioni biologici riferibili a pazienti deceduti
(cfr. L. 30 marzo 2001, n. 130, art. 3, comma 1, lett. h), che, fissando i principi direttivi da
attuare nella modifica del regolamento di polizia mortuaria, approvato con D.P.R. 10
settembre 1990, n. 285, prescrive l'”obbligo per il medico necroscopo di raccogliere dal
cadavere, e conservare per un periodo minimo di dieci anni, campioni di liquidi biologici ed
annessi cutanei, a prescindere dalla pratica funeraria prescelta, per eventuali indagini per
causa di giustizia”).
3.5.3 L’ipotesi di una “distruzione” automatica dei dati personali al momento della
dimissione del paziente o al decesso di questo, trova quindi espresso limite nella stessa legge
di protezione dei dati personali, laddove la “conservazione” del dato risulti funzionale
all’accesso alla giustizia, come emerge chiaramente anche dalla disciplina introdotta dal
regolamento UE n. 679/2016 che limita “il diritto di ottenere dal titolare del trattamento la
cancellazione dei dati personali che lo riguardano senza ingiustificato ritardo” (art. 17 reg.
UE), “nella misura in cui il trattamento sia necessario…..e) per l’accertamento, l’esercizio la
difesa di un diritto in sede giudiziaria”, e che reciprocamente limita l’obbligo del titolare del
trattamento di procedere immediatamente, ove non più necessari, alla eliminazione dei dati
personali, rimettendo all’interessato il potere di richiedere la prosecuzione del trattamento,
nella forma della conservazione, quando i dati risultino indispensabili allo stesso interessato
“per l’accertamento, l’esercizio la difesa di un diritto in sede giudiziaria” (art. 18, paragr. 1,
lett. c), reg. UE cit.).
Se è dunque da ritenere lecita la “conservazione” dei vetrini da parte delle strutture
ospedaliere, risulta del tutto infondata anche la asserita violazione del divieto di “cessione”
dei dati personali concernenti il T., atteso che, a fronte della richiesta dell’ausiliario
nominato dal Giudice, formulata in conformità ai compiti ed alle attività a quello demandate,
la consegna dei vetrini da parte delle Aziende ospedaliere costituiva atto di adempimento
alle prescrizioni del provvedimento giudiziario di conferimento dell’incarico, con il quale il
CTU veniva autorizzato anche ad acquisire “informazioni” presso terzi ex art. 194 c.p.c..
3.5.4. Del tutto inconferente ed inammissibile è poi la censura, formulata con il terzo motivo
in esame, con la quale si afferma la violazione da parte del CTU dell’obbligo di trattamento
dei dati nel rispetto dei principi di liceità e che riguardano la qualità dei dati (obbligo
prescritto dalla Delib. 26 giugno 2008, n. 46, del Garante per la protezione dei dati personali,
con la quale sono state approvate le “Linee guida in materia di trattamento di dati personali
da parte dei consulenti tecnici e dei periti ausiliari del giudice e del pubblico ministero”),
difettando del tutto nella specie la descrizione del fatto violativo commesso dall’ausiliario.
p. 4. Anche il quarto motivo di ricorso per cassazione è infondato.
4.1 Assume il ricorrente che il CTU non avrebbe presenziato personalmente agli esami,
indagini e rilievi tecnici, delegando l’espletamento della attività peritale a terzi privi di
nomina e legittimazione (direttore del laboratorio Dott.ssa V. che demandava ad altri tecnici
la esecuzione delle analisi di laboratorio) e senza che il proprio CTP fosse stato messo in
grado di partecipare a tali attività.
4.2 Osserva il Collegio che le Linee guida dell’Autorità Garante per la protezione dei dati
personali prescrivono, tra l’altro, che “Il consulente e il perito possono trattare lecitamente
dati personali, nei limiti in cui ciò è necessario per il corretto adempimento dell’incarico
ricevuto e solo nell’ambito dell’accertamento demandato dall’autorità giudiziaria sono
tenuti ad acquisire, utilizzare e porre a fondamento delle proprie operazioni e valutazioni
informazioni personali che, con riguardo all’oggetto dell’indagine da svolgere, siano idonee a
fornire una rappresentazione (finanziaria, sanitaria, patrimoniale, relazionale, ecc.) corretta,
completa e corrispondente ai dati di fatto… Ciò, non solo allo scopo di fornire un riscontro
esauriente in relazione al compito assegnato, ma anche al fine di evitare che, da un quadro
inesatto o comunque inidoneo di informazioni possa derivare nocumento all’interessato,
anche nell’ottica di una non fedele rappresentazione della sua identità (art. 11, comma 1,
lett. c))…. In ossequio al principio di pertinenza nel trattamento dei dati, le relazioni e le
informative fornite al magistrato ed eventualmente alle parti non devono nè riportare dati,
specie se di natura sensibile o di carattere giudiziario o comunque di particolare delicatezza,
chiaramente non pertinenti all’oggetto dell’accertamento peritale, nè contenere
ingiustificatamente informazioni personali relative a soggetti estranei al procedimento (art.
11, comma 1, lett. d)…..)”. Quanto all’utilizzo di esperti e specialisti, in conformità alla
autorizzazione ricevuta dal Giudice, le Linee guida dispongono che “l’obbligo di preporre alla
custodia e al trattamento dei dati personali raccolti nel corso dell’accertamento solo il
personale specificamente incaricato per iscritto resta fermo anche nel caso in cui il
consulente e il perito si avvalgano dell’opera di collaboratori, anche se addetti a compiti di
collaborazione amministrativa (art. 30 del Codice). L’attività di tali incaricati deve essere
oggetto di precise istruzioni oltre che sulle modalità e sull’ambito del trattamento
consentito, anche in ordine alla scrupolosa osservanza della riservatezza relativamente ai
dati di cui vengono a conoscenza”.
4.3 Orbene alcuna specifica violazione inerente tali prescrizioni viene riferita puntualmente
dal ricorrente che neppure trascrive, in violazione dei requisiti di ammissibilità del motivo
di ricorso previsti dall’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 6, il verbale di nomina del CTU e
conferimento dell’incarico peritale, e la descrizione dello svolgimento delle operazioni
peritali contenuta nella relazione depositata dall’ausiliario, impedendo, in conseguenza, a
questa Corte qualsiasi verifica in ordine ad eventuali limiti della facoltà attribuita al CTU di
avvalersi di collaboratori od esperti, nonchè in ordine alle attività di indagine specificamente
commissionate. Quanto alla asserita delega di attività peritali, neppure è dato individuare,
dalla carente esposizione del motivo, se e quali incontri si siano svolti tra le parti od i loro
consulenti tecnici, non essendo verificabile se ed in quali omissioni sia incorso l’ausiliario (in
relazione alla comunicazione della data di inizio delle operazioni od allo svolgimento di
attività compiute in violazione del contraddittorio).
4.4 Solo “ad abundantiam” si rileva che dal verbale della udienza 23.3.2012 in cui sono stati
formulati i quesiti al CTU (verbale riportato alla pag. 15 del controricorso) emerge in modo
inequivoco che all’ausiliario era stato demandato il compito di prelevare il materiale
istologico del T. conservato negli ospedali di (OMISSIS) e di (OMISSIS) al fine di effettuare i
marcatori genetici. Trattasi di esame strumentale che non può che essere condotto in
laboratorio, mediante l’impiego di macchinari sofisticati su cui opera personale altamente
specializzato, risultando in conseguenza priva di fondamento la critica per cui il CTU non
avrebbe svolto personalmente l’incarico, confondendo il ricorrente l’esame strumentale, da
condurre con l’ausilio di mezzi o di dotazioni di istituti specializzati dei quali l’ausiliario può
avvalersi per raccogliere dati, con l’attività epicritica dei dati così raccolti e delle
informazioni acquisite, che si risolve nella rilevazione e disamina del significato scientifico
da attribuire a quei dati, compito questo riservato esclusivamente all’ausiliario.
Orbene, alcuna contestazione in merito alla riferibilità al CTU delle valutazioni specialistiche
espresse nella relazione peritale è stata formulata dal ricorrente, mentre, quanto alla
correttezza degli adempimenti formali, la Corte d’appello ha evidenziato come il CTU avesse
dato rituale avviso ai procuratori delle parti della richiesta dallo stesso inviata con missiva
21.5.2012 alla Direzione sanitaria dei nosocomi, ed avesse dato atto poi, nella relazione,
delle diverse fasi delle operazioni cui il CTP dell’attuale ricorrente era stato messo in grado
di partecipare.
La contraria allegazione di parte ricorrente è rimasta una mera ipotesi priva di qualsiasi
concreto riscontro in assenza della descrizione dei fatti asserita mente lesivi del
contraddittorio, ed il motivo di ricorso va pertanto dichiarato inammissibile.
p.5. Il quinto motivo (violazione degli artt. 112, 113, 155 – recte: art. 115 c.p.c., art. 2043 c.c.)
è in parte infondato ed in parte inammissibile.
5.1 Il ricorrente si duole del rigetto della domanda riconvenzionale di condanna al
risarcimento del danno formulata “jure hereditatis” e fondata sull’illecito occultamento della
esistenza di un figlio, condotta secondo il ricorrente da imputarsi in concorso allo stesso
figlio naturale ed alla madre e che avrebbe pregiudicato il diritto alla genitorialità del padre
naturale impedendogli di instaurare un rapporto educativo ed affettivo con la prole.
5.2 La Corte d’appello ha confermato sul punto la statuizione di rigetto del primo Giudice
rilevando, da un lato, che la lesione del diritto alla genitorialità risultava incompatibile con il
comportamento processuale tenuto dal T. che aveva sempre ostinatamente negato qualsiasi
possibilità di una sua paternità rispetto al B., avendo costantemente negato di avere avuto
rapporti intimi con B.M.P.; dall’altro che la domanda risarcitoria, inquadrata nello schema
dell’illecito extracontrattuale, si palesava carente di supporto allegatorio ed inoltre difettava
della prova della elevata probabilità di esistenza della occasione perduta.
5.3 La critica del ricorrente ha per oggetto:
la insussistenza di preclusioni di legge nei confronti di colui che si oppone alla
dichiarazione giudiziale di paternità a proporre in via riconvenzionale, qualora la paternità
fosse accertata, domanda risarcitoria per la lesione del diritto in questione, tanto più che il
T., dato il tempo trascorso, bene poteva non avere più memoria del rapporto intrattenuto
con la B. la implicita prova della condotta dolosa o colposa imputabile a madre e figlio,
nell’occultamento della nascita al T., fornita dalla rinuncia formulata dal B. alla udienza di
precisazione in primo grado ed accettata dai difensori del F. – alla assunzione dei mezzi di
prova (volti ad accertare che la B. aveva comunicato al T. di essere rimasta incinta e che era
nato il figlio) già ammessi dal Giudice di primo grado, con la conseguenza che doveva
ritenersi dimostrato che alcuna notizia del concepimento era stata data al T. il quale aveva
sempre negato di avere ricevuto comunicazioni circa la nascita del figlio la violazione del
diritto andava ancorata all’art. 29 Cost., che, nella tutela dei rapporti familiari, riconosceva
implicitamente anche i bisogni di ciascun genitore a sviluppare in tale contesto sociale la
propria personalità attraverso il rapporto parentale con i propri figli, dovendo dedursi per
via prognostica e presuntiva la prova del danno non patrimoniale della quale, peraltro, era
stata offerta prova attraverso i mezzi istruttori dedotti con la memoria ex art. 183 c.p.c.,
comma 6, n. 2.
5.4 Osserva il Collegio che la condotta illecita prospettata dal ricorrente presenta taluni
aspetti peculiari che richiedono preliminarmente di procedere alla ricostruzione della
struttura della fattispecie, inquadrata dai Giudici di merito nello schema dell’art. 2043 c.c..
Nel caso in esame, infatti, non vengono in questione i doveri tra coniugi, che trovano
giuridica definizione nell’art. 143 c.c., comma 2, o tra conviventi “more uxorio” (questi ultimi
non aventi titolo nel vincolo giuridico del matrimonio trovavano fondamento, al tempo dei
fatti risalenti all’anno 1967, nella relazione interpersonale da cui scaturiscono situazioni
giuridiche che obbligano al reciproco rispetto e legittimano l’affidamento nella realizzazione
di obiettivi comuni riposto da ciascuno dei conviventi nell’altro: la stabilità del legame
affettivo di coppia e di reciproca assistenza materiale e morale è elemento qualificante della
convivenza di fatto giuridicamente rilevante della L. 20 maggio 2016, n. 76, ex art. 1, commi
36 e segg.), nè tanto meno vengono in questione gli obblighi derivanti dalla assunzione di
responsabilità di ciascun genitore nei confronti del figlio nato in costanza di matrimonio
(art. 147 c.c.) o legalmente riconosciuto (artt. 316 e 316 bis c.c.), atteso che dalla
ricostruzione del fatto evincibile dagli atti regolamentari emerge che tra B.M.P. e T.A. vi fu un
unico incontro senza che seguisse non solo una convivenza di fatto ma neppure una
relazione di tipo sentimentale: la B., infatti, contrasse matrimonio con altra persona dalla
quale ebbe prole e nell’ambito di detta famiglia è cresciuto B.C.. Tale situazione, quindi,
diverge nettamente da quelle ipotesi in cui il coniuge ometta volutamente di comunicare il
proprio stato di gravidanza, determinato dal concepimento con altra persona, ingannando
l’altro coniuge sul suo rapporto di filiazione con il nascituro che entra così a far parte della
famiglia in cui il padre non è il genitore biologico. Nel caso sottoposto all’esame del Collegio
la condotta omissiva informativa della donna gravida, non si inscrive, infatti, nella violazione
di obblighi derivanti da un rapporto giuridico precostituito tra le parti. Nè, ai fini che ne
occupa, viene in questione una lesione del prevalente interesse del minore a crescere nella
comunanza di vita con entrambi i genitori: non è infatti in questione il danno subito dal
minore (la originaria domanda di condanna “per il mancato mantenimento” proposta da
B.C., oltre allo svolgimento dell’azione di stato di dichiarazione giudiziale di paternità, è stata
rinunciata), ma quello subito dal genitore che non ha avuto notizia della paternità.
Soltanto di riflesso viene, peraltro, in rilievo la lesione del “diritto alla bigenitorialità” – cui fa
riferimento il ricorrente nella memoria ex art. 378 c.p.c. – trattandosi di diritto riferibile in
via diretta al minore, nel superiore interesse del quale trova attuazione, essendo la
“presenza comune dei genitori nella vita del figlio idonea a garantirgli una stabile
consuetudine di vita e salde relazioni affettive con entrambi” (cfr. Corte cass. Sez. 6-1,
Sentenza n. 18817 del 23/09/2015; id, Sez. 1, Ordinanza n. 9764 del 08/04/2019) in
funzione “dello sviluppo armonico della personalità del minore…influenzato dalla graduale
costruzione di una precisa identità personale, di cui costituisce fattore determinante la
genitorialità biologica”, come posto in rilievo, in particolare, dall’art. 7 paragr. 1 (“Il fanciullo
è registrato immediatamente al momento della sua nascita e da allora ha diritto a un nome,
ad acquisire una cittadinanza e, nella misura del possibile, a conoscere i suoi genitori e a
essere allevato da essi.”) della Convenzione internazionale sui diritti della Infanzia
approvata a New York il 20 novembre 1989, ratificata dall’Italia con L. 27 maggio 1991, n.
176 (cfr. Corte Cass. Sez. 1 -, Sentenza n. 23913 del 27/12/2012).
5.5 Nella specie parrebbe venire, invece, in rilievo la “esigenza” della conoscenza, da parte
del soggetto che ha partecipato al concepimento, che la gravidanza è a lui riferibile,
consentendogli pertanto l’esercizio del diritto(-dovere) di riconoscimento del figlio naturale
ex artt. 250 e 254 c.c., con la conseguente assunzione delle responsabilità genitoriali verso il
nato. Così impostata la vicenda, si potrebbe, ad un primo approccio, qualificare illecita la
condotta omissiva della donna, in quanto lesiva del “diritto alla autodeterminazione”
dell’altro soggetto (padre naturale), qualora l’atto di riconoscimento venga inteso come
esercizio dell’autonomia privata ossia di una scelta discrezionale rimessa alla libertà
individuale del soggetto che la compie. Ad un più attento esame, tuttavia, tale ricostruzione
non può essere seguita, dovendosi tenere conto della interpretazione della disciplina della
filiazione, conforme al portato degli artt. 2 e 30 Cost., fornita da questa Corte, che ha
anticipato fin dalla nascita l’insorgenza dei doveri genitoriali – e dei corrispondenti diritti del
minore – in quanto ricollegati non all’effetto giuridico della istituzione della relazione
parentale (presunta ex art. 231 c.c., accertata ex art. 236 c.c., comma 2, artt. 237, 241 c.c., o
dichiarata per atto volontario ex art. 250 e 254 c.c. o per sentenza ex artt. 269 e 277 c.c.), ma
al mero fatto-giuridico della procreazione (cfr. Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 7386 del
14/05/2003; id. Sez. 1, Sentenza n. 2328 del 02/02/2006; id. Sez. 1, Sentenza n. 26575 del
17/12/2007; id. Sez. 1, Sentenza n. 22506 del 04/11/2010; id. Sez. 1, Sentenza n. 5652 del
10/04/2012; id. Sez. 1, Sentenza n. 26205 del 22/11/2013; id. Sez. 6-3, Sentenza n. 3079 del
16/02/2015; id. Sez. 3, Ordinanza n. 14382 del 27/05/2019): con la conseguenza che quella
che appare astrattamente configurabile come situazione giuridica di diritto soggettivo
assoluto e personalissimo (diritto a riconoscere lo status di figlio), altro non è invece che una
mera manifestazione formale “confermativa” di una preesistente situazione giuridica da cui
deriva il “dovere” di riconoscimento del figlio naturale, e cioè una condotta funzionale alla
protezione dell’interesse del minore (che trova riscontro nella posizione di soggezione
rivestita dal genitore naturale nell’azione di dichiarazione di paternità esercitata dal figlio ai
sensi degli artt. 269 c.c. e segg.) e la cui violazione può dare luogo ad una autonoma
fattispecie di illecito civile (non necessariamente “endofamiliare”, in difetto di costituzione
di un nucleo familiare e di convivenza tra i genitori naturali) generatore di conseguenze
dannose patrimoniali e non patrimoniali azionabili in via risarcitoria dal figlio o dal suo
rappresentante durante la minore età (cfr. Corte Cass. Sez. 1, Sentenza n. 5652 del
10/04/2012; id. Sez. 6-3, Sentenza n. 3079 del 16/02/2015).
5.6 Vero è, piuttosto, che la situazione giuridica da riconoscere in capo al genitore naturale,
che deve essere scissa rispetto alla posizione che lo stesso assume nel rapporto genitoriale, è
quella del “diritto alla identità personale”, ancorato all’art. 2 Cost. ed all’art. 30 Cost., comma
4, venendo ad esprimersi l’esplicazione della personalità dell’essere umano, nelle formazioni
sociali in cui opera, anche attraverso la filiazione, sia sotto il profilo della trasmissione del
proprio patrimonio genetico, sia sotto l’aspetto maggiormente qualificante più
propriamente relazionale, riguardato come scelta volontariamente assunta dal genitore di
dedicare il proprio impegno ad assistere dalla nascita, ad aiutare a crescere ed a realizzare le
aspirazioni del minore, nonchè in definitiva ad instaurare un rapporto conoscitivo ed
affettivo con la persona generata, aspirazione che, peraltro, quanto al riconoscimento
formale dello status di figlio, incontra il limite invalicabile del superiore interesse del minore
(artt. 250 c.c., commi 3 e 4) e, ove questi abbia raggiunto la maggiore età, della sua previa
autorizzazione (art. 250 c.c., comma 2).
5.7 Orbene in relazione alla indicata situazione giuridica, la omessa informazione
dell’avvenuto concepimento, da parte della donna, consapevole della paternità, pure in
assenza di una specifica prescrizione normativa impositiva di tale obbligo di condotta (non
rinvenibile nelle norme che legittimano al riconoscimento il padre naturale od in quelle del
D.P.R. n. 396 del 2000, che prescrivono l’obbligo di denuncia della nascita), può allora
tradursi in una condotta “non jure” – ove non risulti giustificata da un oggettivo apprezzabile
interesse del nascituro -, in quanto in astratto suscettibile di determinare un pregiudizio
all’interesse del padre naturale ad affermare la propria identità genitoriale, qualificabile
come “danno ingiusto”, e che viene ad integrare, nel ricorso dell’elemento soggettivo del
dolo o della colpa, la fattispecie della responsabilità civile di cui all’art. 2043 c.c..
5.8 La questione del danno risarcibile, non viene tuttavia posta nella presente controversia,
con riferimento alla lesione del diritto alla identità genitoriale (ossia del ristabilimento della
verità inerente il rapporto di filiazione e nell’acquisizione formale del relativo status),
trattandosi di interesse in tesi soddisfatto dalla pronuncia giudiziale che ha accolto la
domanda oggetto dell’azione di dichiarazione di paternità svolta da B.C., interesse peraltro
costantemente deluso nel corso di tutto il processo dallo stesso T. e disconosciuto dal suo
successore F. ancora con il tentativo di invalidare il risultato della indagine genetica. Il
danno – non patrimoniale – viene, invece, ricondotto all’effetto pregiudizievole conseguente
al “ritardato” accertamento dello status di figlio, avendo assunto il T. di non avere avuto la
occasione di potere godere nel tempo anteriore della relazione affettiva e di esercitare i
compiti genitoriali.
Se è così, non pare dubbio che in relazione allo schema dell’illecito extracontrattuale ed agli
elementi costitutivi della fattispecie normativa astratta (condotta illecita; ingiusta lesione di
interessi meritevoli di tutela; nesso di causalità materiale tra la condotta e l’evento lesivo;
derivazione da detto evento delle conseguenze pregiudizievoli) deve essere verificata la
legittimità della pronuncia resa dalla Corte d’appello, avendo questa, per un verso, ritenuto
improduttivo di danno-conseguenza il comportamento omissivo della donna prima e del
figlio poi, avuto riguardo alla resistenza opposta dal T. all’accertamento del rapporto di
filiazione; per altro verso, con successiva statuizione ma da ritenere di valenza logica
pregiudiziale, ha ritenuto del tutto carente la allegazione e la prova dei fatti costitutivi della
pretesa “non supportata dalla deduzione di elementi specifici”; concludendo inoltre per la
assenza di allegazione di “circostanza concrete e dell’esistenza di elementi oggettivi dai quali
desumere in termini di certezza od elevata probabilità” la occasione perduta.
5.9 Orbene, quanto all’elemento soggettivo della condotta tenuta dalla B. al tempo del
concepimento, alcun elemento di prova risulta essere stato fornito dal T. in ordine alle
circostanze di fatto idonee a qualificare come riprovevole il comportamento della madre
naturale: nella specie nulla viene dedotto circa l’insorgenza e la durata dei rapporti
sentimentali o meno tra il T. e la B., nè in ordine al luogo ed al tempo in cui i due ebbero una
relazione, se abbiano convissuto o meno, le ragioni che portarono all’allontanamento dei due
partners; se vi siano stati o meno successivi contatti tra i due. Neppure emerge se la B.
quando venne a constatare di essere rimasta incinta fosse certa o invece dubitasse di chi
fosse il padre del nascituro e se in quello stesso periodo si sia o meno intrattenuta con altri
uomini; nulla è dato altresì conoscere – per totale difetto di allegazione – circa il tempo e la
modalità in cui B.C., che era cresciuto in una diversa famiglia, abbia appreso la notizia della
diversa paternità.
5.10 La rinuncia dei B. alle prove ammesse (da cui sarebbe emersa la conoscenza della
gravidanza o della nascita da parte del T.), diversamente da quanto ipotizzato dalla difesa
del ricorrente, non si trasforma in automatica “non contestazione” della negata conoscenza
della nascita del figlio naturale da parte del T.: i limiti dell’oggetto del “thema decidendum”
vengono, infatti, definiti alla udienza di trattazione ex art. 183 c.p.c., e l’oggetto del “thema
probandum” (ossia la individuazione dei fatti la cui verifica istruttoria è ritenuta necessaria
ai fini dell’accertamento dei fatti costitutivi della pretesa o della eccezione) non viene a
mutare nelle fasi processuali successive. Tanto comporta che la “rinuncia” alla assunzione
delle prove che sono state ammesse dal Giudice, determina la mancata acquisizione della
dimostrazione di quei fatti, senza che ciò immuti il riparto dell’onere probatorio tra le parti:
sicchè la mancata dimostrazione della pregressa comunicazione al T. della nascita del figlio
(dedotta dal B. in funzione accertativa della colpa del padre naturale per avere impedito al
figlio la possibilità di poter fruire di una migliore condizione economico-sociale adeguata al
diverso tenore di vita del padre), non si converte per ciò stesso nella prova opposta – od
anche solo nella “non contestazione” del fatto negativo della omessa conoscenza, la cui
dimostrazione è invece richiesta a fondamento della distinta domanda risarcitoria, proposta
dal T..
p. 6. Avuto riguardo a tale incertezze e lacune allegatorie nella descrizione dei fatti rilevanti,
la mera asserzione del T. di avere dovuto rinunciare a godere della relazione con il B. a causa
del comportamento illecito della madre, si risolve tautologicamente nel mero vanto del
diritto al risarcimento del danno, che fonda la condizione di ammissibilità dell’azione ma
non assolve alla prova dei fatti costitutivi della pretesa.
La – pure sintetica – valutazione di merito espressa dalla Corte territoriale in ordine alla
mancata allegazione delle circostanze indispensabili a consentire l’applicazione dello
schema logico della prova presentiva in ordine alla effettiva consistenza della occasione
perduta (ossia della possibilità di instaurare e sviluppare il rapporto genitoriale), non
appare quindi inficiata dal vizio di legittimità denunciato, tanto in relazione alle norme di
diritto processuale, quanto alla errata applicazione della norma di diritto sostanziale, tutte
indicate in rubrica.
Ed infatti, inesplicata la censura di nullità processuale per violazione del principio di
corrispondenza tra chiesto e pronunciato (art. 112 c.p.c.), avendo provveduto la Corte di
appello sulla domanda risarcitoria, rigettandola nel merito, ed esclusa la supposta rilevanza
“con effetto retroattivo” del principio di non contestazione in conseguenza della rinuncia del
B. alla assunzione delle prove ammesse (art. 115 c.p.c., comma 1); del tutto priva di supporto
argomentativo la censura riferita alla asserita violazione dell’art. 113 c.p.c., osserva il
Collegio che neppure la dedotta violazione dell’art. 2043 c.c., appare correttamente
formulata laddove:
la mera allegazione della violazione di un interesse di rilievo costituzionale non si traduce
per ciò solo nel diritto al risarcimento del danno non patrimoniale, atteso che per
consolidata affermazione di questa Corte, al di fuori dei casi in cui l’illecito civile integri la
fattispecie di reato, ovvero sussista una espressa previsione normativa, il danno non
patrimoniale è risarcibile soltanto alla compresenza di tre condizioni: (a) che l’interesse leso
e non il pregiudizio sofferto – abbia rilevanza costituzionale (altrimenti si perverrebbe ad
una abrogazione per via interpretativa dell’art. 2059 c.c., giacchè qualsiasi danno non
patrimoniale, per il fatto stesso di essere tale, e cioè di toccare interessi della persona,
sarebbe sempre risarcibile); (b) che la lesione dell’interesse sia grave, nel senso che l’offesa
superi una soglia minima di tollerabilità (in quanto il dovere di solidarietà, di cui all’art. 2
Cost., impone a ciascuno di tollerare le minime intrusioni nella propria sfera personale
inevitabilmente scaturenti dalla convivenza); (c) che il danno non sia futile, vale a dire che
non consista in meri disagi o fastidi, ovvero nella lesione di diritti del tutto immaginari, come
quello alla qualità della vita od alla felicità. Tanto consegue che il soggetto leso è tenuto in
ogni caso a fornire puntuale prova delle circostanze fattuali dimostrative della perdita del
bene derivata dalla violazione del predetto interesse, non potendo assumersi la sussistenza
del danno “in re ipsa” (cfr. Corte Cass. Sez. U, Sentenza n. 26972 del 11/11/2008; id. Sez. 3,
Sentenza n. 20684 del 25/09/2009; id. Sez. 6-1, Ordinanza n. 21865 del 24/09/2013; id. Sez.
3, Ordinanza n. 25420 del 26/10/2017; id. Sez. 3, Sentenza n. 11269 del 10/05/2018; id.
Sez. 3, Sentenza n. 28985 del 11/11/2019; id. Sez. 6-L, Ordinanza n. 29206 del 12/11/2019;
id. Sez. L, Sentenza n. 4886 del 24/02/2020; id. Sez. 3, Ordinanza n. 4005 del 18/02/2020).
qualora poi il riferimento all’art. 2043 c.c., dovesse essere, invece, riferito alla asserita errata
valutazione compiuta dalla Corte d’appello in ordine alla sussistenza di elementi istruttori
dimostrativi del danno risarcibile, e dunque debba intendersi come censura per “errore di
fatto” riconducibile al paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ne segue la
inammissibilità del motivo di ricorso in quanto difetta del tutto la indicazione del fatto
storico decisivo che la Corte d’appello avrebbe omesso di considerare e che se
correttamente esaminato avrebbe determinato una differente soluzione della controversia:
al riguardo è appena il caso di osservare come la doglianza del ricorrente della mancata
ammissione dei mezzi di prova originariamente richiesti a tal fine, non raggiunga i requisiti
minimi di sindacabilità, tenuto conto che alcuna indicazione emerge dal ricorso per
cassazione dei fatti oggetto delle richieste probatorie, implicitamente ritenute irrilevanti
dalla Corte territoriale, e non essendo pertanto questa Corte in grado di verificare se ed in
che modo tali fatti rivestissero il carattere della decisività richiesto dalla norma processuale.
Il Giudice di merito, peraltro, non soltanto ha rilevato la mancata allegazione di indizi idonei
a consentire il riconoscimento di una effettiva perdita di occasione, non essendo emersi dalla
istruttoria elementi tali da presumere la ricerca e l’intenzione del T. di realizzare
l’aspirazione alla genitorialità (la mancata allegazione dei comportamenti tenuti dal T. nel
tempo immediatamente successivo al rapporto avuto con la B., viene ad assumere al
proposito carattere significativo, alla stregua dei precedenti giurisprudenziali che onerano il
soggetto, ove effettivamente interessato alla propria genitorialità, ad attivarsi per conoscere
dal partner le possibili evoluzioni dell’atto sessuale: cfr. Corte Cass. Sez. 1, Sentenza n. 5652
del 10/04/2012; id. Sez. 1, Sentenza n. 26205 del 22/11/2013), ma ha ritenuto di rilevare la
esistenza di elementi indiziari contrari, desunti dall’atteggiamento contestativo del
riconoscimento del figlio naturale: trattasi di valutazione di merito che rimane sottratta al
sindacato di legittimità di questa Corte.
p.7. In conclusione il ricorso deve essere rigettato. Il ricorrente va condannato alla rifusione
delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento in favore del controricorrente, delle spese del
giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.000,00 per compensi, oltre alle spese
forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli
accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n.
228 del 2012, art. 1, comma 17, la Corte dà atto che il tenore del dispositivo è tale da
giustificare il versamento, se e nella misura dovuto, da parte del ricorrente,
dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il
ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, il 16 maggio 2019.
Depositato in Cancelleria il 5 maggio 2020.