Sentenza, Corte Suprema di Cassazione, Sezione Lavoro, 26 giugno 2020, n. 12841, Licenziamento – Lavoratore sorpreso a fumare:

È possibile licenziare per giustificato motivo oggettivo un lavoratore che fuma sul posto di lavoro, qualora il contratto collettivo nazionale lo preveda.

Corte Suprema di Cassazione, Sezione Lavoro, 26 giugno 2020, n. 12841:

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –
Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –
Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –
Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –
Dott. BOGHETICH Elena – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 34572-2018 proposto da:
P.H. FACILITY S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore,
elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FLAMINIA 109, presso lo studio
dell’avvocato BIAGIO BERTOLONE, che la rappresenta e difende unitamente
all’avvocato CLAUDIO ROCCELLA;

ricorrente –
contro
C.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MONTE BIANCO 87, presso lo studio
dell’avvocato MARIANA LAIOLO, che lo rappresenta e difende unitamente agli
avvocati GUIDO GALLIANO, MASSIMO NIZZA;

controricorrente –
avverso la sentenza n. 305/2018 della CORTE D’APPELLO di GENOVA, depositata il
24/09/2018 R.G.N. 149/2018;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 18/02/2020 dal
Consigliere Dott. ELENA BOGHETICH;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SANLORENZO
RITA che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l’Avvocato BIAGIO BERTOLONE;
udito l’Avvocato MARIANO CIGLIANO per delega Avvocato GUIDO GALLIANO.
Svolgimento del processo

La Corte di appello di Genova, in riforma della sentenza del Tribunale della
medesima sede, ha – con sentenza n. 305 depositata il 24.9.2018 – accolto la
domanda di annullamento del licenziamento per giusta causa intimato da PH
Facility s.r.l., in data 11.8.2016, a C.G., per aver contravvenuto al divieto di fumo
durante l’orario di lavoro e presso un recondito ambito (intercapedine) dei locali
della ditta committente Ansaldo Energia.

La Corte, circoscritto l’oggetto del licenziamento esclusivamente alla
contravvenzione al divieto di fumare (con esclusione delle altre infrazioni contestate
nella lettera del 28.7.2016), escludeva che il fatto addebitato al lavoratore, risultato
provato, rientrasse nella previsione di cui all’art. 48, lett. b) del CCNL Pulizie –
Multiservizi, disposizione che ricollega il licenziamento ai casi in cui il lavoratore sia
trovato a “fumare dove può provocare pregiudizio all’incolumità delle persone o alla
sicurezza degli impianti”, dovendosi, invece, ritenere integrata la previsione
collegata al mero divieto di fumare dettata dall’art. 47 del medesimo CCNL e
concernente la sanzione conservativa dell’ammonizione o della sospensione dal
lavoro e dalla retribuzione, con conseguente illegittimità del licenziamento ed
applicazione della tutela reintegratoria di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma
4, come modificato dalla L. n. 92 del 2012.

Per la cassazione di tale sentenza la società ha proposto ricorso affidato a due
motivi. Il lavoratore ha resistito con controricorso.
Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso si deduce nullità della sentenza per violazione
dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4)
avendo, la Corte distrettuale, fornito una motivazione incomprensibile ed apparente
nella misura in cui ha affermato che la contestazione disciplinare e la lettera di
licenziamento dovevano essere valutate nella loro interezza (ossia considerando
l’intero comportamento tenuto dal lavoratore) e poi ha affermato che l’unico
oggetto del licenziamento doveva ritenersi essere l’infrazione al divieto di fumare
(con esclusione della condotta di insubordinazione e di inattività durante l’orario di
lavoro).

Con il secondo motivo di ricorso si denunzia violazione e/o falsa applicazione
della L. n. 3 del 2003, art. 51, nn. 1 e 2, art. 48 B, lett. f) e 47, lett. h) del ccnl
imprese di Pulizia-servizi integrati-Multiservizi (in relazione all’art. 360 c.p.c.,
comma 1, n. 3) avendo, la Corte distrettuale, trascurato che il divieto di fumare è,
per legge, inderogabile e la clausola contrattuale richiede che il pregiudizio
all’incolumità delle persone e alla sicurezza degli impianti sia anche solo potenziale.

Il primo motivo è inammissibile.
Nel caso di specie difetta la necessaria riferibilità delle censure alla motivazione
della sentenza impugnata, in quanto la Corte territoriale non ha affermato che la
contestazione disciplinarè e la lettera di licenziamento dovevano essere valutate
nella loro interezza (ossia comprensive di tutti i fatti addebitati al lavoratore nella
lettera di contestazione) bensì, effettuando un’operazione esegetica sia della lettera
di contestazione disciplinare sia della lettera di licenziamento, ha rilevato che il
datore di lavoro aveva, dapprima (nella lettera di contestazione), descritto una
molteplicità di condotte inadempienti e, poi (nella lettera di licenziamento), si era
limitato (per sua imponderabile scelta discrezionale) a sanzionare solamente il
comportamento relativo all’infrazione al divieto di fumo.
La censura non coglie la ratio decidendi perchè il ricorrente insiste sul
contraddittorio percorso logico-giuridico esposto nella sentenza impugnata
(insussistente, come anzidetto) ma nulla deduce sulla interpretazione delle lettere
di contestazione disciplinare e di licenziamento.

Il secondo motivo di ricorso è infondato.
La Corte territoriale – condividendo le conclusioni assunte dal Tribunale circa la
vigenza del divieto di fumo (a norma di legge e di specifica disposizione adottata
dalla ditta committente) in tutto lo stabilimento (Ansaldo Energia) presso il quale il
C. era stato assegnato per lo svolgimento della sua attività lavorativa – ha valutato,
ai fini di riempire di contenuto la clausola generale dettata dall’art. 2119 c.c., la
scala valoriale del codice disciplinare contenuto nel contratto collettivo applicato in
azienda; avendo rinvenuto due tipizzazioni contrattuali concernenti l’infrazione al
divieto di fumo (l’una, ex art. 47 ccnl, punita con sanzione conservativa e l’altra, ex
art. 48, lett. f) con sanzione espulsiva) ha proceduto alla verifica della sussistenza
dei requisiti elaborati dalle parti sociali per l’adozione del provvedimento di
licenziamento, pervenendo alla conclusione della impossibilità della sussunzione
della condotta adottata dal C. nell’art. 48, lett. f) per carenza della situazione di
“pericolo per le persone o per gli impianti”.
La Corte distrettuale, valutando sia il profilo soggettivo che quello oggettivo della
condotta e in specie la conformazione del luogo ove il lavoratore è stato trovato
intento a fumare (zona di intercapedine tra uffici sprovvisto di impianti e di
persone; assenza di attrezzature pericolose quali bombole contenenti materiale
infiammabile; planimetria dello stabilimento), ha ritenuto di escludere la ricorrenza
dei requisiti costitutivi della fattispecie contrattuale punita con sanzione espulsiva,
in particolare rilevando che – alla luce delle circostanze concrete che
caratterizzavano la condotta del lavoratore – non poteva ritenersi integrato un
pericolo alla salute derivante dalla mera combustione di una sigaretta posto che
l’infrazione al divieto di fumo in ambienti chiusi previsto dalla legge (L. n. 3 del
2003, art. 51) doveva misurarsi, quanto agli effetti sul rapporto di lavoro, con le
due distinte previsioni disciplinari elaborate dalle parti sociali (artt. 47 e 48 ccnl).
4.1. Il percorso logico-giuridico seguito dalla sentenza impugnata è corretto e
rispettoso dei principii di diritto formulati da questa Corte con riguardo al codice
disciplinare contenuto nei contratti collettivi.
In tema di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità tra addebito
e recesso, rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del
datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli
scopi aziendali, essendo determinante, in tal senso, la potenziale influenza del
comportamento del lavoratore, suscettibile, per le concrete modalità e il contesto di
riferimento, di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento, denotando
scarsa inclinazione all’attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona
fede e correttezza.
Spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva, non sulla
base di una valutazione astratta dell’addebito, ma tenendo conto di ogni aspetto
concreto del fatto, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico della sua
gravità, rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi
rilievo alla configurazione delle mancanze operata dalla contrattazione collettiva,
all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle
mansioni, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello
stesso, all’assenza di pregresse sanzioni, alla natura e alla tipologia del rapporto
medesimo (cfr. Cass. n. 2013 del 2012 e, precedentemente, in senso analogo, tra
le tante, Cass. nn. 13574, 7948, 5095, 4060 del 2011).
In particolare, la giusta causa di licenziamento è nozione legale ed il giudice non è
vincolato dalle previsioni del contratto collettivo onde lo stesso può ritenere la
sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un grave
comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del
comune vivere civile ove tale grave inadempimento o tale grave comportamento,
secondo un apprezzamento di fatto non sindacabile in sede di legittimità se
congruamente motivato, abbia fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di
lavoro e lavoratore e, per altro verso, può escludere altresì che il comportamento
del lavoratore costituisca di fatto una giusta causa, pur essendo qualificato tale dal
contratto collettivo, in considerazione delle circostanze concrete che lo hanno
caratterizzato (cfr. Cass. 4060/2011 cit.).
Tuttavia la scala valoriale espressa dal contratto collettivo deve costituire uno dei
parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola
generale dell’art. 2119 c.c.” (Cass. n. 9396 del 2018; Cass. n. 28492 dei 2018;
principio ribadito da Cass. n. 14062 del 2019; Cass. n. 14063 del 2019; v. anche
Cass. n. 13865 del 2019), considerato altresì che la L. n. 183 del 2010, art. 30,
comma 3, ha previsto che “nel valutare le motivazioni poste a base del
licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato
motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro” (cfr. Cass. n. 32500 del 2018; circa
la natura non meramente ricognitiva delle disposizioni contenute nella L. n. 183 del
2010, art. 30, v. anche Cass. n. 25201 del 2016).
Il principio generale subisce eccezione ove la previsione negoziale ricolleghi ad un
determinato comportamento giuridicamente rilevante solamente una sanzione
conservativa: in tal caso il giudice è vincolato dal contratto collettivo, trattandosi di
una condizione di maggior favore fatta espressamente salva dal legislatore (L. n.
604 del 1966, art. 12). Pertanto, ove alla mancanza sia ricollegata una sanzione
conservativa, il giudice non può estendere il catalogo delle giuste cause o dei
giustificati motivi di licenziamento oltre quanto stabilito dall’autonomia delle parti
(cfr., in particolare, Cass. n. 15058 del 2015; Cass. n. 4546 del 2013; Cass. n.
13353 del 2011; Cass. n. 1173 del 1996; Cass. n. 19053 del 1995), a meno che non
si accerti che le parti stesse “non avevano inteso escludere, per i casi di maggiore
gravità, la possibilità di una sanzione espulsiva”, dovendosi attribuire prevalenza
alla valutazione di gravità di quel peculiare comportamento, come illecito
disciplinare di grado inferiore, compiuta dall’autonomia collettiva nella graduazione
delle mancanze disciplinari (cfr. ex multis Cass. n. 1173 del 1996; Cass. n. 14555
del 2000; Cass. n. 6165 del 2016; Cass. n. 11860 del 2016; Cass. n. 17337 del
2016).
In ordine ai criteri di interpretazione di un contratto collettivo ed alla previsione di
una scala valoriale recepita dal contratto collettivo, questa Corte ha già affermato
che, in considerazione della sua natura privatistica, vanno applicate le disposizioni
dettate dall’art. 1362 c.c. e ss., che sussiste il divieto di interpretazione analogica
delle clausole contrattuali e che l’interpretazione estensiva è possibile solo ove
risulti l'”inadeguatezza per difetto” dell’espressione letterale adottata dalle parti
rispetto alla loro volontà, verifica che deve essere condotta con particolare severità
in un contesto nel quale trova applicazione il principio generale secondo cui una
norma che preveda una eccezione (tutela reintegratoria nel testo della L. n. 300 del
1970, art. 18 come novellato dalla L. n. 92 del 2012) rispetto alla regola generale
(tutela risarcitoria) deve essere interpretata restrittivamente. (Cass. n. 12365 del
2019 e ivi ampi riferimenti giurisprudenziali; conf. Cass. n. 31839 del 2019).
4.2. E’, dunque, conforme ai principi sopra richiamati l’operato della Corte
distrettuale che ha accertato se sussisteva la nozione legale di giusta causa di
licenziamento, anche alla luce delle fattispecie previste dal ccnl di settore e sulla
base della scala valoriale ivi contenuta, e, pervenuta alla esclusione della ricorrenza
di una giustificazione della sanzione espulsiva, ha svolto – ai fini della scelta del
sistema sanzionatorio da applicare – una disamina sulla ricorrenza delle condizioni
previste dall’art. 18, comma 4 per accedere alla tutela reintegratoria (dovendo, in
assenza, applicare il regime generale costituito dalla c.d. tutela risarcitoria forte del
comma 5).

In conclusione, il ricorso va respinto. Le spese di lite sono liquidate secondo il
criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 c.p.c..

Il ricorso è stato notificato in data successiva a quella (31/1/2013) di entrata in
vigore della legge di stabilità del 2013 (L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma
17), che ha integrato il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, aggiungendovi il
comma 1 quater del seguente tenore: “Quando l’impugnazione, anche incidentale è
respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che
l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato
pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma
art. 1 bis. Il giudice da atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di
cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito
dello stesso”. Essendo il ricorso in questione (avente natura chiaramente
impugnatoria) integralmente da respingersi, deve provvedersi in conformità.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a pagare le spese del
presente giudizio di legittimità liquidate in Euro 200,00 per esborsi e in
Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed
accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della
sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del
ricorrente, dell’ulteriore impOrto a titolo di contributo unificato pari a
quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis
se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 18 febbraio 2020.
Depositato in Cancelleria il 26 giugno 2020.

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