Sentenza, Suprema Corte di Cassazione, V Sezione Penale, 6 luglio 2020, n. 22486, Bancarotta fraudolenta documentale e occultamento o distruzione di documenti contabili – Concorso formale di reato:

La Corte di Cassazione Penale ha riconosciuto la sussistenza del concorso formale di reato tra la bancarotta fraudolenta documentale ex art. 216, I co., n. 1, II co., L.F., e l’occultamento o distruzione di documenti contabili ex art. 10, D.lgs. n. 74/2000, anche nel caso in cui ci si riferisca alle medesime scritture contabili o documenti. I giudici di legittimità arrivano alla suddetta conclusione, muovendo da un’analisi astratta dalle fattispecie sempre idonea a risolvere il dilemma tra concorso apparente di norme e concorso formale di reati, affermando che gli stessi illeciti sono diversi in merito ai beni giuridici tutelati, alle finalità perseguite, all’oggetto materiale, ai soggetti attivi del reato, all’oggetto del dolo specifico previsto dalla fattispecie incriminatrice.

Suprema Corte di Cassazione, V Sezione Penale, 6 luglio 2020, n. 22486:

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PALLA Stefano – Presidente –

Dott. SETTEMBRE Antonio – Consigliere –

Dott. MICHELI Paolo – rel. Consigliere –

Dott. SCORDAMAGLIA Irene – Consigliere –

Dott. RICCARDI Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

F.G., nato a (OMISSIS);

G.G., nato a (OMISSIS);

avverso la sentenza del 25/03/2015 della CORTE APPELLO di BRESCIA;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere ANTONIO SETTEMBRE;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore EPIDENDIO TOMASO, che ha concluso per l’inammissibilità per entrambi i ricorsi.

Svolgimento del processo

1. La Corte d’appello di Brescia ha confermato la sentenza di prima cura, che all’esito di giudizio abbreviato – aveva condannato F.G. e G.G. per bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale in relazione al fallimento della (OMISSIS) srl, dichiarato il 4/7/2001.

Secondo la ricostruzione operata in sentenza i due imputati, amministratori di fatto della fallita, distrassero beni sociali per oltre 700 milioni di lire e sottrassero o occultarono le scritture sociali per impedire l’accertamento delle loro malefatte, poste in essere in un contesto associativo rivolto a frodare essenzialmente – il fisco.

2. Contro la sentenza della Corte territoriale ha proposto personalmente ricorso per cassazione, in data 24 maggio 2015, F.G., con quattro motivi.

2.1 Col primo lamenta la violazione del principio del ne bis in idem, per essere già stato giudicato e condannato, per i medesimi fatti, nell’ambito del proc. n. 1030/05 del R. G. App.. Infatti, deduce, nel corso del processo d’appello era stata chiesta la riunione del presente procedimento a quello n. 1030/05 pendente, allora, dinanzi alla medesima Corte d’appello, avente ad oggetto il reato di associazione a delinquere finalizzato alla commissione una serie indeterminata di reati finanziari (D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, artt. 2-5-8), attuati mediante la creazione di società (tra cui la (OMISSIS) srl) deputate ad emettere fatture false e mediante la creazione e l’occultamento di una contabilità parallela. Inoltre, sempre nell’ambito del medesimo procedimento (il n. 1030/05 R. G. App.), il ricorrente era stato condannato per il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 per avere, quale amministratore di fatto della (OMISSIS) srl, al fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto, ovvero di consentire l’evasione a terzi, occultato in tutto o in parte le scritture contabili o i documenti di cui è obbligatoria la conservazione, in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume d’affari; vale a dire, proprio le scritture contabili della (OMISSIS) srl, rinvenute nella sede di (OMISSIS).

2.2. Col secondo motivo contesta che sia stata provata la sua ingerenza nell’amministrazione della società, in considerazione del fatto che la (OMISSIS) srl aveva un suo amministratore di diritto e del fatto che altri soci, tra cui G., ebbero un ruolo importante nella società; che sia stata resa impossibile la ricostruzione delle vicende economiche della società, stante il rinvenimento della documentazione contabile in via (OMISSIS); che i prelievi effettuati, elencati dalla Guardia di Finanza nella sua annotazione del 24/2/2004, non avessero attinenza con la gestione della fallita; che sia stato provato l’elemento soggettivo nella forma richiesta dalla legge.

2.3. Col terzo motivo censura, sotto il profilo della completezza e della logicità, la sentenza impugnata, che si è appiattita sulle considerazioni del primo giudice, non si è avvalsa di prove realmente dimostrative dei reati contestati ed ha messo in discussione la credibilità del ricorrente “senza approfondire e motivare a fondo gli aspetti della vicenda de qua”. Peraltro, la sentenza impugnata avrebbe trascurato di valorizzare elementi favorevoli al ricorrente, quali: a) la presenza e l’operatività di un amministratore di diritto; b) il fatto che il timbro della società era stato rinvenuto nell’abitazione di G., che teneva anche i rapporti con le banche; c) il fatto che i fogli delle presenze giornaliere degli operai furono trovati a casa di L.; d) il fatto che era stato quest’ultimo a rimproverare la commercialista F. per aver consegnato la documentazione contabile alla Guardia di Finanza.

2.4. Col quarto motivo si duole del trattamento sanzionatorio, caratterizzato, oltre che da una duplicazione di condanna per gli stessi fatto, dall’irragionevole diniego dell’attenuante del danno di particolare tenuità e delle attenuanti generiche con giudizio di prevalenza sulle aggravanti.

3. Contro la sentenza della Corte d’appello ha proposto altresì ricorso per Cassazione G.G., a mezzo dei difensori, dolendosi del bilanciamento delle circostanze, considerate soltanto equivalenti alle aggravanti, nonostante la sua minima partecipazione al fatto, e della erronea determinazione della pena. Invero, dopo aver ritenuto la continuazione tra questi reati e quelli giudicati con sentenza del Tribunale di Brescia del 25 marzo 2004, la Corte d’appello ha errato nell’individuare la pena irrogata dal Tribunale (che era stata quella di anni due, e non di anni tre).

Motivi della decisione

Entrambi i ricorsi sono inammissibili. Esaminando i motivi nell’ordine in cui sono stati esposti, si rileva quanto segue.

1. Col primo motivo F. eccepisce la violazione dell’art. 649 c.p.p. “per la mancata applicazione del principio del ne bis in idem, in quanto il ricorrente è già stato condannato per gli stessi fatti”. Inoltre, perchè “l’autorità della cosa giudicata si esprime, oltre che nella esecutività ed obbligatorietà della sentenza, anche nel divieto di bis in idem, ovvero nella preclusione della riproposizione dell’azione penale per il medesimo fatto per il quale l’imputato è stato condannato o prosciolto”.

La particolarità del caso concreto impone di richiamare, sinteticamente, i principi che regolano la materia, elaborati dalla giurisprudenza nazionale e sovranazionale affermatasi nell’ultimo ventennio.

1.1. Le Sezioni Unite di questa Corte hanno chiarito che, ai fini della preclusione connessa al principio “ne bis in idem”, l’identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona (Cass., SU, n. 34655 del 28/6/2005, n. 231799-01). Tale impostazione, ha precisato la Corte costituzionale (sentenza n. 200 del 31/5/2016), è senz’altro corretta, a condizione che, nell’applicazione pratica, tutti gli elementi del reato siano assunti nella loro dimensione empirica, sicchè anche l’evento non potrà avere rilevanza in termini giuridici, ma assumerà significato soltanto quale modificazione della realtà materiale conseguente all’azione o all’omissione dell’agente. In questo modo è assicurato il massimo dispiegarsi della funzione di garanzia sottesa all’art. 649 c.p.p. – senza compromissione di altri principi di rilievo costituzionale – e si evita che la valutazione comparativa – cui è chiamato il giudice investito del secondo giudizio – sia influenzata dalle sempre opinabili considerazioni sulla natura dell’interesse tutelato dalle norme incriminatrici, sui beni giuridici offesi, sulla natura giuridica dell’evento, sul ruolo che ha un medesimo elemento all’interno delle fattispecie, sulle implicazioni penalistiche del fatto e su quant’altro concerne i singoli reati.

La Corte Costituzionale, poi, manipolando l’art. 649 c.p.p., ha statuito, con la pronuncia sopra menzionata, che “il fatto” è il medesimo anche quando sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato per cui è iniziato il nuovo procedimento penale.

1.2. Corollario del principio del ne bis in idem è, per la giurisprudenza di questa Corte, quello della “preclusione processuale”, che vieta allo stesso giudice non solo di condannare, ma anche di giudicare nuovamente la persona per lo stesso fatto. Non può, infatti, essere nuovamente promossa l’azione penale per un fatto e contro una persona per i quali un processo già sia pendente (anche se in fase o grado diversi) nella stessa sede giudiziaria e su iniziativa del medesimo ufficio del P.M., di talchè nel procedimento eventualmente duplicato dev’essere disposta l’archiviazione oppure, se l’azione sia stata esercitata, dev’essere rilevata con sentenza la relativa causa di improcedibilità. Questo perchè – esercitando l’azione penale – il Pubblico Ministero ha consumato il potere conferitogli dall’ordinamento nel caso specifico (Cass. SU, n. 34655 del 28/6/2005, n. 231800-01).

1.3. Va rilevato, poi, sotto il profilo processuale, che è deducibile nel giudizio di cassazione la preclusione derivante dal giudicato formatosi sul medesimo fatto (nel senso sopra specificato), posto che la violazione del divieto del “bis in idem” si risolve in un “error in procedendo”, a condizione che la decisione della relativa questione non comporti la necessità di accertamenti di fatto, nel qual caso la stessa deve essere proposta al giudice dell’esecuzione (Cass., sez. 2, n. 57572 del 10/1/2019, rv 276319-01; sez. 6, n. 598 del 5/12/2017; sez. 3, n. 35394 del 7/4/2016; sez. 5, n. 2807 del 6/11/2014).

1.4. Facendo applicazione di tali criteri al caso specifico deve affermarsi la manifesta infondatezza delle doglianze di F. nella parte in cui deducono l’identità del fatto tra il reato di associazione a delinquere finalizzato alla commissione di reati finanziari e tributari, di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 2-5-8-10 (fatti per cui è stato giudicato con sentenza della Corte d’appello di Brescia del 12 novembre 2009, divenuta definitiva il 26 maggio 2010) e il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, oggetto di questo procedimento. Infatti, come si evince dallo stesso ricorso della parte, F. è stato condannato – nel proc. concluso il 26 maggio 2010 – per aver intrapreso, insieme ad altri soggetti (insieme a lui giudicati e condannati), un’attività imprenditoriale nel settore edilizio, con l’impiego di 200/300 operai in nero (di cui solo alcuni assunti regolarmente), riuscendo, con un articolato meccanismo di frodi fiscali, ad evadere totalmente il fisco. Trattasi, all’evidenza, di condotta che non presenta punti di contatto con la bancarotta fraudolenta patrimoniale, giacchè – stando al primo dei reati per cui è intervenuta, nel diverso, procedimento, condanna definitiva – la societas sceleris è integrata da un elemento materiale (l’organizzazione di mezzi) e da un elemento soggettivo (l’affectio societatis) che si distinguono totalmente dagli elementi della bancarotta patrimoniale, consistente nella destinazione dei mezzi dell’impresa a fini a questa estranei. Totalmente diversa, quindi, è la condotta nei due reati, il che esclude qualsiasi possibilità di riconduzione degli stessi all’idem factum.

Lo stesso dicasi per i reati tributari di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 2, 5, 8 e 10 (per i quali è pure intervenuta condanna, nel diverso procedimento), giacchè nè l’indicazione – nelle dichiarazioni annuali presentate ai fini IRPEF o IVA – di elementi passivi fittizi (art. 2), nè l’omessa presentazione della dichiarazione dovuta in relazione a tali imposte (art. 5), nè l’emissione o il rilascio di fatture per operazioni inesistenti (art. 8), nè l’occultamento della contabilità (art. 10) hanno elementi in comune con la distrazione delle risorse societarie, rilevante per la bancarotta patrimoniale, trattandosi, all’evidenza, di condotte materialmente diverse (sorrette, peraltro, da un diverso fine illecito: l’evasione del fisco, a vantaggio delle società amministrate, nei reati tributari; il depauperamento della garanzia dei creditori, nella bancarotta patrimoniale).

1.5. Discorso diverso è da fare per la bancarotta fraudolenta documentale, che può effettivamente entrare il conflitto, sotto il profilo che qui interessa, con “l’occultamento o la distruzione di documenti contabili”, di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 (fermo restando che nessuna interferenza sussiste, nè è stata segnalata, tra la bancarotta documentale e i reati previsti dal D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 2, 5 e 8). In tal caso, infatti, la condotta materiale potrebbe coincidere con quella sanzionata dall’art. 216 L. Fall., che prevede anch’essa l’occultamento o la distruzione delle scritture contabili.

1.6. Va allora preliminarmente ribadito, per chiarezza, che – anche laddove l’occultamento o la distruzione riguardino le medesime scritture contabili o i medesimi documenti – nulla osta alla contestazione, nel simultaneus processus, di entrambi i reati, che offendono beni giuridici diversi e sono animati da un diverso fine, trattandosi di reati che, esaminati sotto il profilo della fattispecie astratta (come sempre va fatto, allorchè si tratti di risolvere il dilemma: concorso apparente di norme o concorso formale di reati?), non sono in rapporto di semplice specialità, ma di specialità reciproca, in ragione: a) del differente oggetto materiale dell’illecito; b) dei diversi destinatari del precetto penale; c) del differente oggetto del dolo specifico; d) del divergente effetto lesivo delle condotte di reato (Cass., n. 11049 del 13/11/2017, rv 272839-01; sez. 5, n. 35591 del 20/6/2017, rv 270811-01; sez. 3, n. 18927 del 24/2/2017, rv 269910-01). La bancarotta documentale e il reato di cui all’art. 10 cit. concretano una ipotesi di concorso formale di reati e non pongono – allorchè siano trattati congiuntamente – problemi di precedente giudicato, nè di preclusione processuale.

1.7. La configurazione data – sotto il profilo sostanziale – dalla giurisprudenza costituzionale e sovranazionale al principio del ne bis idem porta a ritenere, invece, che – allorchè un soggetto sia già stato giudicato, con sentenza passata in giudicato, in qualsiasi Tribunale della Repubblica, per uno dei due reati suddetti, concernenti la medesima documentazione – l’azione penale non possa essere esercitata per l’altro reato e che, allorchè ciò avvenga, l’azione deve essere dichiarata improcedibile, ovvero, se vi è stata condanna, la seconda pronuncia deve essere annullata in sede esecutiva.

1.8. L’estensione data – sotto il profilo processuale – dalla giurisprudenza sopra richiamata, al principio del ne bis in idem porta a ritenere, poi, che nella stessa sede giudiziaria e ad iniziativa dello stesso ufficio del Pubblico Ministero una nuova azione penale non possa essere promossa per uno dei due reati in questione, allorchè sia già pendente processo per lo “stesso fatto”, diversamente qualificato (per esempio, rimanendo vicini alle problematiche di questo processo, non può essere promossa l’azione penale per il reato di cui bancarotta documentale allorchè sia pendente, nella stessa sede giudiziaria, processo per il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 quando abbiano ad oggetto la medesima documentazione). Tanto perchè l’ufficio del Pubblico Ministero ha già esaurito il potere a lui conferito, sul fatto, dall’ordinamento.

1.9. Nel caso portato all’attenzione di questa Corte, il difensore di F. aveva inizialmente chiesto al giudice d’appello la riunione di entrambi i procedimenti che lo riguardavano (all’epoca entrambi pendenti); aveva, poi, all’udienza conclusiva del 25 marzo 2015, prodotto la sentenza emessa nell’ambito del proc. n. 1030/2005 – divenuta ormai definitiva – chiedendo l’applicazione della continuazione tra il reato di bancarotta e quelli giudicati in precedenza, tra cui il reato di cui all’art. 10 sopra menzionato (pag. 7 della sentenza impugnata). Continuazione effettivamente riconosciuta in fase d’appello.

Emerge all’evidenza che il difensore di F. non aveva fatto questione, nel giudizio di merito, di “idem factum”, ma solo di continuazione tra reati. Evidentemente, anch’egli riteneva, allora, che la “condotta” di F. – oggetto di rimprovero nei due procedimenti – non fosse stata la stessa e che avesse avuto ad oggetto documenti e scritture contabili diversi (il che avrebbe escluso in radice l’identità del factum). Emerge anche che il difensore di F. non aveva fatto questione di preclusione processuale, non avendo mai dedotto che il secondo procedimento era iniziato quando era già stata promossa – dalla stesso Pubblico Ministero e nella stessa sede giudiziaria – l’azione penale per lo stesso fatto. Tali manchevolezze non impediscono definitivamente l’applicabilità dell’art. 649 c.p.p. (imitatamente, s’intende, alla bancarotta documentale), giacchè il principio della preclusione processuale derivante dal divieto di “bis in idem” opera anche in sede esecutiva (cass., n. 3736 del 15/1/2009), ma esclude che la relativa questione possa essere oggi proposta in cassazione, ponendosi la necessità di verificare l’effettiva coincidenza delle condotte tenute nei due procedimenti; vale a dire, la necessità di verificare se la documentazione occultata o distrutta – presa in considerazione hic et inde sia effettivamente la stessa (verifica resa necessaria dal fatto che la normativa fallimentare si riferisce a tutte le scritture necessarie a ricostruire l’andamento economico e finanziario dell’impresa e all’individuazione dei crediti e dei debiti, mentre quella tributaria si riferisce alle “scritture contabili e ai documenti di cui è obbligatoria la conservazione”, il cui occultamento o la cui distruzione non consentano la “ricostruzione dei redditi o del volume di affari”; inoltre, nello specifico, dal fatto che le scritture contabili della (OMISSIS) srl erano detenute in luoghi diversi e il sequestro effettuato nel primo procedimento sembra riferirsi solo a quelle rinvenite a (OMISSIS)).

Da qui l’inammissibilità del primo motivo di ricorso.

2. Il secondo e il terzo motivo di ricorso attengono entrambi ai profili della responsabilità e vanno, per questo, trattati congiuntamente. Sono entrambi inammissibili perchè versati interamente in fatto e perchè trascurano completamente la congrua motivazione resa sul punto dalla Corte territoriale, la quale ha messo in rilievo che F., oltre ad essere stato socio della fallita fino all’11 marzo 2009 e delegato ad operare su tutti conti correnti bancari di quest’ultima, era stato promotore, insieme a Filippi, della societas sceleris costituita per depredare il fisco attraverso società fasulle (tra cui la (OMISSIS) srl). In tale qualità aveva intrattenuto rapporti con commercialista e terzi, aveva procurato le sedi fittizie di Milano e Brescia, aveva operato nella sede occulta insieme a Fi. e R. ed era il proprietario dell’immobile ove avevano sede, formalmente, la (OMISSIS) srl, la Euro Edil srl e la Me-ry Immobiliare srl. A nulla vale, pertanto, insistere sul fatto che la (OMISSIS) srl aveva un suo formale amministratore e che anche altri soci avevano avuto un ruolo importante nella società, che il timbro della società era stato rinvenuto nell’abitazione di G., che presenze giornaliere degli operai furono trovate a casa di L. e che era stato quest’ultimo a muovere rimproveri alla commercialista F. (per aver consegnato la documentazione contabile alla Guardia di Finanza). Ciò che è stato accertato a carico di F., e che è stato ampiamente illustrato in sentenza, costituisce piena prova, infatti, sia del ruolo concreto da lui avuto nella società, sia della sussistenza dell’elemento soggettivo nella forma richiesta dalla legge.

3. I motivi sulla pena sono inammissibili perchè costituiscono sterile e anodine affermazioni di principio, totalmente avulse dalla realtà del procedimento, che ha visto l’imputato attivamente impegnato in complesse e prolungate attività illecite, generatrici di danni gravi per i creditori, senza la minima resipiscenza o tentativi di riparazione delle malefatte. Inappropriato è, pertanto, il riferimento difensivo ai “contorni oggettivi e soggettivi della vicenda”, al comportamento processuale dell’imputato o al suo modus vivendi, che non contraddicono in nulla, ma anzi confermano, il giudizio formulato dal Tribunale e dalla Corte d’appello intorno alla gravità dei reati e alla personalità del prevenuto, che non hanno consentito nessuna attenuazione del trattamento sanzionatorio, già caratterizzato dalla benevola e immotivata concessione delle attenuanti generiche.

4. Il ricorso di G. è parimenti inammissibile perchè, come quello di F., contesta il giudizio di comparazione tra circostanze, che è rimesso al prudente apprezzamento del giudice di merito e non può essere sindacato in questa sede, se non nei limiti della manifesta irragionevolezza. Gli elementi di colpevolezza messi in evidenzi per F. – e che si attagliano compiutamente alla personalità di G. – rendono evidente, invece, che anche per lui il giudizio della Corte d’appello non si è discostato dai canoni legali di valutazione (gravità del fatto e personalità del reo) rilevanti nella specie.

Nessun errore, infine, vi è stato nella determinazione della pena. In primo grado era stata irrogata a G., concesse attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti contestate, la pena di anni quattro e mesi sei di reclusione, ridotta ad anni tre per il rito (abbreviato). Tanto per i soli reati di bancarotta. In appello, ritenuta la continuazione tra i reati di questo processo e quelli giudicati dalla Corte d’appello di Brescia nel proc. 1030/2005, la pena è stata aumentata di mesi sei, pervenendo al risultato finale di anni tre e mesi sei di reclusione. Tanto si evince chiaramente dalla motivazione della sentenza, ove è detto che “la pena irrogata dal primo giudice è adeguata alla gravità del fatto” e che l’aumento per la continuazione “può essere conteggiato in mesi sei” (pag. 14). A nulla rileva, pertanto, che, nel riepilogare il contenuto della sentenza di primo grado, il giudice d’appello abbia parlato, per G., della pena di anni due di reclusione. Si è trattato, infatti, di un svista della Corte d’appello, che ha riportato malamente il decisum del primo grado ed ha omesso, peraltro, l’applicazione delle pene accessorie (come già fatto, del resto, erroneamente, dal giudice di primo grado).

3. Alla inammissibilità dei ricorsi consegue, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e, ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, di una somma a favore della Cassa delle ammende, che, in ragione dei motivi dedotti, si reputa equo quantificare in Euro 3.000 per ciascuno di loro.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000 a favore della Cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, il 6 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 24 luglio 2020