Sentenza, Corte Suprema di Cassazione, Sezioni Unite Penali, 1 ottobre 2020, n. 27326, Violenza sessuale – abuso d’autorità:

Con riferimento all’art. 609-bis, I co., c.p., i giudici di legittimità venivano chiamati a pronunciarsi sul seguente quesito di diritto: “…Se, in tema di violenza sessuale, l’abuso di autorità di cui all’art. 609-bis c.p., comma 1, presupponga nell’agente una posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico o, invece, possa riferirsi anche a poteri di supremazia di natura privata di cui l’agente abusi per costringere il soggetto passivo a compiere o subire atti sessuali…”. Abbracciando una concezione ampia di abuso d’autorità, la Corte chiarisce che la costrizione dell’autodeterminazione del soggetto passivo finalizzata a compiere o subire atti sessuali può raggiungersi attraverso lo sfruttamento di qualsiasi posizione di supremazia, sia essa di natura privatistica, pubblicistica o di fatto. Da ciò però discende che non è sufficiente la presenza di una posizione di preminenza tra l’agente e la vittima per rendere il primo colpevole del reato contestato, ma occorre verificare in concreto l’abuso di tale posizione finalizzato al soddisfacimento di propri impulsi sessuali con costrizione della persona offesa.

Corte Suprema di Cassazione, Sezioni Unite Penali, 1 ottobre 2020, n. 27326:


Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FUMU Giacomo – Presidente –
Dott. FIDELBO Giorgio – Consigliere –
Dott. CIAMPI Francesco Maria – Consigliere –
Dott. ZAZA Carlo – Consigliere –
Dott. RAMACCI Luca – rel. Consigliere –
Dott. BONI Monica – Consigliere –
Dott. BELTRANI Sergio – Consigliere –
Dott. DE AMICIS Gaetano – Consigliere –
Dott. PISTORELLI Luca – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
C.V., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 12/11/2018 della Corte di appello di Caltanissetta;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Componente Dr. Luca Ramacci;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dr. Fimiani
Pasquale, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
udito il difensore delle parti civili, avv. Mattia Serpotta, che ha concluso chiedendo il
rigetto del ricorso dell’imputato uditi i difensori dell’imputato, avv. Gianluca Tognozzi
e avv. Vito Felici, che hanno concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo

Il G.u.p. del Tribunale di Enna, con sentenza del 22 gennaio 2015, all’esito di
giudizio abbreviato condizionato, ha affermato la responsabilità penale dell’imputato,
che ha condannato anche al risarcimento del danno nei confronti delle parti civili, da
liquidarsi in separato giudizio, in relazione al reato di cui agli art. 81 c.p., comma 2 e
art. 609-quater c.p., comma 4, nella formulazione vigente all’epoca dei fatti (così
riqualificata l’originaria imputazione riferita all’art. 81 c.p., comma 2, art. 609-bis c.p.
e art. 609-ter c.p., n. 1), perchè, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, in
qualità di insegnante di inglese che impartiva lezioni private e, quindi, con abuso di
autorità, aveva costretto due alunne, minori degli anni quattordici, a subire ed a
compiere su di lui atti sessuali (fatti commessi in data antecedente e prossima al
mese di (OMISSIS) ed in data antecedente e prossima al mese di (OMISSIS)).
Secondo quanto specificato nel capo di imputazione, tale condotta si era concretata,
riguardo ad una delle persone offese, nell’avvicinarsi in più occasioni mettendosi tra
le sue gambe ed abbracciandola stretta, accarezzandola sulle cosce e baciandola
sulla bocca, tentando ripetutamente di inserirle anche la lingua e, nei confronti
dell’altra, nell’avere, sempre in più occasioni, durante le lezioni ed approfittando
anche dei momenti in cui si trovava da solo in auto con lei per accompagnarla a
casa dopo la lezione, messole una mano sul seno dopo averle sollevato la maglietta
ed, inoltre, nel prenderle la mano facendosi toccare il pene e ponendo la propria
mano in mezzo alle cosce della minore.

Il giudice di primo grado ha ritenuto l’insegnante privato escluso dall’ambito di
applicazione delle disposizioni normative originariamente contestate ed ha
qualificato il fatto in termini di lieve entità, valutando come modesto il grado di
violenza ed offensività insito nei comportamenti accertati.

La Corte di appello di Caltanissetta, in accoglimento dell’appello proposto dal
Procuratore generale e dalle parti civili, ha parzialmente riformato la decisione di
primo grado con sentenza del 12 novembre 2018, riqualificando i fatti nei termini
indicati dall’originaria imputazione (art. 81 c.p., comma 2, art. 609-bis c.p. e art. 609-
ter c.p., n. 1) e rideterminando in aumento il trattamento sanzionatorio.
Avverso tale pronuncia l’imputato, tramite il proprio difensore di fiducia, Avv. Vito
Felici, ha presentato ricorso per cassazione articolando le doglianze in sei distinti
motivi.

Il ricorrente deduce, con il primo motivo di ricorso, la violazione degli artt. 593 e
593-bis c.p.p., in relazione all’art. 2 c.p., lamentando che la Corte territoriale non
avrebbe dichiarato l’inammissibilità del ricorso per cassazione del Procuratore
Generale, convertito in appello in conseguenza dell’appello presentato dalle altre
parti, in quanto proposto al di fuori dei casi consentiti, potendo il Procuratore
generale appellare soltanto nei casi di avocazione o qualora il Procuratore della
Repubblica abbia prestato acquiescenza al provvedimento.
Rileva, a tale proposito, che il D.Lgs. n. 11 del 2018, il quale ha introdotto le
disposizioni processuali che si assumono disattese, non contiene norme transitorie e
che, pertanto, non sarebbe operante, nel caso di specie, il principio tempus regit
actum, trovando invece applicazione la disposizione processuale sopravvenuta, in
quanto più favorevole al reo, rilevando come l’art. 2 c.p. non faccia alcuna
distinzione tra legge sostanziale e legge processuale.

Con un secondo motivo di ricorso lamenta, poi, la violazione di legge, in quanto la
Corte del merito non avrebbe dichiarato inammissibile l’appello del Procuratore
generale nonostante fosse stato proposto in violazione del art. 443 c.p.p., comma 3,
il quale stabilisce che il pubblico ministero non può proporre appello avverso una
sentenza di condanna emessa a seguito di giudizio abbreviato, salvo che si tratti di
sentenza che modifica il titolo del reato, poichè una tale evenienza non si sarebbe
verificata nel caso di specie, dal momento che il mutamento del titolo del reato
verrebbe a configurarsi soltanto solo qualora cambiassero i tratti caratterizzanti del
fatto, non essendo sufficiente una diversa qualificazione giuridica.

Con il terzo motivo di ricorso denuncia la violazione di legge ed il vizio di
motivazione, osservando che il primo giudice aveva rilevato l’inutilizzabilità delle
dichiarazioni rese dalle minori al consulente tecnico riguardo ai fatti per i quali si
procede e che, pertanto, avrebbe dovuto essere esclusa ogni diversa utilizzazione
processuale, quale quella finalizzata alla ricostruzione del fatto, anche in ipotesi di
giudizio abbreviato, aggiungendo che la specifica censura mossa con l’atto di
appello sarebbe rimasta priva di risposta da parte della Corte territoriale.
Rileva, inoltre, che il giudice del merito, pur avendo accertato la violazione della
“Carta di Noto”, avrebbe posto a base del suo convincimento anche l’elaborato
tecnico del consulente dell’accusa, predisposto ai sensi dell’art. 359 c.p.p. e che la
metodologia utilizzata nell’acquisire e valutare la prova dichiarativa avrebbe dovuto
essere considerata alla luce di quanto disposto dall’art. 189 c.p.p..
Assume, poi, che le dichiarazioni rese dalle minori sarebbero imprecise, non coerenti
e contraddittorie e che le specifiche doglianze della difesa sarebbero rimaste prive di
risposta, così come le osservazioni del consulente tecnico della difesa, il quale
aveva avanzato critiche sull’operato di quello del pubblico ministero.
Il giudice del merito, inoltre, non avrebbe considerato le incongruenze emergenti nei
passaggi delle deposizioni videoregistrate, che non sarebbero state fedelmente
trascritte ed avrebbe erroneamente escluso la sussistenza di motivi di astio o grave
inimicizia nei confronti dell’imputato da parte della madre di una delle due minori,
senza consentire alla difesa la produzione di una denuncia-querela presentata
contro costei e corredata dalle dichiarazioni delle persone dalla stessa intimidite.
La Corte di appello non avrebbe poi tenuto conto del fatto che altri allievi
dell’imputato avevano dichiarato che costui aveva un atteggiamento affettuoso ma
non lascivo, sicchè si sarebbe dovuto escludere che il docente avesse volutamente
creato un eccessivo grado di promiscuità ed, inoltre, sarebbe rimasta indimostrata
l’affermazione secondo cui l’imputato risulterebbe privo di specifica formazione
nell’attività didattica, mentre il suo atteggiamento sarebbe stato professionalmente
corretto e non ispirato ad un equivoco paternalismo in base al quale, in caso di
assenza dalle lezioni, si proponevano lezioni anche a domicilio, rilevando come la
lezione fatta a domicilio ad una delle minori era stata plausibilmente richiesta da
quest’ultima e non proposta dall’imputato.
La sentenza d’appello viene inoltre censurata laddove afferma che, dalle immagini
captate all’interno del garage, era emersa una propensione dell’imputato a creare un
contatto fisico con le allieve, obiettando che tale evenienza sarebbe stata smentita
da quanto riferito dal personale di polizia giudiziaria che aveva materialmente
effettuato la videoregistrazione.

Con il quarto motivo di ricorso deduce la violazione degli artt. 609-bis e 609-quater
c.p. per non essersi la Corte di appello conformata all’orientamento interpretativo di
legittimità, seguito invece dal primo giudice, secondo cui l’abuso di autorità di cui
all’art. 609-bis c.p., comma 1, presuppone nell’agente una posizione autoritativa di
tipo formale e pubblicistico, in mancanza della quale deve trovare applicazione la
diversa ipotesi dell’art. 609-quater.
Lamenta, inoltre, la carenza di motivazione in relazione alla mancata applicazione
dell’ipotesi attenuata di cui all’art. 609-bis c.p., u.c., in quanto i giudici dell’appello,
pur avendo aderito alla ricostruzione dei fatti effettuata dal giudice di primo grado,
che l’aveva riconosciuta, non avrebbero giustificato il diniego, senza peraltro
considerare che il compendio probatorio non avrebbe evidenziato specifici danni alle
persone offese, nessuna delle quali avrebbe necessitato di specifico supporto
psicoterapeutico, avendo peraltro la madre di una delle minori confermato che la
figlia aveva mantenuto immutato il proprio livello di rendimento scolastico anche
dopo i fatti.

Con il quinto motivo di ricorso rileva la violazione dell’art. 530 c.p.p., comma 2 e
art. 533 c.p.p., ed il vizio di motivazione, lamentando che la Corte d’appello non
avrebbe confutato le spiegazioni alternative del fatto, ancorchè non fornite di prova
piena, non considerando le censure difensive sul punto.

Con il sesto motivo di ricorso deduce, infine, la violazione falsa applicazione degli
artt. 62-bis e 133 c.p. ed il vizio di motivazione in relazione al mancato
riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, avendo la Corte territoriale
erroneamente valorizzato il divario di età tra imputato e persone offese, criterio di
valutazione non previsto dalla legge, senza invece considerarne l’incensuratezza.

La difesa, in data 17 settembre 2019, ha depositato memoria con la quale ha
ribadito le censure di cui al quarto motivo di ricorso, relative alla nozione giuridica di
abuso di autorità ed alla configurabilità, nel caso di specie, dell’ipotesi di reato di
minore gravità.

Il ricorso è stato assegnato alla Terza Sezione penale, la quale, rilevata la
sussistenza di un contrasto interpretativo, lo ha rimesso alle Sezioni Unite.

La Sezione rimettente ha preliminarmente valutato, ritenendole logicamente
pregiudiziali, le censure di natura processuale prospettate nei primi due motivi di
ricorso, nonchè quelle illustrate nel terzo e nel quinto motivo, concernenti la
valutazione delle emergenze processuali ai fini della responsabilità penale,
dichiarandole inammissibili.
Ha poi posto in luce la sussistenza di due differenti linee interpretative, la prima delle
quali afferma che l’abuso di autorità di cui all’art. 609-bis c.p., comma 1, presuppone
nell’agente una posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico, in mancanza
della quale deve trovare applicazione la diversa ipotesi dell’art. 609-quater, mentre la
seconda estende l’abuso di autorità, quale modalità di consumazione del reato
dell’art. 609-bis c.p., ad ogni potere di supremazia, anche di natura privata, di cui
l’agente abusi per costringere il soggetto passivo a compiere o a subire atti sessuali.

Il Presidente Aggiunto, con decreto in data 11 febbraio 2020, ha fissato per il 23
aprile 2020 la trattazione del ricorso in pubblica udienza, poi rinviata alla data
odierna.

In data 30 giugno 2020 la difesa dell’indagato ha presentato, a mezzo posta
certificata, una memoria ad ulteriore sostegno delle proprie ragioni, nella quale,
premesse alcune considerazioni finalizzate all’inquadramento della fattispecie sotto
un profilo storico-sistematico, viene fatto rilevare che le modifiche normative
apportate nel tempo e la giurisprudenza risulterebbero orientate nell’estendere i
concetti normativi di “violenza” e “minaccia” al fine di garantire una più ampia tutela
del bene giuridico protetto ed evidenziando come il concetto di abuso di autorità
debba essere interpretato alla luce della evoluzione rappresentata, dando conto dei
diversi orientamenti e richiamando la giurisprudenza in tema.
Osserva, altresì, che entrambi gli orientamenti espressi non possano ritenersi
risolutivamente convincenti, perchè non si confronterebbero con l’intrinseco valore
semantico attribuibile alla suddetta locuzione, rilevando che, in sostanza, il richiamo
al concetto di autorità indicherebbe espressamente una posizione giuridica
soggettiva di vantaggio del tutto peculiare, la cui fonte di attribuzione avrebbe
sempre natura pubblicistica e non potrebbe comunque originare da un regolamento
negoziale tra privati.
Perviene quindi alla conclusione che la soluzione interpretativa preferibile del quesito
proposto alle Sezioni Unite sarebbe quella secondo cui l’abuso di autorità di cui
all’art. 609-bis c.p., comma 1, presuppone nell’agente un rapporto di tipo formale
pubblicistico di cui questi abbia abusato per costringere il soggetto passivo a
compiere o subire atti sessuali, opzione interpretativa, questa, che avrebbe anche il
pregio di non frustrare l’esigenza di apprestare maggior tutela possibile al bene
giuridico protetto, risultando tuttavia rispettosa del principio di legalità e tipicità.

Ha presentato memoria anche il Procuratore Generale in data 10 luglio 2020,
illustrando diffusamente le ragioni per le quali, alla luce della giurisprudenza e della
dottrina citate, andrebbe preferita una lettura dell’art. 609-bis c.p., comma 1 secondo
cui l’abuso di autorità in esso contemplato non è esclusivamente riferibile ad una
situazione autoritativa di tipo formale e pubblicistico, ben potendo comprendere
anche i poteri di supremazia di natura privata di cui l’agente abusi per costringere il
soggetto passivo a compiere o subire atti sessuali.

Sono infine in atti le richieste delle parti civili Ca.Ne. e P.D., entrambe ammesse
al patrocinio a spese dello Stato, di liquidazione delle spese legali sostenute nel
grado come da note depositate il 4 ottobre 2019.
Motivi della decisione

La questione di diritto per la quale il ricorso è stato rimesso alle Sezioni Unite è la
seguente: “Se, in tema di violenza sessuale, l’abuso di autorità di cui all’art. 609-bis
c.p., comma 1, presupponga nell’agente una posizione autoritativa di tipo formale e
pubblicistico o, invece, possa riferirsi anche a poteri di supremazia di natura privata
di cui l’agente abusi per costringere il soggetto passivo a compiere o subire atti
sessuali”.

La soluzione della questione prospettata attiene all’ambito di applicazione dell’art.
609-bis c.p., comma 1, il quale punisce, attualmente con la reclusione da sei a dodici
anni, chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe
taluno a compiere o subire atti sessuali, prevedendo, nel comma 2, che alla stessa
pena soggiaccia chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali: 1) abusando
delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del
fatto; 2) traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad
altra persona. Il comma 3 stabilisce infine che, nei casi di minore gravità, la pena è
diminuita in misura non eccedente i due terzi.

La Sezione rimettente ha posto in evidenza due diversi indirizzi interpretativi
venutisi a formare con riferimento alla violenza sessuale definita “costrittiva” in
relazione al concetto di “abuso di autorità” dopo una prima pronuncia delle Sezioni
Unite (Sez. U, n. 13 del 31/05/2000, PM, Rv. 216338) nella quale, in via incidentale,
essendo la questione prospettata relativa alla interpretazione dell’art. 600-ter c.p.,
comma 1, si era stabilito che l’abuso di autorità di cui all’art. 609-bis c.p., comma 1,
presuppone nell’agente una posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico,
escludendone la configurabilità nei confronti di un insegnante privato che aveva
compiuto atti sessuali con un minore degli anni sedici a lui affidato per ragioni di
istruzione ed educazione, ritenendo conseguentemente corretta la decisione del
giudice di merito che aveva qualificato il fatto come atti sessuali con minorenne ai
sensi dell’art. 609-quater c.p..
La sentenza riteneva rilevante, ai fini della soluzione interpretativa prospettata, la
circostanza che l’art. 609-bis c.p., comma 1, aveva sostituito quella
precedentemente prevista dagli abrogati art. 519 c.p., comma 1 e artt. 520 e 521
c.p., ritenendo l’abuso d’autorità coincidente con l’abuso della qualità di pubblico
ufficiale già contemplato dall’art. 520.
Tale soluzione interpretativa era stata peraltro adottata in precedenza, considerando
la forza di coartazione che deriva da un esercizio distorto dei poteri connessi con la
funzione preminente esercitata dal titolare della posizione sovraordinata, in un caso
in cui, però, la natura formale e pubblicistica della autorità della quale era investito
l’imputato non era in discussione, trattandosi di un ufficiale comandante un
battaglione dell’esercito (Sez. 3, n. 860 del 15/10/1999, dep. 2000, Colafemmina V,
Rv. 215599) Alla decisione delle Sezioni Unite si conformava una successiva
pronuncia (Sez. 3, n. 32513 del 19/06/2002, P, Rv. 223101), attinente ad abuso
sessuale posto in essere da un insegnante in danno di una minorenne frequentante
un corso di formazione professionale, dando peraltro rilievo al fatto che la posizione
autoritativa richiesta dall’art. 609-bis c.p., comma 1, da individuarsi nei termini
indicati dalle Sezioni Unite, deve ritenersi distinta dalla ipotesi di violenza sessuale di
cui al n. 1 del comma 2 del medesimo articolo, caratterizzata dall’induzione all’atto
sessuale di persona in condizioni di inferiorità fisica o psichica e da quella di atti
sessuali compiuti con minori degli anni sedici ad opera dell’ascendente o di altri
soggetti in rapporto qualificato con la persona offesa, considerata dall’art. 609-quater
c.p., comma 1, n. 2.
La sentenza opera tale distinzione rilevando che, nell’ipotesi di abuso di autorità, vi è
la costrizione al compimento degli atti sessuali la quale difetta, invece, negli altri
casi, caratterizzati da un consenso viziato dalle condizioni di inferiorità della vittima
(art. 609-bis c.p., comma 2, n. 1); consenso che ricorre anche nel reato di atti
sessuali con minorenne (art. 609-quater c.p., comma 1, n. 2), ma che si ritiene
invalido in conseguenza del rapporto che lega la persona offesa all’autore del reato,
sulla base delle tipizzazioni contenute nella norma.
Altra pronuncia (Sez. 3, n. 2283 del 26/10/2006, dep. 2007, C, non massimata),
dando conto della nuova figura di violenza sessuale introdotta ad opera della L. 6
febbraio 2006, n. 38 mediante l’inserimento di un ulteriore comma dopo il primo
dell’art. 609-quater c.p., ha indicato, quale ulteriore ragione di adesione alla
pronuncia delle Sezioni Unite, oltre alla successione di leggi valorizzata dalla
sentenza n. 13/2000, anche un argomento definito di carattere sistematico,
osservando che, considerando l’abuso di autorità riferibile anche a poteri di carattere
privatistico, verrebbe meno la possibilità di distinguere l’ipotesi di reato contemplata
dall’art. 609-bis c.p., comma 1 dall’ipotesi di rapporto sessuale con abuso di potere
parentale o tutorio ora previsto dall’art. 609-quater c.p., comma 2; ciò in quanto
l’unica interpretazione idonea a salvaguardare la coerenza normativa è quella che
attribuisce carattere pubblicistico all’autorità considerata dalla prima delle richiamate
disposizioni e carattere privatistico a quella considerata dalla seconda.
Invero, intendendo come autorità ogni posizione sovraordinata pubblicistica o
privatistica, continua la sentenza 2283/2007, l’art. 609-quater c.p., comma 2,
resterebbe praticamente privo di effetti, poichè presuppone espressamente la
inapplicabilità delle ipotesi previste nell’art. 609 bis, tra le quali rientra anche quella
di ogni atto sessuale commesso con abuso di autorità.
Si è anche escluso, uniformandosi alla sentenza 2283/2007, che la potestà
genitoriale possa essere considerata un istituto di natura pubblicistica, diversamente
da quanto ritenuto dal giudice del merito, che l’aveva ritenuta come prevista e
disciplinata dall’ordinamento al fine di consentire ai genitori la possibilità di
adempiere convenientemente i loro doveri e svolgere compiutamente le loro
prerogative (Sez. 3, n. 2681 del 11/10/2011, dep. 2012, R., Rv. 251885).
Altre successive pronunce, aventi ad oggetto violenze sessuali commesse da
soggetti rivestenti la qualifica di pubblico ufficiale, hanno ribadito la natura formale e
pubblicistica della posizione autoritativa dell’agente (Sez. 4, n. 6982 del 19/01/2012,
M., Rv. 251955) precisando, tra l’altro, che l’abuso di autorità consiste nella
strumentalizzazione del proprio potere, realizzato attraverso una subordinazione
psicologica tale per cui la vittima viene costretta al rapporto sessuale, risolvendosi,
pertanto, in una vera e propria costrizione che non può essere desunta, in via
meramente presuntiva, sulla base della posizione autoritativa ricoperta dal soggetto
agente (Sez. 3, n. 36595 del 22/05/2012, T., Rv. 253389).
In altre sentenze la nozione ristretta di abuso di autorità è stata ribadita escludendo
la posizione pubblicistica dell’agente che esercitava le funzioni di responsabile di un
centro di accoglienza quale ente ausiliario riconosciuto dalla regione ed iscritto nel
Registro generale del volontariato (Sez. 3, n. 47869 del 04/10/2012, M., Rv.
253870), del tutore (Sez. 3, n. 40848 del 18/07/2012, B, non mass.) e del medico
curante, pur distinguendo, in tale ultimo caso, tra attività esercitata nell’ambito del
servizio pubblico o, privatamente, intra moenia (Sez. 3, n. 16107 del 24/03/2015, M.,
Rv. 263333).

Il diverso orientamento, richiamando la prevalente dottrina, propende invece per
un concetto di abuso di autorità più ampio, comprensivo di ogni relazione, anche di
natura privata, in cui l’autore del reato riveste una posizione di supremazia della
quale si avvale per coartare la volontà della persona offesa ed è stato prospettato in
una prima decisione (Sez. 3, n. 2119 del 03/12/2008, dep. 2009, M., Rv. 242306)
ritenendo la convivenza dell’imputato con la madre del minore quale valido
presupposto dell’abuso di autorità, senza, tuttavia, manifestare un esplicito dissenso
rispetto alle precedenti decisioni, alle quali fa invece riferimento una successiva
pronuncia (Sez. 3, n. 23873 del 08/04/2009, C., Rv. 244082), ove, esaminando un
caso in cui il fatto era stato commesso con abuso della potestà genitoriale – anche
se ai soli fini della verifica della correlazione tra accusa e sentenza – viene dato
conto del formarsi di un diverso orientamento che colloca nell’ambito dell’abuso di
autorità ogni forma di strumentalizzazione del rapporto di supremazia, senza
distinzioni tra autorità pubblica e privata, osservando che, per individuare
quest’ultima, viene fatto riferimento all’art. 61 c.p., n. 11.
Un primo effettivo confronto con le diverse posizioni è stato però effettuato solo
successivamente (Sez. 3, n. 19419 del 19/04/2012, I., Rv. 252768), ritenendo
configurato l’abuso di autorità nello stato di soggezione indotto dall’imputato sulla
cognata, in un contesto familiare di particolare degrado, caratterizzato dalla
supremazia dell’uomo rispetto alla componente femminile.
Ancora una volta viene richiamata l’attenzione sul contenuto dell’art. 61 c.p., n. 11 (la
cui compatibilità con il reato di violenza sessuale con abuso di autorità è stata,
peraltro, ripetutamente riconosciuta dalla giurisprudenza: Sez. 3, n. 23463 del
24/01/2019, G, Rv. 275972; Sez. 3, n. 14837 del 04/03/2010, Cardinali, Rv. 246819)
osservando che lo stesso si riferisce, indifferentemente, all’abuso di autorità o di
relazioni domestiche, ovvero di relazioni d’ufficio, di prestazioni d’opera, di
coabitazione o di ospitalità e ricordando come la giurisprudenza ne abbia sempre
offerto un’interpretazione pacificamente ampia, riferibile indistintamente tanto
all’autorità pubblica che a quella privata, mentre quando il legislatore intende
considerare una posizione autoritativa di tipo pubblicistico la indica espressamente,
come nel caso dell’art. 608 c.p., il quale fa specifico riferimento al “pubblico ufficiale”,
menzione che, presente nell’abrogato art. 520 c.p., non è stata ripetuta nella
formulazione dell’art. 609-bis c.p. con il preciso fine di sanzionare qualsiasi persona
che, dotata di autorità pubblica o privata, abusi della sua posizione per costringere il
soggetto passivo a compiere o a subire atti sessuali (conforme, Sez. 3, n. 36704 del
27/03/2014, A, Rv. 260172, relativa ad abuso commesso dal datore di lavoro nei
confronti di una dipendente, che rinviene un ulteriore elemento di sostegno alla
lettura della norma nel contenuto dell’art. 609-quater c.p., comma 2, laddove si
riferisce al potere da parte di soggetto non necessariamente ricoprente una funzione
pubblica, come il convivente della madre del minore abusato).
In una successiva occasione (Sez. 3, n. 49990 del 30/04/2014, G, Rv. 261594,
relativa a fattispecie di abuso sessuale commesso dal superiore gerarchico su una
dipendente della ditta che impiegava entrambi) tale orientamento è stato ribadito,
confutando espressamente le osservazioni svolte in precedenti sentenze (n.
2283/2007 e 2681/2011, cit.) ove, quale ulteriore elemento a favore della tesi sulla
natura necessariamente pubblicistica e formale dell’autorità di cui abusa l’autore
della violenza sessuale, viene prospettata la sostanziale inapplicabilità dell’art. 609-
quater c.p., comma 2 che verrebbe a determinarsi aderendo alla tesi opposta.
Viene fatto rilevare, a tale proposito, che, oltre ad utilizzare espressioni diverse
(“abuso di autorità” nell’art. 609-bis e “abuso di poteri” nell’art. 609-quater), il delitto
di atti sessuali con minorenne, che richiede peraltro una più diretta ed effettiva
strumentalizzazione della posizione rivestita dall’agente, si caratterizza per l’assenza
di costrizione, richiesta, invece, per la configurabilità della violenza sessuale.
Nello stesso senso si è posta altra pronuncia (Sez. 3, n. 33042 del 08/03/2016, F,
Rv. 267453) la quale, ponendo l’accento anche sulla diversa natura del bene
giuridico tutelato rispetto alla previgente disciplina, che non è più la moralità pubblica
ed il buon costume, ma la libertà personale, che prescinde dalla rilevanza
pubblicistica della posizione di autorità e sulla natura di reato comune della violenza
sessuale, rileva anche come la presenza di una clausola di riserva nell’art. 609-
quater c.p. sia di per sè idonea a delimitarne l’ambito di operatività rispetto all’art.
609-bis c.p., regolando l’eventuale concorso apparente di norme e che, descrivendo
tale ultimo articolo la modalità della condotta come “abuso di autorità”, esso
considera la strumentalizzazione della dimensione soggettiva dell’autorità, mentre
per l’art. 609-quater, che si riferisce ad un “abuso dei poteri”, rileva la
strumentalizzazione della dimensione oggettiva, funzionale, dei poteri connessi alla
posizione dell’agente.
Ritiene infine condivisibile la più ampia accezione del concetto di abuso di autorità
altra pronuncia quasi coeva a quella appena richiamata (Sez. 3, n. 33049 del
17/05/2016, B, Rv. 267402), così come altre decisioni più recenti che a tale
orientamento espressamente aderiscono (ex pl. Sez. 3, n. 40301 del 15/12/2017,
dep. 2018, I, non massimata; Sez. 3, n. 21997 del 13/03/2018, I, non massimata;
Sez. 3, n. 20712 del 19/01/2018, U, non massimata).
Anche la dottrina, come si è detto, propende per una interpretazione ampia del
concetto di autorità, pur dando atto, in alcuni casi, della difficoltà di individuare le
condotte di abuso di autorità rispetto a quelle in cui la costrizione al compimento
degli atti sessuali avviene con minaccia.

Richiamati i contrapposti orientamenti giurisprudenziali che hanno dato origine al
contrasto e preso atto di quanto osservato in dottrina, occorre in primo luogo
individuare, prima di stabilire quale sia l’origine della posizione autoritativa rilevante
per la configurabilità del reato, il significato concreto della locuzione abuso di autorità
nel contesto in cui è collocato.
La differente formulazione dei primi due commi dell’art. 609-bis c.p. evidenzia come,
nella violenza sessuale “costrittiva”, il soggetto passivo ponga in essere o subisca un
evento non voluto poichè ne viene annullata o limitata la capacità di azione e di
reazione coartandone la capacità di autodeterminazione, mentre nella violenza
sessuale “induttiva” l’agente persuade la persona offesa a sottostare ad atti che,
diversamente, non avrebbe compiuto, ovvero a subirli, strumentalizzandone la
vulnerabilità e riducendola al rango di un mezzo per il soddisfacimento della
sessualità.
In entrambi i casi l’autore del reato incide sul processo formativo della volontà della
persona offesa, direttamente compressa, nel primo caso, fino ad impedire ogni
diversa opzione ed orientata, nel secondo, conformemente alle intenzioni
dell’agente.
Si tratta, a ben vedere, di due situazioni distinte, che rendono evidente come l’abuso
di autorità considerato dal comma 1 sia solo quello che determina una vera e propria
sopraffazione della volontà della persona offesa che si risolve in una costrizione e
non anche una mera induzione, alla quale viene fatto riferimento solo nel comma 2
nei termini dianzi specificati.
Come osservato in dottrina, la condizione in cui versa la persona offesa nei casi di
abuso di autorità è una condizione di sudditanza materiale o psicologica ma non
psichica e, quindi, di origine patologica in senso stretto.
L’abuso di autorità può, peraltro, ritenersi distinguibile anche dalla minaccia
funzionale alla costrizione, menzionata sempre nell’art. 609-bis c.p., comma 1.
Il confine è certamente labile, ma risponde, evidentemente, all’esigenza di ampliare
l’ambito di operatività del comma 1 fino a ricomprendervi situazioni non riconducibili
alla violenza o minaccia ed è individuabile nel senso che, mentre la minaccia
determina un’efficacia intimidatoria diretta sul soggetto passivo, costretto a compiere
o subire l’atto sessuale, la coartazione che consegue all’abuso di autorità trae origine
dal particolare contesto relazionale di soggezione tra autore e vittima del reato
determinato dal ruolo autoritativo del primo, creando le condizioni per cui alla
seconda non residuano valide alternative di scelta rispetto al compimento o
all’accettazione dell’atto sessuale che, consegue, dunque, alla strumentalizzazione
di una posizione di supremazia.

Quanto finora osservato consente già di rilevare come non vi siano validi
argomenti per accedere all’interpretazione maggiormente restrittiva del concetto di
abuso di autorità nei termini prospettati dal primo degli indirizzi giurisprudenziali
richiamati in precedenza, per una serie di ragioni efficacemente sviluppate nelle
decisioni più recenti, che evidenziano la debolezza delle conclusioni cui erano
pervenute le precedenti pronunce.
La sentenza 13/2000 delle Sezioni Unite, dopo aver dato conto dell’accertamento in
fatto, nel giudizio cautelare, dell’assenza di costrizione fisica nei confronti della
persona offesa da parte dell’agente, afferma – come si è detto, in via del tutto
incidentale – che l’abuso di autorità previsto dall’art. 609-bis c.p. coincide con l’abuso
della qualità di pubblico ufficiale di cui all’abrogato art. 520 c.p. perchè la
disposizione vigente aveva sostituito quella di cui agli abrogati art. 519 c.p., comma
1 e art. 520 c.p., aggiungendo che, in ogni caso, esso presuppone una posizione
autoritativa di tipo formale e pubblicistico.
La sentenza, inoltre, confronta l’art. 609-bis c.p. con l’art. 609-quater c.p.,
considerando il vizio del consenso del minore determinato dalla differente maturità
sessuale dell’agente e richiamando la differenza ontologica e giuridica tra il rapporto
intercorrente tra autore del reato e persona offesa rispetto alle due fattispecie
richiamate.
A tali considerazioni si sono richiamate le successive pronunce adesive.
Ciò posto, occorre rilevare, in primo luogo, come non sia determinante il richiamo
alle disposizioni del codice penale abrogate, rispetto alle quali quelle vigenti risultano
del tutto scollegate.
Invero, la collocazione del delitto di violenza sessuale tra quelli contro la libertà
personale e la pacifica natura di reato comune rendono evidente l’intenzione del
legislatore di ampliare l’ambito di operatività della fattispecie e svincolano del tutto
l’art. 609-bis c.p. dai riferimenti alla figura del pubblico ufficiale di cui all’abrogato art.
520 c.p., la cui posizione, secondo la lettura della norma offerta dalla coeva
giurisprudenza, era di per sè sufficiente alla configurazione del reato, non essendo
richiesta la costrizione, bensì il solo nesso occasionale tra la posizione di pubblico
ufficiale ed il fatto, tanto da ritenersi penalmente rilevante la condotta posta in essere
con soggetto consenziente o indotta dal soggetto passivo, essendo peraltro il reato
configurabile soltanto quando quest’ultimo fosse una persona arrestata, detenuta o
in affidamento per esecuzione di un provvedimento dell’autorità competente (Sez. 3,
n. 1347 del 27/10/1981, dep. 1982, Di Gaspare, Rv. 152136; Sez. 3, n. 7406 del
08/05/1987, Maione, Rv. 176179; Sez. 3, n. 2909 del 28/01/1986, dep. 1987,
Panicola, Rv. 175293; Sez. 3, n. 5321 del 18/12/2003, dep. 2004, Retillo, Rv.
227440).
Corretta risulta, poi, l’osservazione secondo cui, quando la legge ha inteso riferirsi a
soggetti che rivestono una posizione autoritativa formale, lo ha fatto espressamente,
come nel caso dell’art. 608 c.p., concernente l’abuso di autorità contro arrestati o
detenuti, mentre in altre disposizioni il concetto di autorità è inteso in senso ampio,
pacificamente comprensivo di posizioni di preminenza non necessariamente di
derivazione pubblicistica, come, ad esempio, nel caso dell’art. 61 c.p., n. 11,
richiamato dalla giurisprudenza in precedenza menzionata e confrontato anche con il
n. 9 del medesimo articolo (nella sentenza n. 49990/2014), ovvero in altre
disposizioni richiamate dalla dottrina, quali l’ormai abrogato art. 671 c.p., l’art. 600-
octies c.p., comma 1, che attualmente sanziona condotte analoghe e gli artt. 571,
600 e 601 c.p..
Anche le ulteriori argomentazioni poste a sostegno della interpretazione
maggiormente restrittiva, facendo ricorso al confronto tra la fattispecie in esame e
quella prevista dell’art. 609-quater c.p., comma 2, perdono consistenza non soltanto
per la presenza della clausola di riserva e la diversa formulazione, che si riferisce
non all’abuso di autorità bensì all’abuso di poteri, ma anche per la diversa
conformazione della condotta sanzionata che non richiede, come si è fatto rilevare in
più occasioni, la costrizione del minore, il quale è ritenuto non capace di esprimere
un valido consenso (in ragione dell’età o del rapporto che lo lega al soggetto attivo),
tanto è vero che il bene giuridico del reato non è la libertà di autodeterminazione del
minore ma la sua integrità fisio-psichica nella prospettiva di un corretto sviluppo della
propria sessualità (Sez. 3, n. 23205 del 11/04/2018, G., Rv. 272790; Sez. 3, n.
24258 del 27/5/2010, V., Rv. 247289; Sez. 3, n. 29662 del 13/05/2004, Sonno, Rv.
229358; Sez. 3, n. 15287 del 25/02/2004, D’Ettore, Rv. 228610).
Tali considerazioni trovano ulteriore conferma nel fatto che, in termini generali,
l’autorità, come osservato in altro ambito, ha natura relazionale e presuppone un
rapporto tra più soggetti, sostanzialmente caratterizzato dal fatto che colui che
riconosce l’autorità di chi la esercita subisce, senza reagire, gli atti che ne derivano,
sicchè in un simile contesto, non può validamente sostenersi che il riconoscimento
dell’autorità debba avere esclusivamente natura formale e pubblicistica.
Una simile interpretazione risulta, invero, in evidente contrasto con la esigenza di
massima tutela della libertà sessuale della persona che la legge persegue, come
pacificamente riconosciuto e rende collocabili nella fattispecie astratta di cui all’art.
609-bis c.p., comma 1 anche situazioni che, altrimenti, ne resterebbero escluse,
quali quelle derivanti da rapporti di natura privatistica o di mero fatto, come, ad
esempio, nel caso dei rapporti di lavoro dipendente (anche irregolare), ovvero di
situazioni di supremazia riscontrabili in ambito sportivo, religioso, professionale ed
all’interno di determinate comunità, associazioni o gruppi di individui.
Accedendo, pertanto, alla tesi più restrittiva, la prevaricazione esercitata dall’agente
sulla persona offesa sarebbe valutabile in sede penale solo se collocabile nell’ambito
della minaccia o dell’abuso delle condizioni di inferiorità psichica, restandone
esclusa qualora il compimento dell’atto sessuale con soggetto non consenziente
avvenga in assenza dei presupposti caratterizzanti le suddette forme di coartazione
o induzione.

Esclusa la natura formale e pubblicistica dell’autorità di cui l’agente abusa nel
commettere il reato di cui all’art. 609-bis c.p., occorre stabilire se l’autorità “privata”
sia solo quella che deriva dalla legge o anche un’autorità di fatto, comunque
determinatasi ed è conseguente alle premesse indicate ritenere corretta la seconda
ipotesi, poichè, se ciò che rileva è la coartazione della volontà della vittima, posta in
essere da una posizione di preminenza, la specifica qualità del soggetto agente
resta in secondo piano rispetto alla strumentalizzazione di tale posizione, quale ne
sia l’origine.
Va peraltro osservato che il riconoscimento della validità della interpretazione più
ampia del concetto di abuso di autorità non incide negativamente sul principio di
tipicità.
Occorre in primo luogo ribadire, a tale proposito, che, come peraltro riconosciuto
dalla dottrina, tra le finalità della L. 15 febbraio 1996, n. 66 vi era quella di assicurare
la massima tutela a tutti coloro che, per caratteristiche personali o in ragione del
contesto ambientale o relazionale che li vede coinvolti, vengano indotti o costretti a
compiere o subire atti sessuali, sicchè una nozione ampia del concetto di autorità
risulta del tutto coerente con gli scopi perseguiti dal legislatore.
Inoltre, la sussistenza oggettiva del rapporto autoritario così come in precedenza
individuato, deve essere inequivocabilmente dimostrata mediante un’analisi concreta
della dinamica dei fatti idonea a porre in luce un rapporto di soggezione
effettivamente intercorrente tra l’agente e la vittima del reato.
Deve, poi, essere dimostrata anche l’arbitraria utilizzazione del potere, dando anche
conto della correlazione esistente tra l’abuso di autorità e le conseguenze sulla
capacità di autodeterminazione della persona offesa, poichè una condotta che
dovesse diversamente estrinsecarsi dovrebbe inevitabilmente essere inquadrata
nelle contermini ipotesi di minaccia o induzione.
In altre parole, per la configurabilità del reato in esame occorre dimostrare non
soltanto l’esistenza di un rapporto di autorità tra autore del reato e vittima diverso
dalla mera costrizione fisica e dalle richiamate ipotesi di minaccia ed induzione, ma
anche che di tale posizione di supremazia l’agente abbia abusato al fine di
costringere la persona offesa a compiere o subire un atto sessuale al quale non
avrebbe in altro contesto consentito, dovendosi dunque escludere la possibilità di
desumere la costruzione in via meramente presuntiva sulla base della posizione
autoritativa del soggetto agente.
Quanto in precedenza rilevato consente, infine, di ritenere rilevante, per la
configurabilità del reato, la valenza coercitiva dell’abuso di autorità tanto nel caso in
cui la posizione di preminenza dell’agente sia venuta meno, permanendo tuttavia
una condizione di soggezione psicologica derivante dall’autorità da questi già
esercitata, quanto in quello di relazione di dipendenza indiretta tra autore e vittima
del reato, quando il primo, abusando della sua autorità, concorre con un terzo che
compie l’atto sessuale non voluto dalla persona offesa.

Alla stregua di quanto precede, può pertanto enunciarsi il seguente principio di
diritto: “L’abuso di autorità cui si riferisce l’art. 609-bis c.p., comma 1,
presuppone una posizione di preminenza, anche di fatto e di natura privata,
che l’agente strumentalizza per costringere il soggetto passivo a compiere o
subire atti sessuali”.

Venendo all’esame dei motivi di ricorso, deve essere rilevata l’infondatezza delle
eccezioni di natura procedurale prospettate nei primi due motivi di impugnazione,
per le ragioni già efficacemente enucleate nella preliminare delibazione effettuata
nell’ordinanza di rimessione.
Il primo motivo, concernente la violazione degli artt. 593 e 593-bis c.p.p. in relazione
all’art. 2 c.p. e la conseguente inammissibilità del ricorso per cassazione del
Procuratore generale, riqualificato come appello per avere imputato e parti civili
proposto appello avverso la sentenza di primo grado non è fondato.
La Corte di appello, dando atto che l’art. 593-bis c.p.p., inserito dal D.Lgs. 6 febbraio
2018, n. 11, art. 3, comma 1, il quale dispone, al comma 2, che il Procuratore
generale presso la Corte d’appello può appellare soltanto nei casi di avocazione o
qualora il Procuratore della Repubblica abbia prestato acquiescenza al
provvedimento, è in vigore dal 6 marzo 2018 e tenuto conto della data di
presentazione dell’impugnazione (20 maggio 2015) ha ritenuto applicabile la
previgente disciplina che tale impugnazione consentiva.
Tale assunto risulta corretto, in quanto, come costantemente affermato dalla
giurisprudenza di legittimità, la materia processuale è regolata dal principio del
tempus regit actum, secondo il quale la validità degli atti deve essere apprezzata
facendo riferimento alla legge vigente al momento della loro emanazione e non a
quello, successivo, di produzione degli effetti (Sez. 6, n. 10260 del 14/02/2019, Cesi,
Rv. 275201; Sez. 4, n. 20112 del 29/03/2018, Nesturi, Rv. 272746; Sez. 4, n. 49395
del 23/10/2018, B, Rv. 274041 ed altre prec. conf.).
In particolare, per ciò che concerne le impugnazioni, si è stabilito che, qualora si
succedano nel tempo diverse discipline e non sia espressamente regolato, con
disposizioni transitorie, il passaggio dall’una all’altra, l’applicazione del richiamato
principio impone di far riferimento al momento di emissione del provvedimento
impugnato e non già a quello della proposizione dell’impugnazione. (Sez. U, n.
27614 del 29/03/2007, Lista, Rv. 236537; Sez. 6, n. 19117 del 23/03/2018, Tardiota,
Rv. 273441; Sez. 6, n. 40146 del 21/03/2018, Pinti, Rv. 273843; Sez. 5, n. 10142 del
17/01/2018, C., Rv. 272670 ed altre prec. conf.).
Si è altresì esclusa l’applicabilità, con riferimento alle norme processuali, del
principio di necessaria retroattività della disposizione più favorevole (Sez. 5, n.
35588 del 03/04/2017, P, Rv. 271207; Sez. 4, n. 28153 del 18/06/2015, Cassano,
Rv. 264043; Sez. 6, n. 41322 del 22/09/2015, Policastri, Rv. 265013 ed altre prec.
conf.).

Infondato risulta anche il secondo motivo di ricorso, ove si deduce la violazione
dell’art. 443 c.p.p., comma 3, il quale stabilisce che il pubblico ministero non può
proporre appello contro le sentenze di condanna, salvo che si tratti di sentenza che
modifica il titolo del reato, assumendo che tale evenienza, diversamente da quanto
ritenuto dai giudici dell’appello, nella fattispecie non si sarebbe verificata, perchè la
diversa qualificazione giuridica del fatto, attribuendo ad esso l’esatto nomen iuris
lasciandolo invariato nei suoi tratti caratterizzanti, non costituirebbe mutamento del
titolo del reato.
Tale assunto è evidentemente errato se valutato alla luce di quanto disposto dall’art.
521 c.p.p., il quale, al comma 1, consente al giudice di attribuire al fatto una
definizione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione, mutandone quindi
il titolo e lasciandone inalterati gli elementi essenziali, mentre se il giudice accerta
che il fatto è diverso da come descritto nel decreto che dispone il giudizio, ovvero
nella contestazione effettuata a norma degli artt. 516, e 517 e art. 518, comma 2 –
evenienza cui fa riferimento il motivo di ricorso – deve provvedere, secondo quanto
stabilito dall’art. 521 c.p.p., comma 2, a disporre con ordinanza la trasmissione degli
atti al pubblico ministero, sicchè non si avrebbe alcuna sentenza di condanna
avverso la quale possa proporsi appello.
Va infine rilevato, con riferimento ad entrambi i motivi di ricorso, che, in ogni caso, il
Procuratore generale ha proposto ricorso per cassazione poi convertito in appello ai
sensi dell’art. 569 c.p., comma 2 e art. 580 c.p.p., circostanza, questa, che rende
applicabile, nella fattispecie, il principio, più volte affermato, secondo cui l’intervenuta
conversione supera eventuali limitazioni alla possibilità di una parte di proporre
appello (Sez. 5, n. 12792 del 21/02/2019, P, Rv. 276137; Sez. 5, n. 20482 del
08/03/2018, Cherubino, Rv. 273377; Sez. 5, n. 57716 del 13/10/2017, Casi, Rv.
271895 e, con riferimento al giudizio abbreviato, Sez. 2, n. 18253 del 23/04/2007,
Cerchi, Rv. 236404).

Il terzo ed il quinto motivo di ricorso, che possono essere esaminati
unitariamente, in quanto attinenti alla valutazione delle prove ai fini dell’affermazione
di responsabilità, sono inammissibili.
Occorre in primo luogo rilevare che gli stessi, pur formalmente deducendo la
violazione di legge ed il vizio di motivazione, richiamando l’art. 606 c.p.p., lett. b) ed
e), si risolvono nella richiesta di una diversa lettura degli elementi di fatto posti a
fondamento della decisione e nell’autonoma scelta di nuovi e diversi criteri di giudizio
in ordine alla ricostruzione e valutazione dei fatti, attività entrambe precluse nel
giudizio di legittimità, non potendo la Corte di cassazione ripetere l’esperienza
conoscitiva del giudice del merito, bensì esclusivamente riscontrare l’esistenza di un
logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza
possibilità di verificare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito
si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle
acquisizioni processuali.
I motivi, inoltre, sono connotati da genericità, in quanto le censure sulla inutilizzabilità
delle dichiarazioni rese dalle minori e sulla violazione della c.d. Carta di Noto
vengono prospettate senza alcuno specifico richiamo delle argomentazioni
sviluppate dai giudici dell’appello, così come la dedotta violazione dell’art. 530 c.p.p.,
comma 2 e art. 533 c.p.p. viene articolata senza chiarire quali esattamente
sarebbero le spiegazioni alternative al fatto che la Corte di appello avrebbe omesso
di confutare e le censure difensive che non avrebbe esaminato.

Per ciò che concerne il quarto motivo di ricorso, della doglianza relativa al
significato del riferimento, contenuto nell’art. 609-bis c.p. all’abuso di autorità si è già
detto nell’esaminare la questione controversa e nella sentenza impugnata viene dato
conto non soltanto della sussistenza del rapporto di preminenza esistente tra
l’imputato, insegnante privato e le persone offese, sue allieve, in ragione dell’attività
espletata, ma anche della condotta posta in essere e ritenuta esorbitante rispetto ai
normali canoni dell’insegnamento, ponendo altresì in evidenza, quali dati fattuali
significativi della costrizione esercitata sulle allieve e la stretta connessione con la
strumentalizzazione del ruolo di docente, la rivelazione delle violenze subite solo a
distanza di tempo e solo dopo il superamento di riserve psicologiche, circostanza
ritenuta indicativa dell’autorevolezza che contraddistingueva il rapporto tra l’imputato
e le minori.
Occorre peraltro considerare che, in ogni caso, nella sentenza impugnata la Corte di
appello, richiamando anche i contenuti della sentenza di primo grado, ha evidenziato
come la condotta posta in essere dall’imputato fosse connotata anche da violenza,
consistita negli atti repentini dettagliatamente descritti nel capo di imputazione, i
quali, secondo costante giurisprudenza, mediante il compimento insidiosamente
rapido della azione criminosa sorprendono la vittima ponendola nell’impossibilità di
difendersi e superando la sua contraria volontà (tra le altre, Sez. 3, n. 46170 del
18/07/2014, J, Rv. 260985; Sez. 3, n. 27273 del 15/06/2010, Rv. 247932; Sez. 3, n.
40443 del 28/11/2006, Zannelli, Rv. 235579).
Si tratta, pertanto, di argomentazioni giuridicamente corrette e supportate da
adeguata motivazione su specifici dati fattuali.

Altrettanto può dirsi per ciò che concerne l’ulteriore censura, formulata sempre
nel quarto motivo di ricorso, relativa al mancato riconoscimento dell’ipotesi di minore
gravità di cui all’art. 609-bis c.p., comma 3.
Come si è avuto modo di osservare, l’attenuante in questione può essere applicata
allorquando vi sia una minima compressione della libertà sessuale della vittima,
accertata prendendo in considerazione le modalità esecutive e le circostanze
dell’azione attraverso una valutazione globale che comprenda il grado di coartazione
esercitato sulla persona offesa, le condizioni fisiche e psichiche della stessa, le
caratteristiche psicologiche valutate in relazione all’età, l’entità della lesione alla
libertà sessuale ed il danno arrecato, anche sotto il profilo psichico (Sez. 3, n. 50336
del 10/10/2019, L, Rv. 277615; Sez. 3, n. 19336 del 27/03/2015, G., Rv. 263516;
Sez. 3, n. 39445 del 01/07/2014, S, Rv. 260501 ed altre prec. conf.).
Si è pure precisato che, per l’applicazione dell’attenuante in questione, non è
sufficiente la mancanza di congiunzione carnale tra l’autore del reato e la vittima
(Sez. 3, n. 19033 del 26/03/2013, L., Rv. 255295; Sez. 3, n. 10085 del 05/02/2009,
R., Rv. 243123; Sez. 3, n. 14230 del 15/02/2008, P.M. in proc. L., Rv. 239964) e che,
ai fini del diniego della stessa attenuante, è sufficiente la presenza anche di un solo
elemento di conclamata gravità (Sez. 4, n. 16122 del 12/10/2016, dep. 2017, L.; Sez.
3, n. 6784 del 18/11/2015, dep. 2016, P.G. in proc. D, Rv. 266272).
Si è ulteriormente chiarito che, rispetto a tale valutazione, non rilevano i criteri
soggettivi di commisurazione della pena di cui all’art. 133 c.p., comma 2, in quanto la
mitigazione della pena prevista nell’ipotesi di minore gravità del reato di violenza
sessuale non risponde all’esigenza di adeguamento alla colpevolezza del reo e alle
circostanze attinenti alla sua persona, bensì alla minore lesività del fatto, da
rapportare al grado di violazione del bene giuridico della libertà sessuale della vittima
(Sez. 3, n. 14560 del 17/10/2017, dep. 2018, B, Rv. 272584; Sez. 3, n. 31841 del
02/04/2014, C, Rv. 260289; Sez. 3, n. 23093 del 11/05/2011, D., Rv. 250682 ed altre
prec. conf.). A tale fine, la reiterazione di rapporti sessuali è stata ritenuta sintomatica
dell’intensità del dolo in capo all’imputato ed espressione di una compressione non
lieve della libertà sessuale della vittima, non compatibile con un giudizio di minore
gravità del fatto (Sez. 3, n. 4960 del 11/10/2018, dep. 2019, S, Rv. 275693).
Nel caso di specie, la Corte territoriale ha dato rilievo, nel giustificare il diniego
dell’attenuante, alla reiterazione delle condotte, alla loro invasività come percepita
dalle vittime ed al rapporto fiduciario instauratosi tra insegnante ed allieve, elementi
che, alla luce dei richiamati principi, evidenziano come la sentenza impugnata sia,
anche sul punto, assistita da motivazione del tutto adeguata e conforme a legge.

Per ciò che concerne, infine, il diniego delle circostanze attenuanti generiche,
oggetto di censura nel sesto motivo di ricorso, deve osservarsi che la sentenza
impugnata lo ha giustificato in considerazione dell’assenza di positivi elementi di
valutazione e richiamando la gravità dei fatti in considerazione della reiterazione
delle condotte e del divario di età esistente tra imputato e persone offese, offrendo,
anche in questo caso, una motivazione del tutto congrua, a fronte della quale il
ricorso, richiamando solo uno degli argomenti valorizzati dai giudici dell’appello
(differenza di età tra vittime e imputato), indica l’incensuratezza dell’imputato quale
dato suscettibile di valutazione trascurato in sentenza, non considerando, però, che
l’art. 62-bis c.p., comma 3, esclude che l’assenza di precedenti condanne per altri
reati possa essere, per ciò solo, posta a fondamento della concessione delle
circostanze attenuanti generiche.

Il ricorso, conseguentemente, deve essere rigettato ed al rigetto consegue
l’onere delle spese del procedimento, nonchè la rifusione delle spese sostenute dalle
parti civili, da liquidarsi in favore dello Stato, specificando che, come già affermato
dalle Sezioni Unite, in tema di liquidazione, nel giudizio di legittimità, delle spese
sostenute dalla parte civile ammessa al patrocinio a spese dello Stato, compete alla
Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 541 c.p.p. e D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art.
110, pronunciare condanna generica dell’imputato al pagamento di tali spese in
favore dell’Erario, mentre è rimessa al giudice del rinvio, o a quello che ha
pronunciato la sentenza passata in giudicato, la liquidazione delle stesse mediante
l’emissione del decreto di pagamento ai sensi del citato D.P.R., artt. 82 e 83 (Sez. U,
n. 5464 del 26/09/2019, dep. 2020, De Falco,Rv. 277760).
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali. Condanna, inoltre l’imputato alla rifusione delle spese di
rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili P.D. e
Ca.Ne., ammesse al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà
liquidata dalla Corte di appello di Caltanissetta con separato decreto di
pagamento ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, artt. 82 e 83, disponendo il
pagamento in favore dello Stato.
Così deciso in Roma, il 16 luglio 2020.
Depositato in Cancelleria il 1 ottobre 2020

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