Sentenza, Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Penale, 7 ottobre 2020, n. 27917, Detenzione carceraria e Covid – 19:

La vicenda traeva origine dal rigetto dell’appello cautelare promosso dal difensore dell’imputato, finalizzato ad ottenere la sostituzione della custodia in carcere con gli arresti domiciliari, visto il maggiore rischio per la vita dello stesso, già affetto da pancreatite, in caso di contrazione del virus Covid – 19 nella casa circondariale. I giudici di legittimità investiti della questione, a seguito dell’impugnativa in cassazione del suddetto rigetto, hanno chiarito che l’incompatibilità tra lo stato di detenzione e la contrazione del virus Covid – 19 deve essere accertata nel caso concreto, valutando la situazione sanitaria esistente nella casa circondariale nonché l’adozione di misure di prevenzione del contagio, fermo restando la possibilità del detenuto di essere trasferito in altri istituti detentivi più adatti a salvaguardare le sue particolari condizioni di salute.

Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Penale, 7 ottobre 2020, n. 27917:

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DI STEFANO Pierluigi – Presidente –
Dott. CAPOZZI Angelo – Consigliere –
Dott. APRILE Ercole – rel. Consigliere –
Dott. ROSATI Martino – Consigliere –
Dott. SILVESTRI Pietro – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
P.A., nato in (OMISSIS);
avverso l’ordinanza del 19/05/2020 del Tribunale di Roma;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere APRILE Ercole;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale MOLINO
Pietro, che ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso.
Svolgimento del processo

Con l’ordinanza sopra indicata il Tribunale di Roma, adito ai sensi dell’art. 310
c.p.p., rigettava l’appello presentato dal difensore di P.A. – imputato in relazione ai
reati di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 74 e 73, art. 648 c.p., L. n. 895 del 1967,
artt. 2 e 7, L. n. 110 del 1975, art. 23 e, per l’effetto confermava il provvedimento del
14 aprile 2020 con il quale il Tribunale di Roma in composizione collegiale aveva
disatteso l’istanza difensiva di sostituzione della misura della custodia cautelare in
carcere, alla quale il prevenuto è sottoposto, con quella meno gravosa degli arresti
domiciliari.
Rilevava il Tribunale come, anche in considerazione della emergenza sanitaria da
Covid-19 e delle relative norme adottate per fronteggiare il problema negli istituti di
detenzione, non vi fossero le condizioni per affermare che la custodia in carcere sia
incompatibile con le condizioni di salute del P.; e come non vi fossero i presupposti
per estendere al predetto gli effetti favorevoli delle decisioni adottate dal giudice del
procedimento nei confronti di due coimputati, tali S. e D.F., che hanno già ottenuto la
concessione della meno gravosa misura degli arresti in casa.

Avverso tale ordinanza ha presentato ricorso il P., con atto sottoscritto dal suo
difensore, il quale, con un unico articolato motivo, ha dedotto la violazione di legge,
in relazione agli artt. 275 e 299 c.p.p., e il vizio di motivazione, per avere il Tribunale
di Roma illogicamente disatteso le ragioni dell’appello senza tenere adeguatamente
conto i singoli passaggi e le cadenze temporali della lunga “storia” detentiva del
prevenuto, affetto da una grave forma di pancreatite, in particolare i tempi e gli esiti
degli esami strumentati ai quali lo stesso è stato sottoposto in carcere; per non avere
ragionevolmente tenuto conto delle specifiche indicazioni sanitarie evidenziate dalla
difesa e che la direzione sanitaria dell’istituto dove il predetto è recluso avesse
concluso nel senso che quel tipo di patologia un concreto fattore di aumento del
rischio quod vitam in caso di infezione da Covid; e per avere omesso di considerare
che i coimputati S. e D.F., che si trovano in una posizione processuale
sostanzialmente parificabile a quella del P., hanno beneficiato degli arresti
domiciliari, misura che non vi è ragione equitativa per negare al ricorrente.
Motivi della decisione

Ritiene la Corte che il ricorso presentato nell’interesse di P.A. sia inammissibile.

Il requisito della specificità dei motivi a cui è condizionata l’ammissibilità del
mezzo di gravame, comporta non solo l’onere di dedurre le censure che l’imputato
intende muovere su punti circoscritti della decisione, ma anche l’onere di indicare in
modo preciso e dettagliato gli elementi di fatto e di diritto che si pongono a base
delle censure; ciò perchè solo in tale caso il giudice dell’impugnazione è posto in
grado di valutare la validità o meno di ogni singola censura, confrontando le
argomentazioni sviluppate a supporto dell’impugnazione con la motivazione del
provvedimento contro cui essa è diretta. Sicchè il ricorso per Cassazione è
inammissibile perchè generico quando i motivi difettino di una meditata critica del
giudizio ricostruttivo e valutativo operato dal giudice a quo, risolvendosi nella
ripetizione più o meno sintetica di quelli già dedotti con l’appello e motivatamente
respinti ed in astratte critiche avverso l’apprezzamento dei dati informativi
compiutamente svolto nella decisione impugnata.
In tale ottica va rilevato come a fronte di un perspicuo passaggio motivazionale
contenuto nel provvedimento gravato, con il quale il Tribunale dell’appello cautelare
aveva analiticamente spiegato come le condizioni di salute del P. non potesse
considerarsi particolarmente gravi – tenuto conto che in due relazioni del febbraio e
dell’aprile del 2020 la direzione della casa circondariale ove il prevenuto è recluso
aveva segnalato che in quel momento non vi erano particolari criticità sanitarie, non
avendo potuto eseguire ulteriori approfondimenti diagnostici per il rifiuto
dell’interessato a sottoporsi ad altri esami – il difensore ha formulato doglianze da un
lato molto indeterminate, lamentando la omessa valutazione della “storia” clinica del
detenuto, dall’altro ha richiamato un dato sostanzialmente inconferente ed in
precedenza non adeguatamente sottolineato, quale l’impossibilità per l’imputato di
fruire in carcere di un adeguato regime alimentare.
Inoltre, il Tribunale di Roma aveva affermato come, sulla base di tutta la
documentazione a disposizione, fosse risultato evidente che non era necessario
trasferire il P. presso altro istituto in quanto il rischio di una incompatibilità delle sue
condizioni di salute con il regime carcerario in ragione di un rischio di contrarre una
infezione da Covid era in quel momento solo ipotetica. In buona sostanza, con un
argomento che appare logicamente ineccepibile e rispettoso del dato normativo, i
giudici di merito hanno concluso che se è vero che il tipo di patologia da cui il P.
risulta affetto rappresenta obiettivamente un fattore di aumentato rischio quoad vitam
nel caso di infezione da Covid, al momento non vi fossero ragione per reputare la
concreta esistenza di quel rischio, non avendo la difesa dedotto l’esistenza di quel
tipo di infezioni nella casa circondariale di Frosinone, nè essendo desumibili dati di
segno contrario dalle relazioni trasmesse dalla direzione sanitaria di quell’istituto.
Orbene, a fronte di tale puntuale motivazione le censure difensive sono risultate
estremamente generiche, avendo il ricorrente parlato in maniera indeterminata dei
rischi di contagio da Covid e della diffusione della pandemia in vari Stati del mondo e
in alcune regioni italiane più che in altre: finendo per criticare l’approccio “ideologico”
al problema seguito dal Tribunale romano e per sollecitare il rispetto di valori
fondamentali definiti dalla Costituzione e da convenzioni internazionali.
Al riguardo è doveroso sottolineare che se è vero che la detenzione in carcere
costituisce obiettivamente un contesto nel quale è più facile la diffusione del virus, in
quanto i detenuti vivono in ambienti nei quali è tendenzialmente più difficile il
mantenimento delle distanze di sicurezza ed in cui sono ben possibili fenomeni di
assembramento o di sovraffollamento, è anche vero che la norma codicistica, così
come richiamata nella istanza difensiva ed applicata dai giudici di merito, prevede
una situazione di concreta ed effettiva, non anche di ipotetica o potenziale,
incompatibilità tra le condizioni di salute del recluso e il suo stato di detenzione, se
del caso valutate come tali da non consentire adeguate cure in caso di detenzione in
carcere. In tale ottica occorre verificare la situazione in concreto esistente nella casa
circondariale in cui si trova l’interessato; la presenza di misure di precauzione
adottate, nel rispetto delle prescrizioni di legge e di quelle regolamentari, per
garantire una distanza di sicurezza tra detenuti “a rischio”; nonchè la possibilità che i
reclusi che si trovano in condizioni di salute più precarie possano godere del
trasferimento presso atri istituti o presso strutture sanitarie più adeguate del circuito
penitenziario.

Quanto, infine, al riferimento alla posizione cautelare di altri coimputati pure
contenuta nel ricorso oggi in esame – va evidenziato come la difesa non si sia
realmente confrontata con la principale ragione posta dai giudici a quibus a
fondamento della loro decisione, e cioè l’impossibilità di valorizzare in favore del P. le
determinazioni cautelari che il giudice del procedimento principale aveva adottato nei
riguardi di suoi coimputati sulla base della valutazione di circostanze personali
riferibili solo a questi ultimi. Decisione che risulta rispettosa del principio di diritto,
espressione di un consolidato orientamento giurisprudenziale, per cui in tema di
esigenze cautelari la posizione processuale di ciascun coindagato o coimputato è
autonoma, in quanto la valutazione da esprimere si fonda, oltre che sulla diversa
entità del contributo materiale e/o morale assicurato alla realizzazione dell’illecito da
ognuno dei concorrenti, anche su profili strettamente attinenti alla personalità del
singolo, sicchè può risultare giustificata l’adozione di regimi difformi pur a fronte della
contestazione di un medesimo fatto di reato (in questo senso, tra le altre, Sez. 3,
Sentenza n. 7784 del 28/01/2020, Mazza, Rv. 278258).
Anche in relazione a tale aspetto il motivo del ricorso pecca di genericità, avendo
l’impugnante implicitamente riconosciuto di non aver adempiuto a quell’onere di
allegazione – asserendo che doveva essere il giudice dell’appello a dover verificare
se i tre indicati imputati avessero dato un diverso contributo eziologico alla
consumazione del reato ovvero se gli stessi avessero un diverso profilo cautelare
soggettivo – e di aver sollecitato, alla fine, il Tribunale ad adottare una decisione
basata su un criterio di mera equità.

Alla declaratoria di inammissibilità consegue la condanna dei ricorrenti al
pagamento delle spese del procedimento e ciascuno a quella di una somma in
favore della Cassa delle Ammende, che si stima equo fissare nella misura indicata in
dispositivo.
Alla cancelleria vanno demandati gli adempimenti comunicativi previsti dalla legge.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle
Ammende.
Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94 disp. att. c.p.p.,
comma 1 ter.
Così deciso in Roma, il 23 settembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 7 ottobre 2020

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