Sentenza, Suprema Corte di Cassazione, Sezione III Civile, 7 Febbraio – 13 ottobre 2020, n. 22126 – Contratto di locazione simulato – Nullità virtuale:
Tale sentenza, degna di nota in ambito locatizio, introduce importanti novità sia sotto il profilo processuale che sostanziale. In merito al primo, i giudici di legittimità considerano ammissibili in appello, senza violare l’art. 437 e 325 c.p.c, l’eccezione di novazione oggettiva nonché di simulazione del contratto, trattandosi di eccezioni in senso lato. In merito al secondo, invece, stabiliscono che la simulazione relativa, consistita nel stipulare un contratto di locazione per un canone minore rispetto a quello effettivamente dichiarato, possa essere provata dai contraenti producendo in giudizio il patto dissimulato scritto ai sensi dell’art. 2722 c.c. In virtù di ciò, il patto dissimulato, che si riferisca a un canone diverso da quello dichiarato nel contratto apparente, è affetto da nullità virtuale, essendo illecita la causa concreta del medesimo, volta ad eludere il fisco. Vista la portata generale del suddetto principio, esso deve applicarsi anche a contratti di locazione non abitativa che siano stati stipulati anteriormente alla entrata in vigore della citata legge n. 311 del 2004. Di converso, la mancata registrazione del contratto apparente comporterebbe la nullità testuale del medesimo a decorrere dall’entrata in vigore del citato art. 1 c. 346, legge 311/2004,, ossia dal 2005.
Suprema Corte di Cassazione, Sezione III Civile, 7 Febbraio – 13 ottobre 2020, n. 22126:
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GRAZIOSI Chiara – Presidente –
Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –
Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –
Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –
Dott. D’ARRIGO Cosimo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 21605/2018 R.G. proposto da:
D.V., rappresentato e difeso dall’Avv. Fabio Costa, con domicilio eletto presso lo studio di
quest’ultimo, in Roma, via Bergamo, n. 54;
ricorrente –
contro
G.M.C., nella qualità di amministratrice di sostegno di C.E., rappresentata e difesa dall’Avv.
Alberto Deasti, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via del Plebiscito, n. 102;
ricorrente incidentale –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma, n. 6800/2017, pubblicata il 17 gennaio 2018;
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 7 febbraio 2020 dal Consigliere Iannello Emilio;
udito l’Avvocato Fabio Costa;
udito l’Avvocato Alberto Deasti;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Patrone Ignazio, che ha
concluso chiedendo il rigetto del ricorso principale, assorbito quello incidentale.
Svolgimento del processo
Con atto notificato in data 11/10/2011 C.E. intimò a D.V. sfratto per morosità, in relazione
all’immobile a lui concesso in locazione, ad uso commerciale, con contratto stipulato il 31/3/2006,
registrato in data 4/4/2006, deducendo il mancato pagamento del canone relativo ai mesi da giugno
a settembre 2011 (pari a Euro 775 mensili, oltre aggiornamenti Istat nella misura del 100%
dell’indice dei prezzi al consumo) per un complessivo importo di Euro 3.421,16.
L’intimato vi si oppose, assumendo l’esistenza di un maggiore controcredito, sul rilievo che:
il rapporto giuridico tra le parti traeva origine dal contratto di locazione stipulato in data 1/2/2000
che prevedeva illegittimamente una durata di sei anni senza possibilità di rinnovo ed un canone
mensile di Lire 700.000 (Euro 361,51);
detto contratto si era automaticamente rinnovato sino al mese di febbraio 2012 dovendosi ritenere
illegittima la clausola relativa ad una durata inferiore;
la locatrice aveva preteso fin dall’origine del rapporto che le fosse corrisposto un canone mensile
di Lire 1.500.000 (Euro 775,00) nonchè di stipulare un nuovo contratto il 31/3/2006, che prevedeva
tale importo, diverso rispetto a quello indicato nel contratto originario, in violazione di quanto
previsto dalla L. 27 luglio 1978, n. 392, art. 79;
il nuovo contratto era affetto da nullità in quanto stipulato in violazione di norme imperative al
fine di pretendere un canone maggiore, come illegittimo era l’aggiornamento ISTAT previsto al
100%.
Transitato il giudizio alla fase a cognizione piena, il resistente chiese, nella memoria integrativa, in
via riconvenzionale, accertarsi la vigenza del contratto del 1/2/2000 al canone pattuito, con
conseguente nullità di ogni diversa determinazione contra legem, e la condanna della locatrice alla
restituzione delle somme indebitamente pretese e corrisposte nel corso del rapporto, ammontanti ad
Euro 55.582,21 per maggiori canoni e ad Euro 1.904,44 per aumenti ISTAT non dovuti oltre
interessi legali sul deposito cauzionale.
Il Tribunale rigettò la domanda principale e, in parziale accoglimento della spiegata
riconvenzionale, dichiarò che il rapporto tra le parti era regolato dal contratto di locazione stipulato
in data 1/2/2000, rinnovatosi ex lege al canone mensile di Euro 361,51; dichiarò la nullità di ogni
diversa pattuizione relativa al canone di locazione e all’aggiornamento ISTAT; condannò la
ricorrente al pagamento della somma di Euro 55.582,21, oltre interessi legali dalle singole scadenze
al saldo, nonchè alla rifusione delle spese processuali.
Tale decisione è stata sostanzialmente ribaltata dalla Corte d’appello di Roma che, con la
sentenza in epigrafe, in parziale accoglimento del gravame interposto dalla locatrice, ha dichiarato
risolto il contratto di locazione per inadempimento del conduttore, condannandolo al pagamento
della somma di Euro 2.838,52 a titolo di canoni locativi scaduti e non pagati dal 1/6/2011 al
30/9/2011 (al netto delle somme pagate dal conduttore per adeguamenti Istat eccedenti la
percentuale del 75%) e dell’ulteriore somma di Euro 834,20, a titolo di indennità di occupazione, da
ottobre 2011 a luglio 2014, data dell’avvenuto rilascio dell’immobile.
Ha infatti ritenuto, per quanto ancora in questa sede interessa, che:
avendo le parti stipulato in data 1/2/2000 un contratto di locazione ad uso commerciale, non
registrato, per un canone mensile previsto nella misura di Euro 361,51, ma, come riconosciuto dallo
stesso appellato, fin d’origine del rapporto, di fatto corrisposto in quella (“certamente concordata tra
le parti”) di Euro 775,00, doveva escludersi la violazione della L. n. 392 del 1978, art. 79, norma
che sanziona la pretesa di somme ulteriori rispetto a quelle originariamente pattuite, risultando
altresì inconferente il richiamo alla L. n. 431 del 1998, art. 13, comma 1, (che sanziona con la
nullità ogni pattuizione volta a determinare un importo superiore a quello risultante dal contratto
scritto e registrato), poichè afferente esclusivamente ai contratti di locazione di immobili ad uso
abitativo;
al contratto registrato del 31/3/2006, nel quale le parti avevano indicato in Euro 775,00 il canone
dovuto (corrispondente a quello reale già corrisposto in vigenza del primo contratto), va
riconosciuta valenza novativa, atteso che con esso venivano regolamentati, in maniera diversa
rispetto al precedente accordo, aspetti non marginali del rapporto, quali la disciplina della
risoluzione di diritto in caso di ritardato pagamento dei canoni e la misura dello aggiornamento
Istat; inoltre, dalla stipula del nuovo contratto derivava il diritto del conduttore a permanere
nell’immobile fino al 2018 (seconda scadenza contrattuale), e dunque per un periodo di ulteriori sei
anni rispetto alla scadenza ex lege del contratto del 2000.
Avverso tale decisione D.V. propone ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi, cui resiste
G.M.C., nella qualità di amministratrice di sostegno di C.E., depositando controricorso, con il quale
anche propone ricorso incidentale condizionato, con unico mezzo.
Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
Con il primo motivo del proprio ricorso il D. denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4,
“nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4, (motivazione apparente) e dell’art. 437
c.p.c.”, in relazione al rigetto della eccezione di inammissibilità, per mutatio libelli, del primo
motivo di gravame.
Premesso che tale eccezione era stata opposta sul rilievo che solo in appello, con detto motivo, la
locatrice aveva dedotto che, con il contratto del 2006, le parti avrebbero concordato una novazione
contrattuale, lamenta che la Corte di merito l’ha ritenuta infondata, laconicamente affermando che la
prospettazione del carattere novativo delle obbligazioni assunte con il nuovo contratto era
“facilmente desumibile dalla difesa assunta alla locatrice con la memoria depositata in data
13/2/2012″.
Deduce che tale generico rinvio costituisce motivazione apparente poichè renderebbe impossibile
comprendere le ragioni poste alla base della reiezione della eccezione.
Soggiunge che, peraltro, dalla disamina dell’atto richiamato per relationem, non emerge alcun brano
dal quale desumere la tesi della novazione.
Con il secondo motivo il ricorrente principale denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n.
3, violazione o falsa applicazione degli artt. 1230 e 1231 c.c., in combinato disposto con la L. n. 392
del 1978, art. 79 e art. 1418 c.c., per avere la Corte d’appello ritenuto sussistente una novazione tra
il primo e il secondo contratto, mentre in realtà, di questa, non sussistevano nè l’elemento oggettivo,
nè l’elemento soggettivo.
Rileva infatti che: da un lato, gli elementi individuati dai giudici d’appello come costituenti la
novazione (ossia, la previsione della risoluzione di diritto in caso di ritardato pagamento; la misura
dell’aggiornamento Istat; la permanenza del conduttore fino al 2018) non potevano ritenersi
presupposti oggettivi di una novazione del rapporto obbligatorio, non comportando una
modificazione nè dell’oggetto nè del titolo (aliquid novi), ma costituendo piuttosto delle odificazioni
accessorie ex art. 1231 c.c.; dall’altro non risulta verificata in sentenza la sussistenza nè dell’animus
novandi, nè della causa novandi, ma vi erano anzi elementi che escludevano categoricamente la
ricorrenza di tali elementi e che presuntivamente avrebbero dovuto portare alla esclusione della
novazione ed a ravvisare la sussistenza di un abuso da parte della locatrice.
Rimarca in tal senso che il canone, che costituisce il cuore e l’elemento intorno al quale ruota
l’essenza di ogni locazione, era rimasto identico poichè si era passati da Euro 775 pagati de facto
con il primo contratto ad Euro 775 pagati “di diritto” con il secondo contratto, e ciò avrebbe dovuto
far presumere, in ragione della sperequazione della posizione delle parti, che la stipula del secondo
contratto altro non era che un tipico escamotage con cui tentare di fare salvi gli effetti di un abuso
protratto dal 2000 al 2006, come correttamente aveva rilevato il Tribunale.
Con il terzo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4,
violazione e falsa applicazione dell’art. 437 c.p.c., comma 2, per avere, implicitamente, ritenuto
ammissibile il secondo motivo di gravame con il quale la locatrice, mutando radicalmente la difesa
opposta in primo grado alla domanda riconvenzionale, aveva dedotto che, coevamente alla stipula
del primo contratto, le parti avessero concordato il canone effettivamente dovuto nella maggiore
misura di Lire 1.500.000, del quale al contempo, anche sul punto smentendo le proprie precedenti
difese, confessava l’effettiva percezione sin dal 1 febbraio 2000.
Rileva che, così argomentando, controparte aveva in appello, per la prima volta, dedotto di avere
concluso con il conduttore un patto aggiunto, esterno ed orale, contrario al tenore del primo
contratto, qualificabile come accordo simulatorio ed aveva, quindi, introdotto un nuovo tema di
indagine inammissibile in appello.
Con il quarto motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5,
violazione o falsa applicazione degli artt. 2697, 2722, 2729, 1414 e 1417 c.c. e della L. n. 392 del
1978, art. 79, nonchè omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di
discussione tra le parti, per avere la Corte d’appello:
a) ritenuto provato detto accordo simulatorio (la cui esistenza non poteva considerarsi postulata per
implicito dalle difese e domande riconvenzionali da esso svolte in primo grado), erroneamente
ritenendo di poterlo desumere in via presuntiva dalla sola erogazione, de facto, del canone
maggiorato sin dall’inizio del rapporto;
d) omesso comunque di rilevarne la nullità (siccome sancita anche dalla allora già intervenuta
sentenza delle Sezioni Unite della Suprema Corte n. 23601 del 2017) in quanto volto a maggiorare
il canone previsto dal contratto apparente;
c) omesso di considerare il fatto decisivo rappresentato dal rilascio, da parte della locatrice, di
quietanze per la somma inferiore prevista nel primo contratto (fatto, secondo il ricorrente, idoneo di
per sè a dimostrare l’inesistenza di un patto aggiunto sul canone).
Con il quinto motivo il ricorrente principale denuncia, infine, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma
1, n. 4, violazione dell’art. 112 c.p.c., per avere la Corte d’appello dichiarato risolto il contratto sulla
base della previsione contenuta nell’art. 4 del secondo contratto, secondo cui il mancato pagamento
puntuale anche di due sole rate del canone avrebbe comportato la risoluzione di diritto ex art. 1456
c.c., in assenza di rituale domanda in tal senso, avendo l’attrice, con l’intimato sfratto, proposto la
diversa domanda (costitutiva, non dichiarativa) di risoluzione del contratto per inadempimento.
Con l’unico motivo del proprio ricorso incidentale condizionato G.M.C., nella detta qualità di
amministratrice di sostegno di C.E., sulla premessa che il contratto del 2006, poichè novativo del
rapporto, ha fatto venir meno l’apparente incongruenza tra il canone dichiarato e quello effettivo,
chiede che, nel caso venga accolto il ricorso principale, l’eventuale diritto alla ripetizione del
maggior canone non dovuto sia circoscritto al solo periodo di vigenza del primo contratto (1
febbraio 2000 – 31 marzo 2006).
Il primo motivo del ricorso espone due distinte censure, entrambe prospettanti errores in
procedendo: la prima, come detto, denuncia motivazione apparente sulla eccezione, disattesa, di
inammissibilità del primo motivo di gravame; la seconda mira a contestare la correttezza del rigetto
di tale eccezione.
7.1. La prima di tali censure è inammissibile, attesa la natura meramente processuale della
questione la cui decisione si lamenta essere supportata da motivazione apparente.
Ed infatti, come non è deducibile il vizio di omessa pronuncia (come ricorda lo stesso ricorrente
introducendo l’illustrazione del terzo motivo di ricorso: v. pag. 20) in relazione a domande o
eccezioni diverse da quelle di merito, così, a fortiori, non è nemmeno prospettabile un vizio di
carenza o apparenza della motivazione addotta a supporto di espressa statuizione su questione di
natura processuale.
Ciò in quanto, come efficacemente evidenziato dalle Sezioni Unite di questa Corte, “con riguardo ai
vizi del procedimento… l’oggetto dello scrutinio che è chiamato a compiere il giudice di legittimità,
a differenza di quel che accade con riferimento agli errores in iudicando denunciati a norma dell’art.
360 c.p.c., comma 1, n. 3, non (è) costituito dal contenuto della decisione formulata nella sentenza
(che segna solo il limite entro cui la parte ha interesse a dedurre il vizio processuale), bensì
direttamente dal modo in cui il processo si è svolto, ossia dai fatti processuali che quel vizio
possono aver provocato”. Di tali fatti la Corte di cassazione deve prendere essa stessa cognizione,
poichè si collocano “all’interno di una vicenda che è tuttora in corso di sviluppo”, di modo che
l’eventuale vizio verificatosi anche nei precedenti gradi o fasi è “sempre attuale, ove sia tale da
incidere sulla decisione della causa e da compromettere la realizzazione del giusto processo”.
Questo essendo il fondamento dell’estensione anche ai profili di fatto dello scrutinio rimesso alla
Corte di Cassazione, deve conseguentemente escludersi che questo “debba ridursi alla valutazione
di sufficienza e logicità della motivazione del provvedimento impugnato… giacchè non è attraverso
la motivazione del provvedimento impugnato, o non solo attraverso di essa, che la Corte di
cassazione conosce del vizio processuale denunciato dal ricorrente” (Cass. Sez. U. 22/05/2012, n.
8077).
7.2. La seconda delle esposte censure – che invece, per l’appunto, invoca lo scrutinio diretto di
questa Corte sulla correttezza dello svolgimento processuale sotto il profilo in questione (ossia in
relazione alla eccepita inammissibilità, per mutatio libelli, del motivo di gravame con il quale
controparte deduceva che, con il contratto del 2006, le parti sarebbero pervenute ad un novazione
del rapporto di locazione) – è poi infondata.
Come questa Corte ha già avuto modo di rilevare, la novazione non forma oggetto di un’eccezione
in senso proprio, come si deduce dalla nozione e dalla disciplina quali delineate negli artt. 1230 e
1235 c.c., poste a raffronto con l’espressa previsione della non rilevabilità d’ufficio della
compensazione (art. 1242 c.c.), e quindi il giudice può rilevare d’ufficio il fatto corrispondente, ove
ritualmente introdotto nel processo (Cass. 17/11/2016, n. 23434; 08/04/2009, n. 8527).
Il rilievo, ribadito in memoria (p. 1.5), secondo cui mancherebbe, nella specie, tale ultimo
presupposto, è infondato.
La Corte d’appello ha rilevato la novazione sulla base di elementi (quelli sopra ricordati relativi alla
misura del canone, alla disciplina della risoluzione del contratto, alla durata dello stesso) risultanti
pacificamente dalle comuni allegazioni delle parti.
Diversa questione – di merito, non processuale – è poi se tali elementi giustificassero effettivamente
oppure no l’inferenza trattane dalla Corte d’appello, restando però comunque escluso che, per aver
attribuito ad essi detta valenza, la Corte sia incorsa nel denunciato error in procedendo.
Il secondo motivo di ricorso, con il quale si contesta nel merito la fondatezza dell’assunto
secondo cui il contratto stipulato tra le parti nel 2006 avrebbe comportato una novazione del
rapporto obbligatorio, deve invece ritenersi fondato.
Secondo il costante orientamento della Cassazione, in tema di locazione, non è sufficiente ad
integrare novazione del contratto la variazione della misura del canone o del termine di scadenza,
trattandosi di modificazioni accessorie, essendo invece necessario, oltre al mutamento dell’oggetto o
del titolo della prestazione, che ricorrano gli elementi dell’animus e della causa novandi, il cui
accertamento costituisce compito proprio del giudice di merito insindacabile in sede di legittimità se
logicamente e correttamente motivato (v. ex multis Cass. 13/06/2017, n. 14620; 09/03/2010, n.
5673; 21/05/2007 n. 11672).
Alla luce di tale pacifico indirizzo appare evidente l’errore di sussunzione in cui è incorso il giudice
a quo per avere attribuito rilevanza, ai fini della configurabilità della dedotta novazione, sotto il
profilo oggettivo (aliquid novi), a pattuizioni incidenti su aspetti meramente accessori del rapporto.
E’ appena il caso di rilevare, infatti, che la previsione della risoluzione di diritto in caso di ritardato
pagamento del canone, riguardando situazione meramente eventuale e patologica del rapporto, non
comporta di per sè alcuna modificazione nè dell’oggetto nè del titolo del rapporto locativo.
Quanto al prolungamento di un ulteriore seennio del rapporto, occorre anzitutto rilevare che esso
costituisce riferimento meramente tautologico, essendo affermato in sentenza non già perchè
espressamente previsto nell’accordo del 2006, ma proprio quale conseguenza del postulato carattere
novativo dell’accordo (da esso infatti facendosi discendere che quella del 2012 sarebbe stata non più
la seconda scadenza del rapporto, ove ricondotto a quello preesistente, ma la prima,
conseguentemente restando il rapporto soggetto a rinnovazione tacita con limitata facoltà di disdetta
ai sensi degli artt. 28 e 29 legge eq. can.).
In ogni caso si tratterebbe di effetto incidente, alla stregua della consolidata giurisprudenza sopra
ricordata, su aspetto meramente accessorio del rapporto, come tale inidoneo a rappresentare
effettivamente modifica novativa del suo oggetto.
Tanto meno tale rilevanza può attribuirsi alla prevista maggiore misura dell’aggiornamento Istat del
canone, trattandosi di previsione che, oltre a essere palesemente e incontestatamente nulla per
contrasto con l’art. 32 legge eq. can., incide anch’essa su aspetto del rapporto (ossia l’ammontare del
canone) che, secondo la citata giurisprudenza, non può comunque considerarsi, di per sè solo,
suscettibile di modificazioni tali da integrare novazione del rapporto.
E’ infondato il terzo motivo di ricorso.
L’esistenza tra le parti di un accordo simulatorio circa la misura del canone – opposta da parte della
locatrice, per la prima volta in appello, al fine di contrastare la domanda riconvenzionale del
conduttore di ripetizione del maggior canone versato e chiederne pertanto il rigetto in riforma della
sentenza di primo grado che tale domanda aveva accolto, ancorchè certamente nella specie
configuri prospettazione radicalmente innovativa rispetto alle difese svolte dalla locatrice in primo
grado, configura eccezione in senso lato (v. Cass. 24/06/1998, n. 6272).
Questa, come noto, consiste, secondo la definizione ricavabile con chiarezza dall’art. 2697 c.c.,
nella allegazione (se fatta dalla parte) o nella rilevazione (se fatta d’ufficio dal giudice) di fatti
estintivi, modificativi o impeditivi del diritto dedotto in giudizio.
Come tale essa si sottrae al divieto posto dall’art. 437 c.p.c., comma 2, (parallelo a quello dettato,
per il processo ordinario, dall’art. 345 c.p.c.). Questo, infatti, riguarda le eccezioni non rilevabili
d’ufficio (c.d. eccezioni in senso stretto, che sono quelle riservate all’iniziativa della parte per legge
o perchè corrispondenti alla titolarità di un’azione costitutiva: v., per tale definizione delle eccezioni
in senso stretto, Cass. Sez. U. 03/02/1998, n. 1099; Sez. U. 27/07/2005, n. 15661). Resta tuttavia
ferma, anche per le eccezioni rilevabili d’ufficio, la condizione che si tratti di eccezione dedotta (o
rilevata d’ufficio dal giudice) con riferimento a fatti principali o secondari risultanti dagli atti, dai
documenti o dalle altre prove ritualmente acquisite al processo (non essendo invece necessario,
pena la vanificazione della distinzione tra eccezioni in senso stretto ed eccezioni in senso lato, che
tali fatti fossero, in primo grado, anche oggetto di espressa e tempestiva attività assertiva: v. Cass.
Sez. U. 07/05/2013, n. 10531; Cass. Sez. U. n. 15661 del 2005, cit.; Cass. Sez. U. 25/05/2001, n.
226/SU; v. anche Cass. 26/02/2014, n. 4548; Cass. 31/10/2018, n. 27998).
Nel caso di specie, la Corte d’appello, nell’accogliere tale eccezione, non ha decampato da tali limiti,
avendo deciso sulla base di un fatto – quello, divenuto pacifico in appello, che durante tutto il
rapporto il conduttore aveva corrisposto il canone in misura maggiore rispetto a quello pattuito per
iscritto – certamente risultante dalle stesse ammissioni delle parti ed evidentemente valorizzato a tal
fine, quale elemento indiziario dell’esistenza di un accordo in tal senso le parti.
Come già detto a proposito del primo motivo, diversa questione -di merito, non processuale – è se
tale elemento presuntivo giustificasse effettivamente oppure no l’inferenza trattane dalla Corte
d’appello, restando però comunque escluso che, per aver attribuito detta valenza a quel fatto
risultante ex actis, la Corte sia incorsa nel denunciato error in procedendo.
Il quarto motivo è fondato, nei termini appresso precisati.
10.1. Come sopra esposto (p. 4) il motivo si articola in tre diverse sub-censure, chiaramente
distinguibili all’interno della pur ampia e complessa censura, dovendosi pertanto disattendere
l’eccezione di inammissibilità che, sulla opposta ma non condivisibile premessa della
sovrapposizione di censure incompatibili, è preliminarmente per esso dedotta in controricorso (v.
Cass. Sez. U 24/07/2013, n. 17931).
10.2. Con la prima di tali censure, il ricorrente in sostanza lamenta che, in presenza di contratto
scritto di locazione, quello del 2000, indicativo di una certa misura del canone, l’affermazione –
opposta dalla odierna resistente, in primo grado, al fine di paralizzare la domanda riconvenzionale
del conduttore di ripetizione di indebito -dell’esistenza di un coevo separato accordo tra le parti,
circa l’obbligo di versare un canone reale pari al doppio, equivaleva in sostanza all’affermazione di
una simulazione relativa del contratto scritto, con riferimento al canone, e ne richiedeva pertanto la
prova nel rispetto dei limiti dettati dagli artt. 1414 ss. e 2722 c.c.. Limiti che, invece, la Corte
territoriale non avrebbe rispettato avendo in sostanza valorizzato il solo dato fattuale dell’effettivo
versamento, da parte del conduttore, nel corso del rapporto, del preteso canone maggiore.
Tale doglianza è fondata, rimanendo conseguentemente assorbito l’esame delle altre ragioni di
critica pure esposte nella ampia illustrazione del motivo.
In tema di prova della simulazione nei rapporti tra le parti (arg. a contrario dall’art. 1417 c.c., che la
prova per testi senza limiti ammette solo se la domanda è proposta da creditori o da terzi ovvero
quando essa, anche se proposta dalle parti, sia diretta a far valere l’illiceità del contratto), se il
negozio è stato redatto per iscritto vale la regola generale della limitazione dell’ammissibilità delle
prove testimoniali (e dunque anche di quella per presunzioni, giusta il disposto dell’art. 2729 c.c.,
comma 2), onde, sia per la simulazione assoluta che per quella relativa, la prova può essere data –
ove, come nella specie, si assuma che si tratti di patto coevo -soltanto in base a controdichiarazioni
(art. 2722 c.c.; v., in tema di simulazione relativa del contratto di locazione, con riferimento al
canone, Cass. 15/01/2003, n. 471).
La Corte d’appello non si è attenuta a tale regola di giudizio, avendo in effetti dato per scontato che,
“atteso che fin dall’origine l’importo corrisposto… ammontava ad Euro 775” (v. sentenza, pagg. 6, in
fine, e 7, primo cpv.), tale importo fosse stato “certamente concordato tra le parti”: con ciò dunque
chiaramente ricavando la prova della simulazione dal comportamento stesso delle parti, laddove
avrebbe dovuto invece valutare l’esistenza a tal fine di prova di diverso tipo e, dunque, in sostanza,
di una controdichiarazione scritta.
Nè – giova aggiungere, ancorchè la sentenza non ne faccia cenno – potrebbe attribuirsi il valore di
“principio di prova scritta” (legittimante, ai sensi dell’art. 2724 c.c., n. 1, il ricorso alla prova per
testi o per presunzioni) alle ricevute che, qualche volta, eccezionalmente, vennero consegnate al
conduttore per un importo pari a quello effettivamente corrisposto.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, infatti, in tema di simulazione del contratto, il principio
di prova scritta che, ai sensi dell’art. 2724 c.c., n. 1, consente eccezionalmente la prova per testi (e,
quindi, presuntiva) deve consistere in uno scritto, proveniente dalla persona contro la quale la
domanda è diretta, diverso dalla scrittura le cui risultanze si intendono così sovvertire e contenente
un qualche riferimento al patto che si deduce in contrasto con il documento (Cass. 03/06/2016, n.
11467; 22/03/1990, n. 2401).
10.3. L’accoglimento della censura testè considerata, come detto, è assorbente rispetto a tutte le altre
del quarto motivo.
Mette conto tuttavia rimarcare ad abundantiam – per la rilevanza della questione posta – la
fondatezza anche della seconda censura (v. supra p. 4, lett. b).
A tale conclusione deve giungersi, per le ragioni qui di seguito esposte, alla luce del (e in coerenza
con) principio affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte con sentenza n. 23601 del 09/10/2017,
secondo cui “è nullo il patto col quale le parti di un contratto di locazione di immobili ad uso non
abitativo concordino occultamente un canone superiore a quello dichiarato; tale nullità vitiatur sed
non vitiat, con la conseguenza che il solo patto di maggiorazione del canone risulterà
insanabilmente nullo, a prescindere dall’avvenuta registrazione”.
10.3.1. La sanzione di nullità dell’accordo dissimulato sul maggior canone, il suo radicamento
positivo nella previsione di cui alla L. n. 392 del 1978, art. 79, l’affermata sua insanabilità per
effetto di una successiva registrazione, trovano giustificazione, in tale arresto, nei seguenti passaggi
argomentativi che giova brevemente ripercorrere:
a) il principio di tendenziale non interferenza tra le regole di diritto tributario e quelle attinenti alla
validità civilistica degli atti, recepito nella L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10, comma 3, ha trovato
nel tempo, nella specifica materia locatizia, non consonanti interventi normativi prevedenti nullità
testuali a presidio dell’osservanza degli obblighi tributari (L. n. 431 del 1998, art. 13, comma 1, a
mente del quale “è nulla ogni pattuizione volta a determinare un importo del canone di locazione di
immobili urbani superiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato”; L. 30 dicembre 2004,
n. 311, art. 1, comma 346, che ha stabilito che “i contratti di locazione, o che comunque
costituiscono diritti relativi di godimento, di unità immobiliari ovvero di loro porzioni, comunque
stipulati, sono nulli se, ricorrendone i presupposti, essi non sono registrati”; viene anche ricordato,
benchè non più in vigore, D.Lgs. 14 marzo 2011, n. 23, art. 3, commi 8 e 9, il quale aveva previsto
un particolare regime in caso di omessa o tardiva registrazione del contratto di locazione, nonchè in
caso di registrazione di un contratto di comodato fittizio e di una locazione recante un canone
inferiore rispetto a quello realmente pattuito);
b) investita più volte della questione di legittimità costituzionale di tali norme, la Corte
costituzionale ha dichiarato manifestamente inammissibili o infondate quelle riguardanti L. n. 431
del 1998, art. 13, comma 1 (ord. n. 242 del 2004) e L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 346 (ord. n.
420 del 2007), in tale ultima occasione in particolare affermando che la norma censurata “eleva la
norma tributaria al rango di norma imperativa, la violazione della quale determina la nullità del
negozio ai sensi dell’art. 1418 c.c.”: passaggio questo che lasciava intendere o comunque non
escludeva che la nullità ivi prevista non fosse propriamente o soltanto una nullità testuale (art. 1418
c.c., comma 3) ma potesse intendersi anche come nullità virtuale (art. 1418 c.c., comma 1) per
contrarietà a norme imperative;
c) la giurisprudenza di legittimità ha a sua volta a lungo adottato un orientamento tendente a negare
che la norma fiscale avesse carattere imperativo, conseguentemente affermando un principio di non
interferenza fra le regole del diritto tributario e quelle attinenti alla validità civilistica degli atti, e
tale indirizzo ha mantenuto fermo anche dopo l’introduzione, con la L. n. 431 del 1998, art. 13,
comma 1, della sanzione della nullità di ogni pattuizione volta a determinare un importo del canone
di locazione superiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato nelle locazioni abitative
(conseguentemente fatta oggetto di una interpretazione restrittiva in termini di mera invariabilità
successiva della pattuizione sul canone: Cass. n. 16089 del 2003 e succ. conformi); tale
orientamento è stato però radicalmente rivisto da Cass. Sez. U n. 18213 del 2015 che -nell’affermare
che la nullità prevista dalla L. n. 431 del 1998, art. 13, comma 1, sanziona esclusivamente il patto
occulto di maggiorazione del canone e non è sanabile dalla registrazione tardiva – muove dalla
premessa che si tratti non solo di nullità testuale ma, in parte qua, anche virtuale, attesa la causa
concreta del patto occulto, illecita perchè caratterizzata dalla vietata finalità di elusione fiscale e,
quindi, insuscettibile di sanatoria;
d) si è dunque affermata nella giurisprudenza di questa Corte una diversa linea di pensiero che, sulla
scorta di “indicazioni… di carattere storico-sistematico ed etico-costituzionale”, tende a riconoscere
che “le disposizioni di legge successive al 1998 introducono un principio generale di
inferenza/interferenza dell’obbligo tributario con la validità del negozio, principio generale di cui è
sostanziale conferma nel dictum dello stesso giudice delle leggi (Corte Cost. 420 del 2007)”;
principio che non può ritenersi contrastato dalla previsione di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 10,
comma 3, ultimo inciso, (a mente del quale “le violazioni di disposizioni di rilievo esclusivamente
tributario non possono essere causa di nullità del contratto”), atteso che si è al cospetto di
disposizioni che, circoscritte al solo ambito delle locazioni (e dunque leges speciales), non
costituiscono prescrizioni di esclusivo carattere tributario, ma introducono regole di diritto civile,
comminando una speciale nullità nei rapporti tra privati, sia pure per effetto di una violazione di
carattere tributario, come autorevolmente sostenuto dallo stesso giudice delle leggi;
e) tale chiave di lettura del sistema assume particolare rilievo nel caso – quale quello all’esame delle
Sezioni Unite nell’arresto che qui si sta richiamando – di doppia pattuizione del canone, l’una
indicata in un contratto simulato e registrato, l’altra (maggiore) specificata in un atto dissimulato e
non registrato;
f) al riguardo, esclusa la possibilità di assimilare sul piano morfologico e degli effetti civilistici
l’ipotesi di totale omissione della registrazione del contratto contenente ab origine l’indicazione del
canone realmente dovuto (in assenza, pertanto, di qualsivoglia procedimento simulatorio) e quella
di simulazione del canone con registrazione del solo contratto simulato recante un canone inferiore,
cui acceda il c.d. “accordo integrativo” con canone maggiorato, l’esame di tale ultima fattispecie
dalla prospettiva dell’accordo simulatorio consente di far emergere il vizio da cui essa è affetta:
“vizio genetico, attinente alla sua causa concreta, inequivocabilmente volta a perseguire lo scopo
pratico di eludere (seppure parzialmente) la norma tributaria sull’obbligo di registrazione dei
contratti di locazione”;
g) ne consegue che “se tale norma tributaria si ritiene essere stata elevata a “rango di norma
imperativa”, come sembra suggerire l’evoluzione normativa e giurisprudenziale più recente e come
precisato dalla stessa Corte costituzionale, deve concludersi che la convenzione negoziale sia
intrinsecamente nulla, oltre che per essere stato violato parzialmente nel quantum l’obbligo di
(integrale) registrazione, anche perchè ab origine caratterizzata da una causa illecita per contrarietà
a norma imperativa (ex art. 1418 c.c., comma 1) tale essendo costantemente ritenuto lo stesso art.
53 Cost., la cui natura di norma imperativa (come tale, direttamente precettiva) è stata, già in tempi
ormai risalenti, riconosciuta dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 5 del 1985; Cass. ss. uu.
n. 6445 del 1985)”;
h) ne discende ulteriormente che, “trattandosi di un vizio riconducibile al momento genetico del
contratto, e non (soltanto) ad un mero inadempimento successivo alla stipula… deve allora
ravvisarsi la diversa ipotesi di una nullità virtuale, secondo la concezione tradizionale di tale
categoria – e, quindi, tradizionalmente insanabile ex art. 1423 c.c.: in tal caso, infatti, la nullità
deriva non dalla mancata registrazione (situazione suscettibile di essere sanata con il tardivo
adempimento), ma, a monte, dall’illiceità della causa concreta del negozio, che una tardiva
registrazione non appare idonea a sanare”;
i) se in caso di omessa registrazione del contratto contenente la previsione di un canone non
simulato ci si trova di fronte ad una nullità testuale L. n. 311 del 2004, ex art. 1, comma 346,
sanabile con effetti ex tunc a seguito del tardivo adempimento all’obbligo di registrazione, nel caso
di simulazione relativa del canone di locazione, e di registrazione del contratto contenente la
previsione di un canone inferiore per finalità di elusione fiscale, si è in presenza, quanto al c.d.
“accordo integrativo”, di una nullità virtuale insanabile, ma non idonea a travolgere l’intero rapporto
compreso, quindi, il contratto reso ostensibile dalle parti a seguito della sua registrazione (v.
sentenza citata, par. 25);
l) in tale contesto ricostruttivo L. n. 392 del 1978, art. 79, assume rilievo di norma speculare a
quella di cui alla L. n. 431 del 1998, art. 13, comma 1, previa analoga revisione dell’esegesi
tradizionale (secondo cui la sanzione di nullità in essa prevista ha riguardo alle sole vicende
funzionali del rapporto, colpendo, pertanto, le sole maggiorazioni del canone previste in itinere e
diverse da quelle consentite ex lege, e non anche quelle convenute al momento della conclusione
dell’accordo) nel senso che il patto di maggiorazione del canone è nullo anche se la sua previsione
attiene al momento genetico, e non soltanto funzionale, del rapporto.
10.3.2. Questa Corte ha avuto già occasione di rimarcare che, benchè la ripercorsa pronuncia delle
Sezioni Unite riguardi fattispecie riferita a contratto stipulato in data 20/10/2008, successiva dunque
all’entrata in vigore della L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 346, nondimeno proprio l’operata
distinzione tra la nullità testuale (sancita da quest’ultima disposizione in conseguenza della omessa
registrazione, violazione extraformale) e la nullità virtuale (discendente dal vizio genetico del patto
determinato dallo scopo elusivo perseguito con la simulazione e dalla sua contrarietà alla norma
tributaria imperativa che impone l’obbligo di registrazione del contratto) e il rilievo autonomo
attribuito comunque a quest’ultima, consentono di ritenere che il principio debba applicarsi anche a
contratti di locazione non abitativa che siano stati stipulati anteriormente alla entrata in vigore della
citata L. n. 311 del 2004 (v. Cass. 02/03/2018, n. 4922).
Anche in tal caso, infatti, non è dubitabile che l’accordo simulatorio trovi la sua causa concreta
(scopo pratico) nella finalità di eludere il fisco, sottraendo il maggior canone dissimulato realmente
pattuito all’erario (non soltanto all’imposta di registro, ma anche a quella sui redditi); anche in tal
caso, dunque, l’accordo si pone in contrarietà con norma, certamente ad esso preesistente, che
impone l’obbligo di registrazione (integrale, fedele) dei contratti di locazione.
A tale norma, in virtù della descritta evoluzione ermeneutica, deve riconoscersi carattere imperativo
e idoneità pertanto a incidere sulla validità degli atti civili che con essa si pongono in contrasto, ai
sensi e per gli effetti dell’art. 1418 c.c., comma 1.
Non si tratta, pertanto, di fare una non consentita applicazione retroattiva della L. n. 311 del 2004,
art. 1, comma 346, bensì di applicare norme preesistenti sia pure alla luce di una mutata
interpretazione della loro forza ed espansività nella gerarchia dei principi dell’ordinamento e della
conseguente loro incidenza sulla validità degli atti negoziali privatistici.
Del resto, come opportunamente rimarcato dalle Sezioni Unite (v. sentenza citata, paragrafi da 13.2
a 13.3), la norma di cui alla L. cit., art. 1, comma 346, quand’anche fosse applicabile, non potrebbe
comunque svolgere un ruolo diretto ai fini della configurazione di una nullità (testuale) del descritto
accordo simulatorio. Manca, invero, per le locazioni non abitative, una norma analoga a quella
dettata per le locazioni abitative della L. n. 431 del 1998, art. 13, comma 1, che sancisca la nullità
testuale del patto di maggiorazione del canone. “La nullità è, di converso, stabilita per l’intero
contratto (e non per il solo patto controdichiarativo), in conseguenza non già di un vizio
endonegoziale, ma (della mancanza) di un requisito extraformale costituito dall’omissione della
registrazione del contratto” (v. sentenza citata, par. 13.3).
La nullità (virtuale) dell’accordo simulatorio (in sè e con i visti diversi effetti) resta dunque, ripetesi,
legata (solo) alla illiceità dello scopo pratico perseguito, certamente ravvisabile anche prima
dell’entrata in vigore della L. n. 311 del 2004, per contrarietà con norma cardine dell’ordinamento,
cui non può non riconoscersi carattere imperativo anche in epoca antecedente alla detta evoluzione
legislativa (da intendersi solo quale motivo o occasione, per l’interprete, di una diversa prospettiva
storico – ricostruttiva e di una mutata sensibilità etico-costituzionale).
Non sfugge che tale soluzione rende ancor più accentuata, per i contratti anteriori alla L. n. 311 del
2004, la disparità di disciplina rispetto all’ipotesi di totale omissione della registrazione del contratto
(non sanzionata da alcuna nullità, non essendo detta legge retroattiva), ma anche in tal caso vale
quanto rilevato dalle Sezioni Unite con riferimento al diverso regime della nullità testuale L. cit., ex
art. 1, comma 346 e della nullità virtuale, e cioè che “la diversità di conseguenze può trovare una
congrua spiegazione nella maggiore gravità del vizio che inficia le ipotesi simulatorie rispetto a
quelle in cui manchi la registrazione del contratto tout court: un vizio genetico e voluto da entrambe
le parti nel primo caso, un inadempimento successivo alla stipula di un contratto geneticamente
valido, nel secondo caso”.
10.3.3. Proprio tale ultima considerazione rende evidente che nessun rilievo scriminante, nella
valutazione della validità del patto dissimulato sul canone, può assegnarsi al fatto che, nell’ipotesi in
esame, diversamente da quello considerato da Cass. n. 4922 del 2018 e da Cass. Sez. U n. 23601 del
2017, il contratto simulato non era stato registrato.
Come s’è detto, infatti, il fatto che il contratto pretesamente simulato, benchè non registrato, sfugga
alla sanzione di nullità prevista dalla citata L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 346, per essere stato
stipulato anteriormente alla sua entrata in vigore, non impedisce, infatti, di rilevare la causa di
nullità nel coevo patto dissimulato di maggior canone, anche in tal caso potendo in esso (e solo in
esso, non anche nel contratto apparente) certamente ravvisarsi il vizio genetico incidente sulla causa
dello stesso, rappresentato dalla finalità di elusione fiscale.
L’esame del quinto motivo di ricorso, rimane a sua volta assorbito.
L’esistenza di un controcredito ben maggiore rispetto a quello rappresentato dai canoni non versati
(la cui entità peraltro deve ritenersi permanere, anche dopo il 2006, nella misura concordata nel
2000, essendo la successiva pattuizione, del cui carattere non novativo si è già detto, nulla per
violazione dell’art. 79 legge eq. can.) vale di per sè ad escludere la sussistenza, in alcuna misura,
della dedotta morosità.
E’ infine inammissibile l’unico motivo di ricorso incidentale condizionato.
La questione con esso posta è rimasta assorbita nella sentenza impugnata e su di essa dovrà
nuovamente pronunciarsi il giudice di rinvio (il quale peraltro dovrà, ovviamente, a tal fine tener
conto del principio affermato supra al p. 8 e delle ragioni, ivi esposte, che hanno condotto
all’accoglimento del secondo motivo del ricorso principale).
Come tale essa non è suscettibile di essere posta ad oggetto di ricorso incidentale condizionato,
presupponendo pur sempre esso la soccombenza della parte che lo propone (v. Cass. 13/07/2018, n.
18648; n. 22095 del 22/09/2017; n. 4472 del 07/03/2016; n. 574 del 15/01/2016; n. 6572 del
03/12/1988; n. 767 del 09/02/1982; n. 1980 del 07/04/1981).
In accoglimento del secondo e del quarto motivo del ricorso principale, nei termini di cui sopra,
la sentenza impugnata va pertanto cassata, con rinvio al giudice a quo, al quale va anche demandato
il regolamento delle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
accoglie il secondo e il quarto motivo del ricorso principale, nei termini di cui in motivazione;
rigetta il primo e il terzo; assorbito il quinto; dichiara inammissibile il ricorso incidentale
condizionato; cassa la sentenza in relazione ai motivi accolti; rinvia alla Corte di appello di
Roma in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di
legittimità.
Così deciso in Roma, il 7 febbraio 2020.
Depositato in Cancelleria il 13 ottobre 2020.