Sentenza, Corte Suprema di Cassazione, III Sezione Penale, 6 novembre 2020, n. 30930, Coltivazione – Sostanza stupefacente:

In questa occasione i giudici di legittimità, conformandosi alla precedente giurisprudenza di questa Corte, hanno ribadito che, in base al principio della offensività in concreto,  è configurabile il reato di coltivazione di stupefacenti indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, essendo necessaria: A) la conformità della pianta al tipo botanico disciplinato; B) la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente. Pertanto, la coltivazione domestica di sostanza stupefacente non integra reato qualora sia volta al consumo esclusivamente personale. Ciò è desumibile dal numero modesto di piante, dalle tecniche rudimentali di coltivazione usate e dal modesto quantitativo estratto.

Corte Suprema di Cassazione, III Sezione Penale, 6 novembre 2020, n. 30930:

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. RAMACCI Luca – Presidente –
Dott. ANDREAZZA Gastone – Consigliere –
Dott. SOCCI Angelo M. – Consigliere –
Dott. LIBERATI Giovanni – Consigliere –
Dott. CORBETTA Stefano – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
N.D., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 21/12/2018 della Corte di appello di Roma;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. Stefano Corbetta;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dr. Filippi
Paola, che ha concluso chiedendo l’inammissibilità dei ricorso;
udito il difensore, avv. Paola Armellini del foro di Roma, che ha concluso chiedendo
l’accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo

Con l’impugnata sentenza, la Corte di appello di Roma confermava la decisione
resa dal Tribunale di Roma all’esito del giudizio abbreviato e appellata dall’imputato,
la quale, qualificato il fatto ai sensi del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5,
ritenuta la continuazione e applicate le circostanze attenuanti generiche e la
riduzione per il rito, aveva condannato N.D. alla pena di un anno e quattro mesi di
reclusione e tremila Euro di multa, per aver detenuto, a fine di spaccio, 7 gr. di
cocaina, 5,2 gr. di marijuana e 2,4 gr. di ecstasy, nonchè per aver coltivato una
piantina di marijuana dell’altezza di circa un metro.

Avverso l’indicata sentenza, l’imputato, per il tramite del difensore di fiducia,
propone ricorso per cassazione, affidato a sei motivi.
2.1. Con il primo motivo si deduce la violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b)
ed e) in relazione all’art. 49 c.p. e D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 26, 28, 73 e 75, L. n.
262 del 2016, artt. 2 e 4. Il ricorrente, in primo luogo, censura la sentenza
impugnata, laddove non ha tenuto conto della L. 2 dicembre 2016, n. 242, che
disciplina la coltivazione della canapa, introducendo un limite di tolleranza, pari allo
0,6% di THC, che, nella specie, sarebbe superato di appena 0,1%. Sotto altro
profilo, si contestano la tipicità e, soprattutto, l’offensività della condotta, trattandosi
di un’unica piantina, tenuta sul balcone, coltivata in maniera rudimentale e diretta
all’uso personale per effettuare esperimenti culinari, essendo il N. un cuoco.
2.2. Con il secondo motivo si eccepisce la violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1,
lett. b) e c) in relazione al D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 73 e 75. In relazione alla
contestata detenzione di cocaina, ad avviso del ricorrente la Corte territoriale
avrebbe erroneamente escluso la sussumibilità del fatto nell’ipotesi di “consumo di
gruppo”, come risulta dalle dichiarazioni dei testi C. e L., la cui deposizione viene
riportata, per stralcio, nel corso del ricorso. Aggiunge il ricorrente che la custodia
dello stupefacente, in capo a un solo membro del gruppo, non escluderebbe tale
utilizzo comune, da effettuarsi in più occasioni.
2.3. Con il terzo motivo si lamenta la violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b)
e c) in relazione al D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 73 e 75. Con riguardo alle residue
sostanze stupefacenti, ossia la marijuana e la metanfetamina, secondo il ricorrente
la Corte territoriale avrebbe erroneamente escluso la detenzione per uso personale,
non valutando l’esiguità delle sostanze, peraltro con percentuali di purezza non
omogenee, ciò che sarebbe indicativo dell’acquisto in tempi diversi per utilizzo
personale, essendo il N. un consumatore abituale di tali sostanze, come egli stesso
ha ammesso in sede di esame. In senso contrario, non sarebbe decisivo il
frazionamento delle dosi, pure compatibile con l’uso personale, e considerando che
il N. svolge l’attività di cuoco, che gli consente di approvvigionarsi di dette sostanze.
2.4. Con il quarto motivo si lamenta la violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett.
b) in relazione all’art. 131-bis c.p. Ad avviso del ricorrente, nel caso in esame
sussisterebbero i presupposti per il riconoscimento della causa di non punibilità in
esame, essendo l’imputato incensurato e stante la non particolare gravità della
condotta.
2.5. Con il quinto motivo si censura la violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b)
ed e) in relazione all’art. 240 c.p..
Il ricorrente censura la sentenza impugnata laddove ha confermato la confisca del
denaro, nonostante non sia emerso che tale somma fosse provento dell’attività di
spaccio, e risultando provato che il N. svolge regolare attività lavorativa come cuoco.
2.6. Con il sesto motivo si deduce la violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b)
in relazione agli artt. 175 e 133 c.p..
Sostiene il ricorrente che la Corte territoriale, per un verso, avrebbe negato i
presupposti per il riconoscimento della non menzione valutando un elemento che
non rientra tra i parametri dell’art. 133 c.p. e, per altro verso, non avrebbe
adeguatamente motivato in ordine alla pena inflitta.
Motivi della decisione

Il ricorso è fondato con riferimento agli ultimi due motivi.

Il primo motivo è infondato.

In primo luogo va sgombrato il campo da un equivoco: la L. 2 dicembre 2016, n.
242, recante “Disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera
agroindustriale della canapa”, evocata dal ricorrente, non trova applicazione nel
caso di coltivazione “domestica” di canapa.
La legge, infatti, persegue lo scopo, espressamente dichiarato dall’art. 1, comma 1,
di sostenere e promuovere la coltivazione e la filiera della canapa (Cannabis sativa
L.) “quale coltura in grado di contribuire alla riduzione dell’impatto ambientale in
agricoltura, alla riduzione del consumo dei suoli e della desertificazione e alla perdita
di biodiversità, nonchè come coltura da impiegare quale possibile sostituto di colture
eccedentarie e come coltura da rotazione”.
La finalità della legge, quindi, è quella di incentivare e di sostenere la coltivazione
della canapa in vista dei suoi molteplici utilizzi in ambito agro-industriale, senza,
quindi, interferire con il mercato illecito finalizzato al consumo di quella sostanza, la
quale contiene Delta-9-tetraidrocannabinolo e Delta-8-trans-tetraidrocannabinolo (di
seguito THC), principiò attivo che, se superiore a un determinato dosaggio, provoca
effetti stupefacenti e psicotropi, ciò che comporta la configurabilità dell’indicato
delitto previsto dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73.

Ciò chiarito, la Corte territoriale ha confermato il giudizio di penale responsabilità
appellandosi all’orientamento espresso da questa Corte di legittimità, secondo cui ai
fini della punibilità della coltivazione non autorizzata di piante dalle quali sono
estraibili sostanze stupefacenti, l’offensività della condotta consiste nella sua
idoneità a produrre la sostanza per il consumo, attese la formulazione delle norme e
la ratio della disciplina, anche comunitaria, in materia, sicchè non rileva la quantità di
principio attivo ricavabile nell’immediatezza, ma la conformità della pianta al tipo
botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a
giungere a maturazione e a produrre la sostanza stupefacente (Sez. 6, n. 22459 del
15/03/2013 – dep. 24/05/2013, Cangemi, Rv. 255732). Di conseguenza, non è
configurabile il reato di coltivazione non autorizzata di piante dalle quali sono
estraibili sostanze stupefacenti se la condotta sia inoffensiva, cioè assolutamente
inidonea a ledere i beni giuridici tutelati dalla norma incriminatrice (Sez. 3, n. 21120
del 31/01/2013 – dep. 16/05/2013, Colamartino, Rv. 255427) In applicazione di tali
principi, la Corte territoriale ha perciò ritenuto la concreta offensività della condotta,
essendo stato accertato un contenuto di thc presente nella pianta sequestrata
idoneo al confezionamento di 200 dosi medie singole.

Va rilevato che, dopo la pronuncia della sentenza impugnata, sulla questione sono
intervenute le Sezioni Unite di questa Corte di legittimità, le quali hanno affermato i
seguenti principi di diritto: non integra il reato di coltivazione di stupefacenti, per
mancanza di tipicità, una condotta di coltivazione che, in assenza di significativi
indici di un inserimento nel mercato illegale, denoti un nesso di immediatezza
oggettiva con la destinazione esclusiva all’uso personale, in quanto svolta in forma
domestica, utilizzando tecniche rudimentali e uno scarso numero di piante, da cui
ricavare un modestissimo quantitativo di prodotto (C SU n. 12348 del 19/12/2019,
dep. il 16/04/2020, Caruso, Rv. 278624-01); il reato di coltivazione di stupefacenti è
configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo estraibile
nell’immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico
previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a
maturazione e a produrre sostanza ad effetto stupefacente (C SU n. 12348 del
19/12/2019, cit., Rv. 278624-02).

In motivazione le Sezioni Unite hanno sviluppato un duplice ordine di
argomentazioni.
6.1. In primo luogo hanno escluso dal perimetro della tipicità la coltivazione svolta in
forma “domestica” che, in relazione agli indici del caso concreto (quali, ad esempio,
la rudimentalità delle tecniche, l’esiguità del numero di piantine, il modestissimo
quantitativo di prodotto ricavabile, l’assenza di ulteriori indici indicativi di uno stabile
inserimento del marcato degli stupefacenti), appare destinata a produrre sostanza
stupefacente destinata all’uso esclusivamente personale del coltivatore.
Invero, secondo le Sezioni Unite “l’irrilevanza penale della coltivazione di minime
dimensioni, finalizzata esclusivamente al consumo personale, deve (…) essere
ancorata, non alla sua assimilazione alla detenzione e al regime giuridico di
quest’ultima, ma, più linearmente, alla sua non riconducibilità alla definizione di
coltivazione come attività penalmente rilevante; dandosi, così, un’interpretazione
restrittiva della fattispecie penale”. La Corte ha perciò ritenuto che l’affermazione,
ricorrente in una parte della giurisprudenza, secondo cui la coltivazione, a differenza
della detenzione, è attività suscettibile di creare nuove e non predeterminabili
disponibilità di stupefacenti “non si attaglia alle coltivazioni domestiche di minime
dimensioni, intraprese con l’intento di soddisfare esigenze di consumo personale,
perchè queste hanno, per definizione, una produttività ridottissima e, dunque,
insuscettibile di aumentare in modo significativo la provvista di stupefacenti”.
6.2. Sotto il profilo dell’offensività dell’attività di coltivazione, la Corte ha precisato
che “il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla
quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, essendo sufficiente la
conformità della pianta al tipo botanico pre/;isto e la sua attitudine, anche per le
modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e produrre sostanza
stupefacente. E per coltivazione dovrà intendersi l’attività svolta dall’agente in ogni
fase dello sviluppo della pianta, dalla semina fino al raccolto”.
Ad avviso della Corte, “la verifica dell’offensività in concreto deve essere diversificata
a seconda del grado di sviluppo della coltivazione al momento dell’accertamento”; e
quindi, nel caso in cui il ciclo delle piante sia completato, l’accertamento deve avere
per oggetto l’esistenza di una quantità di principio attivo necessario a produrre
effetto drogante; in relazione alle fasi precedenti, rileva penalmente la coltivazione a
qualsiasi stadio della pianta che corrisponda al tipo botanico, purchè si svolga in
condizioni tali da potersene prefigurare il positivo sviluppo a giungere a maturazione
e a produrre un effetto drogante.

Nel caso di specie, la motivazione della Corte territoriale, pur facendo
applicazione del precedente orientamento giurisprudenziale affermato dalla
sentenza di Di Salvia, appare in linea con i principi enunciati dalla sentenza Caruso,
in quanto la pianta sequestrata, per grado di sviluppo e dimensioni (alta circa un
metro), era concretamente idonea a produrre 200 dosi medie, ritenute destinate allo
spaccio, in considerazione del rinvenimento sia della strumentazione atta al
confezionamento (bilancino di precisione, trita erba, ritagli di buste di plastica,
coltelli), sia di sostanza stupefacente di altra tipologia (cocaina e MDMA).

Il secondo motivo è manifestamente infondato perchè fattuale e generico.
8.1. La Corte territoriale si è correttamente appellata al principio, fissato dalla Sezioni
Unite di questa Corte di legittimità, secondo cui, anche all’esito delle modifiche
apportate dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49 al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, il
c.d. “consumo di gruppo” di sostanze stupefacenti, sia nell’ipotesi di acquisto
congiunto, che in quella di mandato all’acquisto collettivo ad uno dei consumatori,
non è penalmente rilevante, ma integra l’illecito amministrativo sanzionato dal cit.
D.P.R., art. 75, a condizione che: a) l’acquirente sia uno degli assuntori; b) l’acquisto
avvenga sin dall’inizio per conto degli altri componenti del gruppo; c) sia certa sin
dall’inizio l’identità dei mandanti e la loro manifesta volontà di procurarsi la sostanza
per mezzo di uno dei compartecipi, contribuendo anche finanziariamente all’acquisto
(Sez. U, n. 25401 del 31/01/2013 – dep. 10/06/2013, p.c. in proc. Galluccio, Rv.
25525801).
8.2. Nel caso in esame, la Corte territoriale, con apprezzamento fattuale logicamente
motivato, ha ritenuto che non fossero soddisfatti i requisiti dinanzi indicati per
configurare l’ipotesi del “consumo di gruppo”, considerando, per un verso, che le
affermazioni dei testi sono state estremamente generiche – e ciò non può essere
contrastato con la riproduzione parziale, nel ricorso, delle dichiarazioni di alcuni testi,
non essendo stato peraltro dedotto il vizio di travisamento della prova – e, per altro
verso, che la prospettazione del consumo di gruppo è smentita dal rinvenimento
presso l’abitazione del N., di un quantitativo di cocaina, che, evidentemente, non era
stata consumata.

Il terzo motivo è infondato.
9.1. Va premesso che, in materia di stupefacenti, la prova della destinazione a uso
non esclusivamente personale della droga va desunta da una serie di indici
sintomatici, quali: la quantità dello stupefacente, la qualità soggettiva di
tossicodipendente, le condizioni economiche del detentore, le modalità di custodia e
di frazionamento della sostanza, il ritrovamento di sostanze e di mezzi idonei al
taglio, il luogo e le modalità di custodia.
Come si è precisato nella giurisprudenza di legittimità, anche il possesso di un
quantitativo di droga superiore al limite tabellare previsto dal D.P.R. n. 309 del 1990,
art. 73, comma 1-bis, lett. a), se da solo non costituisce prova decisiva dell’effettiva
destinazione della sostanza allo spaccio, può comunque legittimamente concorrere
a fondare, unitamente ad altri elementi, tale conclusione (Sez. 6, n. 11025 del
06/03/2013 – dep. 08/03/2013, De Rosa e altro, Rv. 255726, la quale ha rigettato il
ricorso avverso la decisione del giudice di merito che aveva ritenuto l’illiceità penale
della detenzione dell’equivalente di 27,5 dosi di eroina anche in considerazione della
accertata incapacità economica dell’imputato ai fini della costituzione di “scorte” per
uso personale).
Conseguentemente, la valutazione in ordine alla destinazione della droga, ogni
qualvolta la condotta non appaia indicativa della immediatezza del consumo, deve
essere effettuata dal giudice di merito tenendo conto di tutte le circostanze oggettive
e soggettive del fatto, secondo parametri di apprezzamento sindacabili in sede di
legittimità soltanto sotto il profilo della mancanza o della manifesta illogicità della
motivazione. (Sez. 4, n. 7191 del 11/01/2018 – dep. 14/02/2018, Gjoka, Rv. 272463).
9.2. Nel caso di specie, i giudici di merito hanno fatto corretta applicazione dei
principi indicati, ritenendo raggiunta la prova della finalità dello spaccio della droga
da una serie di elementi, globalmente valutati, quali la diversa tipologia di sostanza
stupefacente, la suddivisione in dosi termosaldate della marijuana e della MDMA, il
rinvenimento di due bilance di precisione e del materiale per il confezionamento
delle dosi. Si tratta di una motivazione non manifestamente illogica, che supera il
vaglio di legittimità.

Il quarto motivo è manifestamente infondato.
10.1. La speciale causa di non punibilità prevista dall’art. 131-bis c.p., applicabile, ai
sensi del comma 1, ai soli reati per i quali è prevista una pena detentiva non
superiore, nel massimo, a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta
alla predetta – è configurabile in presenza di una duplice condizione, essendo
congiuntamente richieste la particolare tenuità dell’offesa e la non abitualità del
comportamento. Il primo dei due requisiti richiede, a sua volta, la specifica
valutazione della modalità della condotta e dell’esiguità del danno o del pericolo, da
valutarsi sulla base dei criteri indicati dall’art. 133 c.p., cui segue, in caso di vaglio
positivo – e dunque nella sola ipotesi in cui si sia ritenuta la speciale tenuità
dell’offesa -, la verifica della non abitualità del comportamento, che il legislatore
esclude nel caso in cui l’autore del reato sia stato dichiarato delinquente abituale,
professionale o per tendenza, ovvero abbia commesso più reati della stessa indole,
anche se ciascun fatto, isolatamente considerato sia di particolare tenuità, nonchè
nel caso in cui si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e
reiterate.
10.2. Con riferimento, in particolare, alla speciale tenuità dell’offesa, come affermato
dalle Sezioni Unite di questa Corte, il giudizio sulla tenuità del fatto richiede una
valutazione complessa che prenda in esame tutte le peculiarità della fattispecie
concreta riferite alla condotta in termini di possibile disvalore e non solo di quelle che
attengono all’entità dell’aggressione del bene giuridico protetto, che comunque
ricorre senza distinzione tra reati di danni e reati di pericolo (Sez. U, n. 13681 del
25/02/2016 – dep. 06/04/2016, Tushaj, Rv. 266590).
10.3. Nel caso in esame, la Corte territoriale, con apprezzamento fattuale
logicamente motivato, ha escluso correttamente la sussistenza dei presupposti
applicativi della speciale causa di non punibilità in esame, non potendosi definire “di
speciale tenuità” il fatto in questione in considerazione della varietà e, soprattutto,
della quantità complessiva di sostanze stupefacente, pari complessivamente a 260
singole dose medie, come emerge dalla sentenza di primo grado (cfr. p. 2).

Il quinto motivo è fondato.
11.1. Come risulta dalla sentenza impugnata, la Corte territoriale ha confermato la
confisca del denaro sul presupposto che esso rappresenti il provento (recte, il
“profitto”) del reato.
11.2. Si tratta di una conclusione giuridicamente errata.
Essendo contestata la condotta di mera detenzione, pur a fine di spaccio, di
sostanze stupefacenti, deve, infatti, escludersi che la somma sequestrata
rappresenti il “profitto” del reato. Invero, in relazione al reato di illecita detenzione di
sostanze stupefacenti previsto dal D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 5,
non sono confiscabili le somme che, in ipotesi, costituiscono il ricavato di precedenti
diverse cessioni di droga e sono destinate ad ulteriori acquisti della medesima
sostanza, non potendo le stesse qualificarsi nè come “strumento”, nè quale
“prodotto”, “profitto” o “prezzo” del reato (Sez. 6, n. 55852 del 17/10/2017 – dep.
14/12/2017, Lanzi, Rv. 272204).
11.3. Nè può trovare applicazione il D.P.R. n. 309 del 1990, art. 85-bis, il quale
dispone l’applicazione dell’art. 240-bis c.p. nei casi di condanna o di applicazione
della pena ex art. 444 c.p.p. per taluno dei reati di cui al D.P.R., art. 73, esclusa la
fattispecie del comma 5, che ricorre nella specie.
11.4. Ne segue che la sentenza deve essere annullata senza rinvio in relazione alla
confisca, statuizione che elimina, con conseguente restituzione del denaro all’avente
diritto.

Il sesto motivo è fondato in relazione al diniego del beneficio della non menzione
ex art. 175 c.p..
12.1. La Corte ha negato la sussistenza dei presupposti per l’applicabilità della non
menzione valorizzando la funzione di prevenzione speciale, ossia che, come si legge
nella sentenza (p. 4), “proprio la pubblicità della sentenza possa nel caso di specie
costituire un efficace deterrente per l’imputato alla commissione di ulteriori reati,
analoghi a quello per cui si procede”.
12.2. Si tratta di una motivazione giuridicamente errata.
Ove la pena detentiva inflitta non sia superiore a due anni, il giudice può applicare il
beneficio in esame “avuto riguardo alle circostanze indicate nell’art. 133”, come
prevede espressamente l’art. 175 c.p., comma 1; e tra le circostanze indicate nell’art.
133 c.p. non viene contemplata la funzione di prevenzione speciale. Ne consegue
che il diniego della non menzione della sentenza di condanna, motivato in base ad
una ragione estranea alla previsione normativa, è arbitrario, ciò che integra la
denunciata violazione di legge.
12.3. Va perciò data continuità al principio, che il Collegio condivide, secondo cui la
concessione della non menzione della condanna nel certificato del casellario
giudiziale è subordinata unicamente alla valutazione positiva delle circostanze
indicate nell’art. 133 c.p., restando precluso ogni altro diverso criterio di giudizio.
Pertanto, è illegittimo il rifiuto del beneficio detto basato sulla considerazione che la
pubblicità insita nella menzione della condanna può costituire un monito per
l’imputato, sconsigliandolo in futuro dal commettere ulteriori reati (Sez. 4 n. 4606 del
17/04/1996, dep. 04/05/1996, Giacalone, Rv. 204663).
12.4. Nel caso in esame, esclusa l’unica ragione posta dalla Corte territoriale a
fondamento del diniego della non menzione, gli elementi accertati in sede di merito
(giovane età, incensuratezza, destinazione di una parte dello stupefacente al
consumo personale) consentono a questa Corte di riconoscere il beneficio in esame,
senza necessità di un rinvio al giudice di merito; e ciò in applicazione del principio,
affermato da questa Corte nel suo più alto consesso, secondo cui la Corte di
cassazione pronuncia sentenza di annullamento senza rinvio se ritiene superfluo il
rinvio e se, anche all’esito di valutazioni discrezionali, può decidere la causa alla
stregua degli elementi di fatto già accertati o sulla base delle statuizioni adottate dal
giudice di merito, non risultando necessari ulteriori accertamenti (Sez. U, n. 3464 del
30/11/2017 – dep. 24/01/2018, Matrone, Rv. 27183101).

E’ invece inammissibile il profilo con cui si contesta, in maniera aspecifica, la
severità della pena inflitta.
13.1. Va osservato che la graduazione della pena rientra nella discrezionalità del
giudice di merito, che la esercita in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e
133 c.p.; non è perciò consentita la censura che, nel giudizio di cassazione, miri ad
una nuova valutazione della congruità della pena la cui determinazione non sia frutto
di mero arbitrio o di ragionamento illogico e sia sorretta da sufficiente motivazione.
13.2. Nel caso in esame, la Corte territoriale ha fatto buon governo del principio ora
richiamato, avendo valorizzato, ex art. 133 c.p., la disponibilità, da parte
dell’imputato, di sostanze diverse, indice di una maggiore possibilità ad attingere al
mercato degli stupefacenti, cui si ricollega la possibilità di rifornire un maggiore e più
diversificato numero di acquirenti.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla confisca,
statuizione che elimina, disponendo la restituzione del denaro in sequestro
all’avente diritto, ed alla concedibilità della non menzione, beneficio che
riconosce. Rigetta nel resto il ricorso.
Così deciso in Roma, il 13 ottobre 2020.
Depositato in Cancelleria il 6 novembre 2020

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