Sentenza, Corte Suprema di Cassazione, III Sezione Civile, 24 novembre 2020, n. 26757, Indennizzo alle vittime di reati violenti e intenzionali:

In quest’occasione i giudici di legittimità, previo rinvio pregiudiziale alla Corte di Lussemburgo, hanno chiarito la portata dell’art. 12, II co., della direttiva n. 2004/80/CEE, relativa all’indennizzo delle vittime del reato, a cui lo Stato Italiano è stato giudicato inadempiente. Di fatti, è stato stabilito che: I) tale normativa si applica anche ai cittadini europei che subiscono un reato violento ed intenzionale nello stato di residenza; II) l’indennizzo da corrispondere, pur essendo una somma forfettaria, deve essere commisurata alla gravità del reato e alla gravità delle conseguenze patite dalla vittima.

Corte Suprema di Cassazione, III Sezione Civile, 24 novembre 2020, n. 26757:


Sentenza 24 novembre 2020, n. 26757
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –
Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –
Dott. VINCENTI Enzo – rel. Consigliere –
Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –
Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 13168/2012 proposto da:
PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, in persona del Presidente del
Consiglio in carica, domiciliata ex lege in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso
l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, da cui è difesa per legge;

ricorrentecontro
A.T., elettivamente domiciliata in ROMA, VICOLO ORBITELLI 31, presso lo studio
dell’avvocato VINCENZO ZENO ZENCOVICH, che la rappresenta e difende
unitamente agli avvocati UMBERTO OLIVA e FRANCESCO BRACCIANI, giusta
procura speciale a margine del controricorso;

controricorrente –
nonchè nei confronti:
PROCURA GENERALE DELLA REPUBBLICA DI TORINO;

intimata –
avverso la sentenza n. 106/2012 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il
23/01/2012;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17/11/2020 dal
Consigliere Dott. VINCENTI ENZO;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MISTRI
CORRADO, che ha concluso per il rigetto del 1 e del 3 motivo, per l’inammissibilità
o, in subordine, il rigetto del 2 motivo, detratto dall’importo stabilito dalla Corte
Subalpina l’indennizzo erogato in favore della controricorrente e dalla stessa
percepito nel luglio 2020 per Euro 25.000,00;
udito l’Avvocato dello Stato PALATIELLO GIOVANNI;
udito l’Avvocato MARCO BONA.
Svolgimento del processo

– Una cittadina italiana, di origini rumene, residente stabile in Italia, fu, in Torino,
nella notte tra il (OMISSIS), aggredita, sequestrata e costretta, con violenze e
minacce, a praticare e a subire, ripetutamente, atti sessuali da parte di due cittadini
rumeni, i quali, per tali fatti, vennero condannati in sede penale, in via definitiva, alla
pena dieci anni e sei mesi di reclusione, oltre al risarcimento del danno, da liquidarsi
in separato giudizio, con assegnazione, in favore della vittima dei suddetti reati
violenti (e, segnatamente, del reato di violenza sessuale, previsto e punito dall’art.
609-bis c.p.), di una provvisionale immediatamente esecutiva di Euro 50.000,00,
che, tuttavia, quest’ultima non riuscì ad ottenere in quanto i rei si erano resi latitanti.
1.1. – Nel febbraio 2009, quindi, la anzidetta cittadina italiana, residente stabile in
Italia, vittima di reati intenzionali violenti, evocò in giudizio, dinanzi al Tribunale di
Torino, la Presidenza del Consiglio dei Ministri (di seguito anche solo: P.C.M.),
affinchè ne venisse dichiarata la responsabilità civile per la mancata e/o non corretta
e/o non integrale attuazione degli obblighi previsti dalla direttiva 2004/80/CE del
Consiglio del 29 aprile 2004, “relativa all’indennizzo delle vittime del reato” (di
seguito anche solo: direttiva), e, in particolare, dell’obbligo, ivi previsto dall’art. 12,
par. 2, a carico degli Stati membri, di introdurre, entro il 1 luglio 2005 (come stabilito
dal successivo art. 18, par. 1), un sistema generalizzato di tutela indennitaria, idoneo
a garantire un adeguato ed equo ristoro, in favore delle vittime di tutti i reati violenti
ed intenzionali (compreso il reato di violenza sessuale), nelle ipotesi in cui le
medesime siano impossibilitate a conseguire, dai diretti responsabili, il risarcimento
integrale dei danni subiti.
1.2. – La P.C.M. si difese chiedendo il rigetto della domanda, adducendo (tra l’altro)
che: a) la dir. 2004/80/CE si dovesse riferire unicamente alle situazioni
transfrontaliere; b) che l’art. 12, par. 2, aveva un contenuto indeterminato, tale da
demandare al legislatore interno sia la scelta delle singole fattispecie di reato cui
riconnettere l’indennizzo ivi previsto, sia la determinazione della misura equa della
somma da riconoscere in favore della vittima; c) che l’Italia già prevedeva un
analogo sistema indennitario, in favore delle vittime di reati violenti e intenzionali,
seppur limitatamente a determinate fattispecie, quali, in particolare, i crimini di
matrice terroristica e di tipo mafioso, nonchè i reati usura e di estorsione.

– L’adito Tribunale, con sentenza del 26 maggio 2010, accertò, nel merito,
l’inadempimento della Presidenza del Consiglio dei ministri per la mancata
attuazione della direttiva 2004/80/CE, con condanna della medesima al pagamento,
in favore della vittima del reato, della somma di 90.000,00 Euro, oltre interessi di
legge dalla sentenza al saldo effettivo, nonchè alla refusione delle spese legali.

– Avverso tale sentenza interponeva gravame la P.C.M., che la Corte di appello di
Torino, con sentenza resa pubblica il 23 gennaio 2012, accoglieva solo in parte,
riformando unicamente sulla misura del risarcimento (che riduceva ad Euro 50.000,
oltre accessori) l’impugnata sentenza e confermandola nel resto, con condanna
dell’appellante Presidenza del Consiglio dei ministri anche al pagamento delle spese
del grado.
3.1. – In particolare, la Corte di appello ribadiva che lo Stato italiano si era reso
inadempiente per non aver dato attuazione alla direttiva n. 2004/80/CE, e, in
particolare, per non aver ottemperato all’obbligo previsto dal richiamato art. 12, par.
2, da intendersi come volto a far sì che ogni Stato membro si dotasse di un
generalizzato sistema di indennizzo in favore delle vittime di tutti i reati violenti e
intenzionali, commessi nei rispettivi territori, ivi compreso quello di violenza
sessuale.
3.2. – Quanto al presupposto dell’impossibilità per la vittima di conseguire il
risarcimento del danno direttamente dagli autori del reato violento intenzionale, il
giudice di secondo grado escludeva, come già affermato dal Tribunale, che l’attrice
potesse ottenere dai due diretti responsabili un adeguato ristoro, seppur parziale, dei
danni subiti, essendosi gli offensori resisi latitanti nelle more del giudizio di primo
grado e non avendo mai manifestato forme di pentimento, nè offerto alcun ristoro
patrimoniale in favore della vittima. Di talchè, non avrebbe avuto alcuna utilità pratica
la proposizione di una causa civile risarcitoria nei confronti dei rei.
3.3. – In punto di liquidazione del danno, la Corte di appello riduceva, in via equitativa
(facendo applicazione degli artt. 2056 e 1226 c.c.), a Euro 50.000,00 la somma
spettante all’attrice a titolo di indennizzo – non coincidente con “un pieno
risarcimento del danno” in ragione della natura, per l’appunto, indennitaria della
responsabilità dello Stato italiano per omessa o tardiva attuazione della direttiva
comunitaria non auto esecutiva, come da orientamento della giurisprudenza di
legittimità di cui alla sentenza delle Sezioni Unite n. 9147 del 2009 – per “la perdita
subita… consistita nel non ricevere alcun indennizzo per la violenza sessuale subita,
per non avere la Repubblica italiana previsto tale reato, intenzionale e violento, tra
quelli che avrebbero dovuto consentirle di ottenere un equo ed adeguato
indennizzo”. Reato che, nella specie, aveva cagionato all’attrice, appena diciottenne
all’epoca dei fatti, “gravissime conseguenze di ordine morale e psicologico”, in
ragione delle “minacce e violenze subite… per costringerla a subire a compiere atti
sessuali ripetuti”.

– Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la Presidenza del
Consiglio dei Ministri, affidando le sorti dell’impugnazione a tre motivi, illustrati da
memoria; ha resistito con controricorso, illustrato da memoria, l’originaria attrice.
4.1. – La causa è stata discussa all’udienza pubblica del 12 maggio 2015 e all’esito
della camera di consiglio, con ordinanza interlocutoria n. 18003 del 2015, è stata
rinviata a nuovo ruolo in attesa delle pronunce della Corte di Giustizia dell’Unione
Europea (di seguito anche solo: CGUE) in relazione alla procedura di infrazione
promossa dalla Commissione Europea, in data 22 dicembre 2014, contro la
Repubblica italiana (Causa C-601/14) per omessa adozione di “tutte le misure
necessarie al fine di garantire l’esistenza di un sistema di indennizzo delle vittime di
tutti i reati intenzionali violenti commessi sul proprio territorio”, di cui all’obbligo ex
art. 12, par. 2, della direttiva 2004/80/CE, nonchè al rinvio pregiudiziale del Tribunale
di Roma, con ordinanza pronunciata il 24 marzo 2015, sull’interpretazione dell’art.
12, par. 2, della citata direttiva.
A seguito della definizione degli anzidetti giudizi dinanzi alla Corte di Lussemburgo (il
primo con sentenza, Grande Sezione, 11 ottobre 2016, C-601/14; il secondo con
ordinanza presidenziale del 28 febbraio 2017, a seguito di rinuncia al rinvio
pregiudiziale da parte del Tribunale rimettente), depositate memorie da entrambe le
parti, la causa è stata ulteriormente fissata per la discussione all’udienza del 27
ottobre 2017 e all’esito della relativa camera di consiglio è stata emessa – in ragione
dello jus superveniens costituito dalla L. 20 novembre 2017, n. 167, entrata in vigore
il 12 dicembre 2017 (che ha modificato la L. 7 luglio 2016, n. 122) – ordinanza
interlocutoria n. 1196 del 2018, con la quale le parti ed il pubblico ministero sono
stati invitati, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., ad interloquire sulla portata e sugli effetti
della anzidetta – legge sopravvenuta. A tal fine, nel termine assegnato, hanno
depositato memoria la P.C.M. e la controricorrente. Rilevata la mancata
comunicazione al pubblico ministero della precedente ordinanza interlocutoria, con
ulteriore ordinanza interlocutoria del 2 novembre 2018, è stato assegnato alle parti
tutte nuovo termine ai sensi dell’art. 384 c.p.c.: hanno, quindi, depositato memoria il
pubblico ministero e la controricorrente.
Acquisite, dunque, le osservazioni del pubblico ministero e delle parti, all’esito della
camera di consiglio in seconda riconvocazione ex art. 384 c.p.c., è stata emessa
ordinanza interlocutoria n. 2964 del 31 gennaio 2019, con la quale è stato chiesto
alla Corte di giustizia dell’Unione Europea di pronunciarsi in via pregiudiziale su due
quesiti: l’uno avente ad oggetto la configurabilità, in relazione alla situazione di
intempestivo e/o incompleto recepimento nell’ordinamento interno della direttiva
2004/80/CE, della responsabilità dello Stato membro anche nei confronti di soggetti
non transfrontalieri; l’altro sulla possibilità di reputare “equo ed adeguato”
l’indennizzo alle vittime di reato violento e intenzionale – e, segnatamente, del reato
di violenza sessuale di cui all’art. 609-bis c.p., – stabilito in misura fissa dal D.M. 31
agosto 2017, nell’importo di Euro 4.800,00.
A seguito della definizione del giudizio di rinvio pregiudiziale, avutasi con la sentenza
della CGUE del 16 luglio 2020, in C-129/19, è stata fissata per la discussione
l’udienza odierna, in prossimità della quale entrambe le parti hanno depositato
ulteriore memoria.
Motivi della decisione

– Va esaminata preliminarmente l’eccezione della P.C.M., di cui in particolare
all’ultima memoria depositata, con la quale si chiede dichiararsi improcedibile la
“domanda originaria per sopravvenuta cessazione della materia del contendere”.
Contrariamente a quanto sostenuto dalla parte ricorrente, non si ravvisano, nella
specie, i presupposti per una declaratoria di cessazione – della materia del
contendere – ossia il venir meno della specifica situazione di contrasto fra le parti e,
dunque, anche dell’interesse alla definizione del giudizio con una pronuncia in
questa sede di legittimità sul fondo dell’impugnazione – in conseguenza dello jus
superveniens che ha attribuito effetti retroattivi alla L. 7 luglio 2016, n. 122, là dove
reca la disciplina sull’indennizzo in favore delle vittime di reati intenzionali violenti.
L’art. 11 di detta legge (formulato proprio a seguito della procedura di infrazione, poi
definita con la citata sentenza CGUE del 2016) ha previsto “il diritto all’indennizzo a
carico dello Stato alla vittima di un reato doloso commesso con violenza alla persona
e comunque del reato di cui all’art. 603-bis c.p., ad eccezione dei reati di cui agli artt.
581 e 582, salvo che ricorrano le circostanze aggravanti previste dall’art. 583 c.p.”.
La determinazione degli importi dell’indennizzo sono stati rimessi ad un decreto
ministeriale (art. 11, comma 3), nei limiti dello stanziamento in apposito Fondo (art.
14), e al quale potrà accedersi in base al possesso di specifiche condizioni (indicate
dall’art. 12).
Per quanto ora interessa, la L. 20 novembre 2017, n. 167, art. 6, entrata in vigore il
12 dicembre 2017, ha stabilito al comma 2 che: “(D’indennizzo previsto dalla sezione
II del capo III della L. 7 luglio 2016, n. 122, come modificata, da ultimo, dal presente
articolo, spetta anche a chi è vittima di un reato intenzionale violento commesso
successivamente al 30 giugno 2005 e prima della entrata in vigore della medesima
legge”. Il successivo comma 3 dello stesso art. 6 ha poi previsto che la
presentazione della domanda di concessione dell’indennizzo venga presentata, a
pena di decadenza, entro il termine di centoventi giorni “dalla data di entrata in
vigore della presente legge”; tuttavia, detto termine è stato riaperto e prorogato
dapprima dalla L. n. 145 del 2018, art. 1, comma 594 e poi (sino al 31 dicembre
2020) dal D.L. n. 162 del 2019, art. 3, comma 2, lett. b), convertito, con
modificazioni, dalla L. n. 8 del 2020. – Ne consegue che, per effetto dello jus
superveniens – che non pone restrizioni alla platea dei destinatari dell’indennizzo, in
termini di situazione transfrontaliera o meno – anche l’originaria attrice, vittima di
violenza sessuale e di altri reati violenti nell’ottobre 2005, ne ha diritto, alle condizioni
stabilite dalla L. n. 122 del 2016, e successive modificazioni.
A conferma di ciò l’originaria attrice ne ha effettivamente beneficiato dapprima nella
misura di Euro 4.800,00 determinata dal D.M. 31 agosto 2017 (cfr. sentenza della
CGUE del 16 luglio 2020, p.p. 26 e 29) e poi nella misura di Euro 25.000,00
determinata dal successivo D.M. 23 novembre 2019 (cfr. memoria da ultimo
depositata dalla controricorrente).
Tuttavia, la pretesa azionata in giudizio dalla medesima attrice è quella del diritto al
risarcimento del danno per l’inadempimento statuale all’obbligo di trasposizione
tempestiva del diritto dell’Unione (art. 12, par. 2, della direttiva 2004/80) e non già la
pretesa di conseguire, in base al diritto nazionale, l’indennizzo attualmente stabilito a
seguito della L. n. 122 del 2016.
Trattasi di domande aventi ad oggetto distinti causae petendi e petita.
La seconda, una prestazione indennitaria stabilita dalla legge, come effetto
dell’attuazione di obblighi derivanti dalla partecipazione dello Stato all’Unione
Europea; dunque, una obbligazione ex lege, da assolversi nei confronti degli aventi
diritto, individuati dalla stessa disciplina di fonte legale e che prescinde dalla
ricorrenza degli elementi costitutivi dell’illecito il quale, nel sistema della
responsabilità civile, sia di fonte contrattuale, che aquiliana, si pone come
indefettibile presupposto per la liquidazione del danno, ossia delle conseguenze
pregiudizievoli da esso scaturenti (cfr. anche Cass., 4 novembre 2020, n. 24474).
La prima – alla luce della ormai consolidata giurisprudenza di questa Corte (Cass.,
17 maggio 2011, n. 10813 e, più di recente, Cass., 22 novembre 2019, n. 30502) – il
diritto al risarcimento dei danni per omessa o tardiva trasposizione di direttiva non
autoesecutiva da parte del legislatore italiano nel termine prescritto dalla direttiva
stessa, che va ricondotto allo schema della responsabilità contrattuale per
inadempimento dell’obbligazione ex lege dello Stato, di natura indennitaria.
Responsabilità che, in ragione della natura antigiuridica del comportamento omissivo
dello Stato anche sul piano dell’ordinamento interno, e dovendosi ricondurre ogni
obbligazione nell’ambito della ripartizione di cui all’art. 1173 c.c., va inquadrata nella
figura della responsabilità “contrattuale”, in quanto nascente non dal fatto illecito di
cui all’art. 2043 c.c., bensì da un illecito ex contractu e cioè dall’inadempimento di un
rapporto obbligatorio preesistente.
La circostanza che la consistenza del danno risarcibile trovi anzitutto corrispondenza
nella misura dell’indennizzo in quanto è la relativa perdita che si manifesta come
conseguenza dell’illecito contrattuale ascrivibile allo Stato (così da potersi definire il
ristoro del danno come surrogato della mancata erogazione dell’indennizzo) non è,
però, fattore che esaurisce, di per sè e indefettibilmente, la portata dell’obbligazione
risarcitoria de qua, poichè, pure nel caso di un’applicazione retroattiva, regolare e
completa delle misure di attuazione di una direttiva, che consenta di rimediare alle
conseguenze pregiudizievoli della trasposizione tardiva della direttiva stessa, i
relativi beneficiari possono dimostrare l’esistenza di perdite supplementari patite per
il fatto stesso di non avere potuto usufruire nel momento previsto dei vantaggi
pecuniari garantiti dalla direttiva e le quali andrebbero, dunque, parimenti risarcite
(CGUE, sentenza del 10 luglio 1997, in procedimenti riuniti C-94/95 e C-95/95,
Bonifaci e a.; CGUE, sentenza del 24 gennaio 2018, in procedimenti riuniti C-616/16
e C-617/16, Pantuso e a.).
La liquidazione del danno in favore dell’originaria attrice ad opera della sentenza
impugnata (Euro 50.000, oltre accessori) risponde anche alla logica da ultima
evidenziata e delle relative ragioni se ne darà conto in sede di scrutinio del terzo
motivo di ricorso.
Quanto ora anticipato consente, però, di esaminare nel fondo l’impugnazione
proposta dalla P.C.M..

– Con il primo mezzo è denunciata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3,
violazione e/o falsa applicazione dell’art. 10 (ex art. 5) TCE; dell’art. 4, comma 3,
TUE; dell’art. 249 (ex art. 189), comma 3, TCE; dell’art. 117 Cost., comma 1; della
Direttiva 29 aprile 2004, n. 2004/80/CE (Direttiva del Consiglio relativa all’indennizzo
delle vittime del reato), in particolare, dell’art. 12, par. 2, in combinato disposto con i
considerando 1, 2, 7, 10, 11 e 14 e con l’art. 18, par. primo; dell’art. 1173 c.c..
La Corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto che fossero ravvisabili, nel caso
di specie, le condizioni giuridiche richieste ai fini della configurabilità, in capo allo
Stato membro, della responsabilità per i danni causati ai privati, in conseguenza
della violazione del diritto comunitario, male interpretando la direttiva 2004/80/CE. A
tal fine il ricorrente assume che gli scopi e le finalità della direttiva citata sarebbero
quelli di prevedere un sistema indennitario, per le vittime di reati intenzionali e
violenti, limitatamente alle c.d. “situazioni transfrontaliere”, con esclusione delle
situazioni meramente interne.
Ne consegue che la direttiva 2004/80/CE non sarebbe fonte di diritti direttamente
azionabili dai residenti nei confronti dello Stato di appartenenza, in quanto finalizzata
ad assicurare che, laddove sia commesso un reato violento ed intenzionale nel
territorio di uno Stato membro diverso rispetto a quello in cui la vittima risiede,
quest’ultima abbia accesso alle procedure di indennizzo previste nel luogo di
consumazione del delitto.
Inoltre, lo stesso art. 12, par. 2 – che impone a tutti gli Stati membri di provvedere
all’introduzione di un sistema interno che garantisca un indennizzo equo ed
adeguato alle vittime di reati intenzionali violenti commessi nei rispettivi territori -,
interpretato alla luce del par. 1 dello art. 12 (che rimanda ai sistemi indennitari
previsti dai singoli ordinamenti nazionali), indurrebbe a ritenere che esso non sia
indirizzato ai Paesi che siano già dotati di un meccanismo di indennizzo in favore
delle vittime di reati intenzionali violenti. E, in tale prospettiva, rileva la circostanza
che il legislatore italiano ha già provveduto ad introdurre, a partire dalla L. n. 466 del
1980 (sulle elargizioni in favore delle vittime del terrorismo), una serie di leggi
speciali recanti procedure di indennizzo in favore delle vittime di fattispecie criminose
di particolare allarme sociale (tra cui, quelle relative alla criminalità organizzata,
all’attività estorsiva e all’usura, oltre che al terrorismo), sebbene non sia stato
previsto analogo sistema indennitario a tutela delle “vittime dei reati legati alla
criminalità comune” (e, quindi, del reato di violenza sessuale).
A dimostrazione del fatto che l’Italia fosse munita di un adeguato meccanismo
indennitario, relativamente a diverse fattispecie di reati violenti ed intenzionali, non
prevedendo la direttiva alcun obbligo di estendere detta procedura anche al reato di
violenza sessuale, rileverebbe il fatto che, con la sentenza n. 112 del 29 novembre
2007, la Corte di Giustizia ha condannato la Repubblica italiana non già per
l’inadempimento dell’obbligo prescritto ex art. 12, par. 2, entro il primo temine
previsto dall’art. 18 (1 luglio 2005), bensì per la mancata conformazione, entro il
secondo termine (1 gennaio 2006), delle procedure indennitarie già introdotte dal
legislatore italiano, alle prescrizioni “legislative, regolamentari, amministrative”
dettate dalla direttiva.
Ne conseguirebbe che, a fronte della indeterminatezza della disposizione di cui
all’art. 12, par. 2, della direttiva, che non è preordinata ad attribuire diritti ai singoli,
prescrivendo unicamente un obbligo di risultato, senza definire puntualmente i criteri
per il raggiungimento dell’obiettivo prescritto, non può ravvisarsi a carico dello Stato
italiano alcun inadempimento della predetta normativa, che rimette alla
discrezionalità dei singoli Stati l’individuazione delle singole fattispecie indennizzabili,
nonchè dei criteri in base ai quali determinare la liquidazione dell’indennizzo.
Peraltro, proprio in considerazione della scarsa chiarezza dell’art. 12, par. 2, citato e
delle circostanze che hanno portato alla sua emanazione, tali da indurre lo Stato
italiano a ritenere, ragionevolmente, la conformità al diritto Europeo del sistema
indennitario già previsto, anteriormente al 1 luglio 2005, dall’ordinamento nazionale
italiano, la presunta violazione della direttiva in esame non potrebbe essere
qualificata come “grave e manifesta”, essendo, invero, l’eventuale inadempimento
configurabile, al più, come un errore scusabile.
Quanto, poi, al nesso causale tra il presunto inadempimento della normativa
Europea e il conseguente danno lamentato dalla originaria attrice, esso sarebbe
escluso dal fatto che quest’ultima mai abbia provveduto a dare esecuzione alla
provvisionale nei confronti dei due offensori.
La ricorrente ha proposto, infine, istanza affinchè questa Corte investa la CGUE, ai
sensi dell’art. 267 TFUE (già art. 234 TCE), della questione pregiudiziale, in ordine
alla portata dell’art. 12, par. II, della Direttiva 29 aprile 2004, n. 2004/80/CE, se da
interpretarsi nei termini sostenuti con il presente motivo di ricorso.
2.1. – Il primo motivo è infondato in tutta la sua articolazione.
2.1.2. – Anzitutto è infondata la censura che evoca una interpretazione della norma di
cui all’art. 12, par. 2, della direttiva 2004/80/CE in linea con un sistema di indennizzo
calibrato su specifiche fattispecie di reati intenzionali violenti (sistema che lo Stato
avrebbe già predisposto, con varie leggi, in favore di talune categorie di vittime: del
terrorismo, di attività estorsiva ed usura, della criminalità organizzata), poichè la
direttiva non avrebbe imposto l’obbligo di indennizzare anche le vittime di reati
intenzionali violenti – tout court e, tra questi, in particolare il reato di violenza
sessuale.
2.1.2.1. – Con la sentenza dell’11 ottobre 2016, “Commissione Europea c.
Repubblica italiana”, in C-601/14, la CGUE (Grande Sezione) ha riconosciuto che la
“Repubblica italiana, non avendo adottato tutte le misure necessarie al fine di
garantire l’esistenza, nelle situazioni transfrontaliere, di un sistema di indennizzo
delle vittime di tutti i reati intenzionali violenti commessi sul proprio territorio, è
venuta meno all’obbligo ad essa incombente in forza dell’art. 12, paragrafo 2, della
direttiva 2004/80/CE del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativa all’indennizzo delle
vittime di reato”.
Ciò sul presupposto – chiarito all’esito dell’interpretazione fornita dalla stessa Corte
circa la complessiva portata della direttiva 2004/80 (cfr. p.p. da 37 a 44), che muove
dalla premessa (esplicitata al p. 36) secondo cui, in ordine agli “obblighi imposti agli
Stati membri in forza dell’art. 12, paragrafo 2, della direttiva 2004/80, si deve tener
conto non soltanto del tenore letterale di tale disposizione, ma anche degli obiettivi
perseguiti da tale direttiva, nonchè del sistema istituito da detta direttiva nel quale
questa disposizione si inserisce” – che l’anzidetto art. 12, par. 2, debba essere
interpretato “nel senso che esso mira a garantire al cittadino dell’Unione il diritto di
ottenere un indennizzo equo ed adeguato per le lesioni subite nel territorio di uno
Stato membro nel quale si trova, nell’ambito dell’esercizio del proprio diritto alla
libera circolazione, imponendo a ciascuno Stato membro di dotarsi di un sistema di
indennizzo delle vittime per ogni reato intenzionale violento commesso sul proprio
territorio” (p. 45).
Dunque, l’obbligo nascente dall’art. 12, par. 2, della direttiva concerne qualsiasi reato
intenzionale violento commesso sul territorio dello Stato membro e, quindi, anche il
reato di violenza sessuale di cui all’art. 609-bis c.p..
2.1.3. – E’ infondata anche la doglianza che fa leva sull’interpretazione del citato art.
12, par. 2, come rivolto soltanto alla vittima c.d. “transfrontaliere” e non, quindi, alle
vittime residente nel territorio dello Stato membro nel quale il reato intenzionale
violento è stato commesso.
2.1.3.1. – Con tale doglianza la parte ricorrente intende accreditare la tesi per cui la
norma anzidetta non sia preordinata a conferire diritti ai singoli “residenti e non
transfrontalieri” e con ciò farne derivare l’insussistenza della responsabilità
extracontrattuale dello Stato per danni causati ai singoli stessi da violazioni del diritto
dell’Unione ad esso imputabili (nella specie, per illecito Eurounitario dello StatoLegislatore inadempiente all’obbligo di attuare, tempestivamente, una direttiva
comunitaria non self executing), in quanto detta responsabilità – come da
giurisprudenza consolidata della CGUE (tra le molte, sentenza del 19 novembre
1991, in procedimenti riuniti C – 6/90 e C – 9/90, Francovich, Bonifaci e altri c. Italia;
sentenza del 5 marzo 1996, in procedimenti riuniti C-46/93 e C-48/93, Brasserie
Brasserie du Pecheur e Factortame e A., p. 51; sentenza del 15 novembre 2016, in
C-268/15, Ullens de Schooten) – è configurabile in forza della concorrente ricorrenza
di tre condizioni, tra cui la condizione anzidetta, che si aggiunge a quelle della
violazione sufficientemente qualificata (o caratterizzata) e dell’esistenza di un nesso
causale diretto tra la violazione dell’obbligo incombente allo Stato e il danno subito
dai soggetti lesi.
1.1.3.2. – A tal riguardo, questa Corte, quale giudice di ultima istanza, ha chiesto alla
CGUE di pronunciarsi, ai sensi dell’art. 267, par. 3, TFUE, sulla seguente questione
di interpretazione del diritto dell’Unione:
“Dica la CGUE (nelle circostanze proprie della causa principale: concernente
un’azione di risarcimento danni proposta da cittadina italiana, residente stabilmente
in Italia, contro lo Stato-Legislatore per la mancata e/o non corretta e/o non integrale
attuazione degli obblighi previsti dalla direttiva 2004/80/CE del Consiglio del 29
aprile 2004, “relativa all’indennizzo delle vittime del reato”, e, in particolare,
dell’obbligo, ivi previsto dall’art. 12, par. 2, a carico degli Stati membri, di introdurre,
entro il 1 luglio 2005 (come stabilito dal successivo art. 18, par. 1), un sistema
generalizzato di tutela indennitaria, idoneo a garantire un adeguato ed equo ristoro,
in favore delle vittime di tutti i reati violenti ed intenzionali (compreso il reato di
violenza sessuale, di cui l’attrice è stata vittima), nelle ipotesi in cui le medesime
siano impossibilitate a conseguire, dai diretti responsabili, il risarcimento integrale
dei danni subiti): a) se – in relazione alla situazione di intempestivo (e/o incompleto)
recepimento nell’ordinamento interno della direttiva 2004/80/CE del Consiglio del 29
aprile 2004, “relativa all’indennizzo delle vittime del reato”, non self executing,
quanto alla istituzione, da essa imposta, di un sistema di indennizzo delle vittime di
reati violenti, che fa sorgere, nei confronti di soggetti transfrontalieri cui la stessa
direttiva è unicamente rivolta, la responsabilità risarcitoria dello Stato membro, in
forza dei principi recati dalla giurisprudenza della CGUE (tra le altre, sentenze
“Francovich” e “Brasserie du Pecheur e Factortame III”) – il diritto Eurounitario
imponga di configurare un’analoga responsabilità dello Stato membro nei confronti di
soggetti non transfrontalieri (dunque, residenti), i quali non sarebbero stati i
destinatari diretti dei benefici derivanti dall’attuazione della direttiva, ma, per evitare
una violazione del principio di uguaglianza/non discriminazione nell’ambito dello
stesso diritto Eurounitario, avrebbero dovuto e potuto – ove la direttiva fosse stata
tempestivamente e compiutamente recepita – beneficiare in via di estensione
dell’effetto utile della direttiva stessa (ossia del sistema di indennizzo anzidetto)”.
La prospettazione del quesito è stata così orientata, anzitutto, in base alla premessa
che la giurisprudenza della CGUE in media res (sentenza del 28 giugno 2007,
Dell’Orto, in C-467/05; sentenza del 12 luglio 2012, Giovanardi, in C-79/2011;
ordinanza del 30 gennaio 2014, Paola C., in C-122/2013; sentenza dell’11 ottobre
2016, Commissione Europea c. Repubblica italiana, in C 601/14) fosse
sufficientemente chiara nell’affermare la portata “transfrontaliera” dell’obbligo
imposto dall’art. 12, par. 2, della direttiva, così da conferire un diritto ai singoli che
avessero esercitato il proprio diritto alla libera circolazione e, quindi, essere rimasti
vittime di reato intenzionale violento commesso nel territorio di Stato membro non di
loro residenza (cfr. ord. int. n. 2964 del 2019, p.p. 34-39).
Ciò nonostante, in ragione della portata del citato art. 12, da leggersi – anche in
ragione di quanto espresso dai “Considerando” della direttiva del 2004
(“Considerando 2” evocante la tutela della integrità personale; “Considerando 14”
evocante il rispetto dei diritti fondamentali e i principi della Carta) – in combinazione
proprio con i diritti fondamentali, parte integrante dei principi generali del diritto e, tra
questi, quelli di uguaglianza e di non discriminazione, espressamente enunciati nella
stessa Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (rispettivamente, agli artt.
20 e 21), si è prospettato che l’obbligo indennitario generalizzato previsto dalla
direttiva del 2004 potesse operare anche nei confronti dei residenti stabili nello Stato
italiano (ossia nelle “situazioni puramente interne”), giacchè, proprio in forza di detti
principi/diritti (e a prescindere, dunque, dagli effetti di estensione che, analogamente,
il diritto nazionale avrebbe potuto determinare in base ai meccanismi giuridici da
esso previsti), lo Stato medesimo non avrebbe potuto dare attuazione alla direttiva,
tempestivamente, in modo ingiustificatamente discriminatorio nei confronti del
cittadino residente stabile nel proprio territorio (cfr. ord. int. n. 2964 del 2019, p.p.
48-65).
E ciò in quanto “il principio generale di eguaglianza, espressione delle tradizioni
costituzionali degli Stati membri, si pone, in quanto radicante un diritto fondamentale,
come struttura portante – dunque, fondativa – dello stesso ordinamento dell’Unione (e
non solo, quindi, come diritto che deve ricevere indefettibile tutela in quanto
inviolabile), potendo così operare a livello assiologico in modo penetrante e
trasversale rispetto a tutte le competenze ascritte all’Unione in forza dei Trattati” (cfr.
ord. int. n. 2964 del 2019, segnatamente, p. 63).
2.1.3.2.1. – Giova, peraltro, evidenziare che una siffatta prospettiva non è rimasta
estranea alle argomentazioni che sorreggono le conclusioni dell’Avvocato generale
nella causa promossa a seguito della citata ordinanza interlocutoria, in esse (cfr. p.p.
100-124) suggerendosi – al fine di dirimere la portata interpretativa dell’art. 12, par. 2,
della direttiva, non altrimenti reputata definibile nell’uno o nell’altro significato (ossia,
come rivolta o meno a vittime soltanto transfrontaliere) – di far ricorso a criteri
ermeneutici di ordine “costituzionale”, venendo, per l’appunto, richiamata (anche
attraverso il rinvio di cui al citato “Considerando 14”) la Carta come parte del diritto
primario vincolante e i diritti fondamentali da essa previsti, tra cui, in particolare, la
dignità umana (art. 1) e il diritto alla libertà e alla sicurezza (art. 6), ma anche l’art. 21
sul principio di non discriminazione, nella specie nel contesto “dell’eventuale
discriminazione tra i diversi scenari transfrontalieri e della differenziazione tra i vari
tipi di circolazione e di assenza di circolazione” (p. 110).
2.1.3.3. – La CGUE ha dato risposta al quesito in esame con la sentenza del 16
luglio 2020, Presidenza del Consiglio c. BV, in C- 129/2019, affermando che “(i)I
diritto dell’Unione dev’essere interpretato nel senso che il regime della responsabilità
extracontrattuale di uno Stato membro per danno causato dalla violazione di tale
diritto è applicabile, per il motivo che tale Stato membro non ha trasposto in tempo
utile l’art. 12, paragrafo 2, della direttiva 2004/80/CE del Consiglio, del 29 aprile
2004, relativa all’indennizzo delle vittime di reato, nei confronti di vittime residenti in
detto Stato membro, nel cui territorio il reato intenzionale violento è stato
commesso”.
A tale approdo la CGUE è giunta (cfr. p.p. 39-51) in forza di una interpretazione
dell’art. 12, par. 2, della direttiva 2004/80/CE che ha valorizzato, eminentemente, il
tenore letterale di detta norma, la sua collocazione nel contesto del capo II (sui
“(s)istemi di indennizzo nazionaliTh la portata generalizzata dell’obbligo gravante
sugli Stati membri e, quindi, i “Considerando” 3, 6, 7 e 10, mettendo in rilievo
rispettivamente: a) le conclusioni del Consiglio Europeo nella riunione di Tampere
dell’ottobre 1999, sollecitanti “l’elaborazione di norme minime sulla tutela delle
vittime della criminalità, in particolare sull’accesso delle vittime alla giustizia e sui
loro diritti al risarcimento dei danni”; b) il diritto all’indennizzo “indipendentemente dal
luogo dell’Unione in cui il reato è stato commesso”; c) l’estensione del meccanismo
indennitario a tutti gli Stati membri; d) le “difficoltà spesso incontrate dalle vittime di
reati intenzionali violenti per farsi risarcire dall’autore del reato, in quanto questi può
non possedere le risorse necessarie per ottemperare a una condanna al
risarcimento dei danni alla vittima, oppure può non essere individuato o perseguito”.
Di qui, pertanto, l’affermazione che “l’art. 12, paragrafo 2, della direttiva 2004/80
impone a ogni Stato membro di dotarsi di un sistema di indennizzo che ricomprenda
tutte le vittime di reati intenzionali violenti commessi nei loro territori e non soltanto le
vittime che si trovano in una situazione transfrontaliera” (p. 52), conferendo, dunque,
“il diritto di ottenere un indennizzo equo ed adeguato non solo alle vittime di reati
intenzionali violenti commessi nel territorio di uno Stato membro che si trovano in
una situazione transfrontaliera, ai sensi dell’art. 1 di tale direttiva, ma anche alle
vittime che risiedono abitualmente nel territorio di tale Stato membro” (p. 55).
La stessa CGUE ha, quindi, escluso (p. 53) che siffatta interpretazione fosse
“rimessa in discussione” dalla propria precedente giurisprudenza (quella richiamata
dall’ordinanza di rimessione di questa Corte), essendosi con essa “limitata a
precisare che il sistema di cooperazione istituito dal capo I della direttiva 2004/80
riguarda unicamente l’accesso all’indennizzo nelle situazioni transfrontaliere, senza
tuttavia determinare la portata dell’art. 12, paragrafo 2, di tale direttiva, contenuto nel
capo II della stessa” (p. 54).

2.1.3.4. – La portata applicativa dell’art. 12, par. 2, della direttiva è, dunque, quella
di norma che non solo obbliga gli Stati membri a dotarsi di un sistema di indennizzo
delle vittime per ogni reato intenzionale violento commesso sul proprio territorio, ma
che consente anche ai soggetti residenti nello Stato membro, così obbligato, di poter
usufruire dell’indennizzo, essendo, quindi, anch’essi titolari del diritto conferito, nella
specie, dal diritto derivato dell’Unione.
E’ così integrata la prima delle tre condizioni affinchè possa configurarsi la
responsabilità dello Stato per violazione del diritto Eurounitario.
2.1.3.5. – Anche la seconda delle tre menzionate condizioni è da reputarsi
soddisfatta.
Alla luce della giurisprudenza Eurounitaria (tra le altre: sentenza del 5 marzo 1996,
in procedimenti riuniti C-46/93 e C-48/93, Brasserie Brasserie du Pecheur; sentenza
del 30 maggio 2017, in C-45/15, Safa Nicu Sepahan/Consiglio; sentenza del 10
settembre 2019, in C-123/18, HTTS/Consiglio), il criterio che assume decisività per
considerare “sufficientemente qualificata” una violazione del diritto comunitario è
quello della “violazione manifesta e grave, da parte di uno Stato membro o di
un’istituzione comunitaria, dei limiti posti al loro potere discrezionale” (così la citata
sentenza del 5 marzo 1996) e ciò in considerazione di una serie elementi che
possono essere valutati dal giudice, ossia la complessità delle situazioni da
disciplinare, il grado di chiarezza e di precisione della norma violata, nonchè
l’ampiezza del potere discrezionale che tale norma riserva all’autorità nazionale o
all’istituzione dell’Unione. “In ogni caso, una violazione del diritto comunitario è
manifesta e grave quando continua nonostante la pronuncia di una sentenza che ha
accertato l’inadempimento contestato, di una sentenza pregiudiziale o di una
giurisprudenza consolidata della Corte in materia, dalle quali risulti l’illegittimità del
comportamento in questione” (così ancora la sentenza del 5 marzo 1996).
Dovendosi, altresì, rammentare, a tale ultimo riguardo, che le sentenze (sia
pregiudiziali e sia emesse in sede di verifica della validità di una disposizione) della
Corte di Lussemburgo hanno il valore di ulteriore fonte del diritto Eurounitario,
indicandone il significato ed i limiti di applicazione, in quanto unica autorità
giudiziaria deputata all’interpretazione delle norme dell’Unione con carattere
vincolante per il giudice nazionale (tra le molte, Cass., 11 dicembre 2012, n. 22577;
Cass., 8 febbraio 2016, n. 2468).
Nella specie, la violazione dell’art. 12, par. 2, citato, per un verso, è stata accertata
dalla stessa CGUE (sentenza dell’11 ottobre 2016, in C-601/14) con declaratoria di
responsabilità dell’Italia di esser venuta meno all’obbligo di dotarsi di un sistema
generalizzato delle vittime di “tutti” i reati intenzionali violenti.
Per altro verso, la portata estensiva di detta norma, applicabile anche nei confronti
delle vittime residenti nello Stato membro in cui il reato è stato commesso, è stata
dalla CGUE medesima (sentenza del 16 luglio 29020, in C-129/199) affermata
(nonostante lo stesso “smarrimento” ermeneutico e, quindi, i dubbi sulla chiarezza
della norma denunciati dall’Avvocato generale nelle sue conclusioni – cfr. p.p. 100,
129 e 130 -, dai quali la stessa sentenza, del resto, prescinde del tutto) in forza di
una interpretazione piana e diretta (senza altre mediazioni volte dissipare incertezze
interpretative, non altrimenti palesate) della sola direttiva 2004/80/CE, di per sè
ritenuta, ab origine, fonte chiaramente orientata a conferire anche alle vittime non
transfrontaliere la tutela indennitaria da essa contemplata.
E lo stesso Giudice Europeo, oltre a non far cenno (quanto alla questione qui in
esame) a particolari profili di ampia discrezionalità in capo allo Stato membro tenuto
all’attuazione della direttiva medesima, ha espressamente escluso che sussistesse
un diritto vivente unionale contrastante o solo anche disarmonico con la soluzione
interpretativa raggiunta, come detto, già ritenuta propria delle virtualità applicative
che la disposizione interpretata possedeva sin dall’inizio.
Dunque, non coglie nel segno la censura di parte ricorrente che – asserendo anche
esservi stato, con la sentenza del luglio 2020, un “overruling sostanziale”,
determinativo di legittimo affidamento in capo allo Stato italiano su una diversa
portata del diritto derivato dell’Unione – contesta potersi configurare nel caso
all’esame una violazione sufficientemente qualificata dell’art. 12, par. 2, della
direttiva.
2.1.3.6. – Quanto, infine, alla terza condizione, lo scrutinio della pertinente doglianza

che deduce l’insussistenza del nesso causale tra l’inadempimento della direttiva
2004/80/CE e il conseguente danno lamentato dalla originaria attrice in ragione del
“fatto che quest’ultima mai abbia provveduto a dare esecuzione alla provvisionale
nei confronti dei due offensori” – è rimesso all’esame del secondo motivo, di cui
appresso.

  1. – Con il secondo mezzo è prospettato, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5,
    vizio di motivazione.
    Sarebbe illogica e contraddittoria la motivazione della decisione impugnata in
    relazione al fatto controverso e decisivo consistente nella sussistenza o meno del
    presupposto oggettivo – cui la dir. 2004/80/CE, ai sensi del “considerando” n. 10,
    subordina l’attivazione dei meccanismi indennitari predisposti dai singoli Stati
    membri, in favore della vittima di reato violento e intenzionale – della impossibilità, da
    parte di quest’ultima, di conseguire il risarcimento dai diretti responsabili.
    A tal proposito, sarebbe inconferente l’affermazione della Corte di appello con la
    quale, accogliendo la prospettazione dell’appellata, osservava che l’instaurazione di
    un contenzioso civile, nei confronti dei due autori del reato, resisi latitanti, non
    potesse spiegare alcuna utilità, ai fini dell’ottenimento di un risarcimento da parte di
    questi ultimi, giacchè la direttiva non richiede la dimostrazione di aver intrapreso,
    infruttuosamente, un’azione civile nei confronti degli autori del reato, nè la
    Presidenza del Consiglio aveva mai sostenuto che tale prova fosse richiesta dalla
    normativa Europea.
    La Corte distrettuale avrebbe, altresì, omesso di considerare che l’attrice, pur
    disponendo già di un titolo esecutivo nei confronti degli autori del reato, abbia
    attribuito rilevanza decisiva alla latitanza di costoro, mentre, ai sensi della direttiva
    non rileva la mera difficoltà, bensì la obiettiva impossibilità, di ottenere soddisfazione
    direttamente dagli offensori.
    2.1. – Anche il secondo motivo è infondato in tutti i profili che il relativo sviluppo
    argomentativo esibisce, saldandosi il dedotto vizio motivazionale (secondo il regime
    previgente – applicabile ratione temporis al presente giudizio di legittimità – alla
    modifica dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, recata dal D.L. n. 83 del 2012, convertito,
    con modificazioni, dalla L. n. 134 del 2012) con la denunciata violazione di legge
    denunciata con il primo mezzo e che, nella sostanza, viene ulteriormente ribadita.
    2.1.1. – Parte ricorrente muove dalla considerazione che la direttiva 2004/80/CE
    imponga, come presupposto oggettivo, l’obiettiva impossibilità” della vittima del reato
    intenzionale violento di conseguire il risarcimento dai diretti responsabili.
    Una siffatta lettura del “Considerando 10”, dal quale detta premessa è tratta,
    (“Considerando” che così recita: “Le vittime di reato, in molti casi, non possono
    ottenere un risarcimento dall’autore del reato, in quanto questi può non possedere le
    risorse necessarie per ottemperare a una condanna al risarcimento dei danni,
    oppure può non essere identificato o perseguito”) non trova rispondenza nella lettera
    e nella ratio della disciplina recata dalla direttiva, che – come anche evidenziato nella
    sentenza della CGUE del 16 luglio 2020 (p. 51) – mette in rilievo la necessita di
    ovviare, attraverso il sistema indennitario da essa contemplato, alle oggettive
    “difficoltà” – e non la “impossibilità” postulata dal ricorrente – che la vittima di reato
    intenzionale violento può incontrare nel conseguire il risarcimento del danno patito,
    in conseguenza di fattori diversi attinenti alla persona del reo (privo di risorse
    economiche sufficienti, non individuabile ovvero non perseguibile).
    Nè, sotto il profilo in esame, può avere diretto rilievo, stante la già rilevata diversità di
    oggetto e di petitum tra la causa risarcitoria promossa dall’attrice e la concessione
    dell’indennizzo ex lege, la disciplina recata dalla norma interna sopravvenuta di cui
    alla L. n. 122 del 2016, art. 12, comma 1, lett. b), come modificato dalla L. n. 167 del
    2017, art. 6, là dove richiede che la vittima “abbia già esperito infruttuosamente
    l’azione esecutiva nei confronti dell’autore del reato per ottenere il risarcimento del
    danno dal soggetto obbligato in forza di sentenza di condanna irrevocabile o di una
    condanna a titolo di provvisionale”, altresì precisando (per quanto interessa) che
    “tale condizione non si applica quando l’autore del reato sia rimasto ignoto oppure
    quando quest’ultimo abbia chiesto e ottenuto l’ammissione al gratuito patrocinio a
    spese dello Stato nel procedimento penale o civile in cui è stata accertata la sua
    responsabilità”.
    Peraltro, quanto appena evidenziato in sede di interpretazione della direttiva
    2004/80/CE potrebbe orientare, alla luce del canone dell’interpretazione adeguatrice
    della norma nazionale alla norma del diritto dell’Unione, anche la lettura della
    menzionata disciplina di accesso alla prestazione indennitaria de qua, la quale, se si
    misura direttamente con il profilo della insufficienza di risorse economiche in capo al
    reo e con quella della mancata individuazione del reo, tali da non poter soddisfare
    l’obbligazione risarcitoria in favore della vittima del reato, non esclude, di per sè, il
    rilievo, in forza di una lettura estensiva e secondo la ratio della norma
    sovranazionale, ulteriori oggettivi e seri ostacoli che possono presentarsi nel
    conseguimento da parte della stessa vittima del risarcimento ad essa spettante. E
    del resto in tal senso la norma interna è stata interpretata dallo stesso Stato italiano
    in quanto soggetto che ha in concreto provveduto all’erogazione dell’indennizzo in
    favore dell’attrice.
    Ciò posto, si palesa, dunque, adeguata e non illogica la motivazione del giudice di
    appello che – proprio in armonia con il principio innanzi enunciato, ancorando
    essenzialmente il proprio convincimento alla sussistenza di una condizione di non
    superabile difficoltà di carattere oggettivo, da potersi ricondurre, come
    esemplificazione fattuale, nel più ampio concetto di non perseguibilità del reo – ha
    posto in evidenza come l’attrice, pur essendosi costituita parte civile nel giudizio
    penale, non avrebbe potuto ottenere dagli autori dei reati commessi in suo danno
    “un qualsiasi anche parziale risarcimento”, essendosi costoro, segnatamente, resisi
    “latitanti nel giudizio di primo grado e tali (essendo) rimasti nel giudizio di appello”,
    tanto da rendere inutile l’esperimento di una causa civile al fine di conseguire, dagli
    stessi, il risarcimento del danno.
    Ne deriva, peraltro, la complessiva inconsistenza della doglianza che, alfine, lamenta
    (per i profili innanzi illustrati) la mancata integrazione della (terza) condizione di
    risarcibilità dell’illecito comunitario da parte dello Stato, essendo evidente la
    configurabilità del nesso di causa diretto tra la violazione dell’obbligo incombente allo
    Stato e il danno subito dalla vittima del reato per la tardiva trasposizione della
    direttiva 2004/80/CE. 3. – Con il terzo mezzo è dedotta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c.,
    comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1173, 2043, 2056 e 1226
    c.c.; dell’art. 185 c.p.; dell’art. 12 della direttiva 29 aprile 2004, n. 2004/80/CE; ed è,
    altresì denunciato, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, vizio di motivazione.
    La Corte territoriale avrebbe errato nella liquidazione del quantum debeatur,
    riconoscendo, “per il danno non patrimoniale” subito dall’attrice, la somma
    esorbitante di Euro 50.000,00, giacchè tale importo, corrispondente alla
    provvisionale riconosciuta, in favore della vittima, in sede penale, sarebbe finalizzato
    a ristorare integralmente la medesima delle “gravissime conseguenze di ordine
    morale e psicologico connesse al reato”. In tal modo, il giudice di appello, pur
    avendo astrattamente confermato il carattere indennitario dell’obbligazione a carico
    dello Stato per la mancata attuazione della direttiva, avrebbe, poi, in concreto
    confuso il concetto di risarcimento con la nozione di indennizzo, essendo, di fatto, la
    somma liquidata preordinata al ristoro integrale dei danni subiti dalla vittima, siccome
    commisurata alla provvisionale liquidata in sede penale.
    In definitiva, la Corte piemontese avrebbe incongruamente determinato il
    risarcimento a carico della Presidenza del Consiglio dei Ministri come se questo
    fosse chiamato a rispondere, quale diretto responsabile del reato, in sostituzione o in
    aggiunta all’effettivo autore del delitto, pur mancando, evidentemente, i presupposti
    che consentono la configurabilità di una responsabilità, diretta o indiretta, dello Stato
    per fatto altrui, ai sensi dell’art. 185 c.p.. Invero, i parametri di liquidazione
    dell’indennizzo dell’asserito danno conseguente al mancato recepimento della
    direttiva devono assumere una connotazione diversa rispetto ai criteri di
    determinazione del risarcimento del danno da illecito aquiliano.
    3.1. – Il motivo è fondato solo in parte e nei termini appresso precisati.
    3.1.1. – Occorre ribadire e puntualizzare, in primo luogo, quanto già evidenziato in
    precedenza (p. 1.1.) in ordine alla responsabilità dello Stato per omessa, incompleta
    o tardiva trasposizione di direttiva Eurounitaria nell’ordinamento interno, che riveste
    natura di illecito contrattuale e che, dunque, genera un’obbligazione risarcitoria in
    conseguenza di detto inadempimento, i cui effetti pregiudizievoli (perdita subita e
    mancato guadagno) sono da ristorare integralmente ai sensi dell’art. 1223 c.c. o con
    valutazione equitativa del danno non altrimenti dimostrabile nel suo preciso
    ammontare, ex art. 1226 c.c..
    In questa prospettiva – che tiene conto anzitutto del principio di ristoro integrale del
    pregiudizio effettivamente patito dal creditore danneggiato – va letto il principio
    espresso dalla giurisprudenza di Lussemburgo, già ricordato, per cui il danno da
    illecito comunitario può anche essere risarcito in forma specifica, con un
    adeguamento completo alle disposizioni della direttiva non autoesecutiva da parte
    del legislatore nazionale ad effetto retroattivo, se ciò è sufficiente a rimediare alle
    conseguenze pregiudizievoli della violazione del diritto unionale, fatta salva
    comunque la prova di un eventuale maggior danno subito per non aver potuto fruire,
    a suo tempo, dei vantaggi garantiti dalla norma (così anche CGUE, sentenza 10
    luglio 1997, C-373/95, Maso e a., punti 39-42). Maggior danno che può essere di
    natura patrimoniale o anche non patrimoniale, giacchè anche l’inadempimento
    contrattuale può dar luogo a quest’ultimo tipo di pregiudizio (art. 2059 c.c.)
    allorquando ricorrano le ipotesi espressamente previste dalla legge o sia stato leso
    in modo grave un diritto della persona tutelato dalla Costituzione (Cass., S.U., 11
    novembre 2008, n. 26972).
    3.1.2. – Ciò premesso, il criterio parametrico basilare per la valutazione e la
    liquidazione del danno patito dal soggetto danneggiato dall’inadempimento dello
    Stato nella tardiva attuazione della direttiva 2004/80/CE – al di là, quindi,
    dell’eventuale sussistenza di un maggiore pregiudizio – è, quindi, costituito
    dall’ammontare dell’indennizzo di cui esso, in quanto vittima del reato intenzionale
    violento, avrebbe avuto diritto ab origine come bene della vita garantito dall’obbligo
    di conformazione del diritto nazionale a quello dell’Unione.
    Posta, dunque, tale indefettibile correlazione, ne sussiste un’altra che attiene al
    contiguo profilo (con effetti, come si vedrà, sulla prima evidenziata correlazione) del
    rapporto tra indennizzo ai sensi del citato art. 12, par. 2, e risarcimento del danno in
    sede civile conseguente al reato di violenza sessuale.
    Tra i due diritti non vi è coincidenza, giacchè il primo – che risponde ad una esigenza
    di interesse generale volta a garantire un ristoro, altrimenti non conseguibile, alle
    vittime di determinati crimini che investono l’integrità, e la dignità, personale (cfr. i già
    richiamati “Considerando” 2 e 3) – è la risultanza di un intervento conformativo
    rimesso alla discrezionalità del legislatore, mentre per il secondo vale il principio, di
    più generale attinenza all’ambito dei danni alla persona e desumibile dagli artt. 2043
    e 2059 c.c., della integralità del ristoro delle conseguenze pregiudizievoli patite dalla
    vittima del fatto illecito commesso dal suo autore.
    Tuttavia, il “Considerando (6)” della direttiva 2004/80/CE afferma – per quanto qui
    interessa – che le vittime di reato nell’Unione Europea dovrebbero avere il diritto di
    ottenere “un indennizzo equo e adeguato per le lesioni subite”; in tal senso, poi,
    dispone lo stesso art. 12, par. 2, della medesima direttiva, prevedendo che il sistema
    di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti debba garantire “un indennizzo
    equo ed adeguato delle vittime”.
    Dunque, la discrezionalità legislativa, pur significativa, deve comunque essere
    necessariamente orientata dai criteri di “equità” ed “adeguatezza”, imposti dall’art.
    12, par. 2, della citata direttiva.
    3.1.3. – Nella specie, la tardiva trasposizione della direttiva 2004/80/CE – che, nei
    confronti di vittima non transfrontaliera di reati intenzionali violenti commessi
    nell'(OMISSIS), è avvenuta, come detto, soltanto a seguito dell’intervento novellatore
    di cui alla L. n. 167 del 2017, entrata in vigore il 12 dicembre 2017 – ha comportato il
    riconoscimento in favore dell’avente diritto vittima del “reato di violenza sessuale di
    cui all’art. 609-bis c.p.” (“salvo che ricorra la circostanza attenuante della minore
    gravità”) di un indennizzo dapprima quantificato, in base al decreto del Ministro
    dell’interno 31 agosto 2017 (emanato ai sensi della L. n. 122 del 2016, art. 11,
    comma 3 e successive modifiche), in un “importo fisso di Euro 4.800”. Importo che,
    soltanto a seguito del decreto del Ministro dell’interno del 22 novembre 2019
    (successivo, dunque, alla pubblicazione dell’ordinanza interlocutoria n. 2964 del
    2019, di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 234, par. 3, TFUE), è stato elevato, per
    lo stesso reato, alla misura fissa di “Euro 25.000”; valore incrementabile di un
    ammontare fino al massimo di Euro 10.000,00 per spese mediche e assistenziali.
    3.1.4. – Questa Corte, con la citata ordinanza interlocutoria n. 2964 del 2019,
    dubitando della rispondenza ai criteri del citato par. 2 dell’art. 12 della direttiva
    dell’importo indennitario di Euro 4.800, ha chiesto alla Corte di giustizia dell’Unione
    Europea di pronunciarsi (anche) sul seguente quesito: “b) se l’indennizzo stabilito in
    favore delle vittime dei reati intenzionali violenti (e, segnatamente, del reato di
    violenza sessuale, di cui all’art. 609-bis c.p.) dal decreto del Ministro dell’interno 31
    agosto 2017 (emanato ai sensi della L. 7 luglio 2016, n. 122, art. 11, comma 3
    (Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia
    all’Unione Europea – Legge Europea 2015-2016) e successive modificazioni (recate
    dalla L. 20 novembre 2017, n. 167, art. 6 e dal della L. 30 dicembre 2018, n. 145, art.
    1, commi 593-596)) nell’importo fisso di Euro 4.800″ possa reputarsi “indennizzo
    equo ed adeguato delle vittime” in attuazione di quanto prescritto dall’art. 12, par. 2,
    della direttiva 2004/80″.
    Ciò sulla base di talune premesse (cfr., segnatamente, p.p. 75-78, 82-89), che
    muovono dal fornire concretezza ai criteri anzidetti, essendosi assunto che: a) il
    “criterio dell’equità” è, in generale, volto ad assicurare che l’indennizzo (e, dunque, la
    misura del suo importo) consideri anzitutto la gravità intrinseca del reato (nella
    specie, di violenza sessuale), come tale ponendo le vittime, in ragione della loro
    uguale dignità, in una situazione di tendenziale parità di trattamento; b) il “criterio
    dell’adeguatezza” richiede, invece, la individuazione di parametri di
    personalizzazione dell’indennizzo, tali da poter orientare la sua misura definitiva
    (anche là dove si venga a stabilire un massimale indennitario) in ragione di quelle
    circostanze, soggettive e oggettive, dell’accadimento criminoso violento, la cui
    rilevanza può essere tradotta in paradigmi guida della liquidazione.
    Di qui, pertanto, le conclusive considerazioni secondo cui sarebbe possibile
    ravvisare una consonanza non solo tra detti criteri e quelli di liquidazione equitativa
    del danno non patrimoniale conseguente al reato di violenza sessuale (“sebbene
    non si possa (nè si debba) poi addivenire ad una coincidenza necessaria di esiti, tra
    il risarcimento e l’indennizzo”: cfr. p. 87), ma, soprattutto, “in modo particolarmente
    significativo, proprio nell’esercizio della discrezionalità del legislatore italiano nel
    conformare gli indennizzi elargibili ai sensi delle leggi innanzi ricordate (ossia, le
    leggi volte a riconoscere indennizzi in favore delle vittime del terrorismo e della
    criminalità organizzata), avendo esso legislatore assunto, come guida della
    liquidazione, parametri “equi” (nella fissazione di importi in ragione della gravità dei
    reati violenti indennizzati) ed “adeguati” (nel dare rilievo ad una liquidazione
    ancorata anche alle circostanze concrete dell’accadimento criminoso)” (p. 88).
    3.1.5. – La CGUE, con la sentenza del 16 luglio 2020, ha risposto al predetto quesito
    dichiarando: “(l’art. 12, paragrafo 2, della direttiva 2004/80 dev’essere interpretato
    nel senso che un indennizzo forfettario concesso alle vittime di violenza sessuale
    sulla base di un sistema nazionale di indennizzo delle vittime di reati intenzionali
    violenti non può essere qualificato come “equo ed adeguato”, ai sensi di tale
    disposizione, qualora sia fissato senza tenere conto della gravità delle conseguenze
    del reato per le vittime, e non rappresenti quindi un appropriato contributo al ristoro
    del danno materiale e morale subito”.
    Più in dettaglio, la CGUE ha posto in risalto (cfr. p.p. 57-69) che: a) nella
    determinazione dell’indennizzo gli Stati membri godono di un margine di
    discrezionalità; b) il sistema indennitario “non deve necessariamente corrispondere
    al risarcimento del danno che può essere accordato, a carico dell’autore di un reato
    intenzionale violento, alla vittima di tale reato”; c) l’indennizzo, di conseguenza “non
    deve necessariamente garantire un ristoro completo del danno materiale e morale
    subito dalla vittima”; d) l’indennizzo, tuttavia, non può essere “puramente simbolico o
    manifestamente insufficiente alla luce della gravità delle conseguenze del reato”
    intenzionale violento; e) l’indennizzo “rappresenta un contributo al ristoro del danno
    materiale e morale subito da queste ultime” e, quindi, “può essere considerato “equo
    ed adeguato” se compensa, in misura appropriata, le sofferenze alle quali esse sono
    state esposte”; f) l’art. 12, par. 2, della direttiva “non può essere interpretato nel
    senso che osta a un indennizzo forfettario di tali vittime, in quanto la somma
    forfettaria assegnata a ciascuna vittima può variare a seconda della natura delle
    violenze subite”; g) lo Stato membro che opti per il regime forfettario di indennizzo
    “deve provvedere affinchè la misura degli indennizzi sia sufficientemente dettagliata,
    così da evitare che l’indennizzo forfettario previsto per un determinato tipo di
    violenza possa rivelarsi, alla luce delle circostanze di un caso particolare,
    manifestamente insufficiente”; h) la “violenza sessuale… (è) un reato, tra quelli
    intenzionali violenti, che può provocare le conseguenze più gravi”.
    Alla luce di tali considerazioni, la CGUE, nel concreto, ha ritenuto, quindi, che, “fatta
    salva la verifica da parte del giudice del rinvio, un importo forfettario di EURO 4.800
    per l’indennizzo della vittima di violenza sessuale non sembra corrispondere, prima
    facie, a un “indennizzo equo ed adeguato”, ai sensi dell’art. 12, paragrafo 2, della
    direttiva 2004/80″ (p. 68).
    3.1.6. – Ai fini della decisione in questa sede – poste le interferenti correlazioni di cui
    si è detto (indennizzo art. 12 direttiva/risarcimento per illecito comunitario, da un lato,
    indennizzo art. 12 direttiva/risarcimento danno da reato, dall’altro), assume specifico
    rilievo, dunque, la funzione omologa assolta da indennizzo di cui alla direttiva
    2004/80/CE e risarcimento del danno civile in favore della vittima del reato di
    violenza sessuale, essendo entrambi, seppur (come detto) non coincidenti quanto ai
    presupposti e titoli dell’erogazione, nonchè ai valori economici necessariamente
    implicati, comunque volti a ristorare (il primo in misura non integrale come invece il
    secondo) il danno morale e materiale subito dalla stessa vittima.
    Ristoro che, per l’indennizzo, non deve, comunque, essere puramente simbolico,
    ma, anche là dove forfettariamente determinato, deve tener conto delle peculiarità
    del crimine e della sua gravità, soprattutto in termini di conseguenze effettuali, che,
    nella specie, vedono vulnerate non solo l’integrità, ma anche la dignità personale e
    la sfera di autodeterminazione della libertà sessuale (soprattutto, se non
    esclusivamente, nella c.d. violenza di genere).
    3.1.7. – In forza di quanto illustrato, le censure di parte ricorrente sono prive di
    fondamento, giacchè la sentenza impugnata ha colto, anzitutto, la differenza
    giuridica e concettuale tra indennizzo ex art. 12, par. 2, della direttiva e risarcimento
    del danno civile per le conseguenze negative derivate alla vittima del reato nel caso
    di specie rilevante, evidenziando come il ristoro per la perdita del primo (seppure – in
    forza di una lettura in jure della sentenza delle Sezioni Unite n. 9147/2009 non del
    tutto coerente, sul punto, con la giurisprudenza ad essa successiva di cui si è dato
    conto al precedente p. 1.1. erroneamente qualificando come “indennizzo” anche
    quel ristoro che rappresenta, invece, il risarcimento del danno contrattuale per il c.d.
    illecito comunitario; dovendosi, quindi, in parte qua soltanto correggere la
    motivazione ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c.) non poteva pienamente coincidere con
    il secondo, sebbene, poi, la perdita subita dall’attrice in conseguenza del mancato
    conseguimento dell’indennizzo per la mancata trasposizione dello Stato italiano della
    direttiva 2004/80/CE (dunque, il risarcimento del danno per l’illecito comunitario) era
    da liquidarsi, in via equitativa, in relazione alle “gravissime conseguenze di ordine
    morale e psicologico connesse al reato”.
    E in tal senso il fatto che – diversamente dalla liquidazione operata in primo grado
    (per un ammontare di Euro 90.000,00) – la Corte territoriale abbia fatto riferimento
    alla provvisionale stimata dal giudice penale (Euro 50.00,00) conferma
    (contrariamente a quanto opinata dalla P.C.M. ricorrente) come il riconosciuto
    risarcimento per l’illecito comunitario non fosse volto a riparare integralmente il
    danno patito dalla vittima della violenza sessuale.
    Si tratta, dunque, di liquidazione equitativa, in base all’art. 1226 c.c., che non solo
    non trascende nell’arbitrarietà (così da violare il paradigma legale di riferimento o da
    palesarsi decisione sorretta da motivazione al di sotto del consentito “minimo
    costituzionale”; cfr. anche Cass., 13 settembre 2018, n. 22272 e Cass., 20 giugno 20
    giugno 2019, n. 16595), ma che, anzi, collocandosi nell’alveo dei principi sopra
    enunciati, tiene in debito conto, anzitutto, la evidenziata funzione omologa delle due
    poste – indennitaria e risarcitoria civile per il danno da reato -, pur nella loro
    riconosciuta diversità causale e di consistenza economica.
    Inoltre, ai fini della considerazione della naturale correlazione tra misura
    dell’indennizzo stabilito normativamente in attuazione della direttiva 2004/80/CE e
    quella del risarcimento del danno per la mancata (tempestiva) trasposizione dell’art.
    12, par. 2, citato, la stima di quest’ultimo operata dalla Corte territoriale, se, da un
    lato, non può rinvenire il proprio referente parametrico privilegiato nella posta
    indennitaria stabilita con il D.M. 31 agosto 2017, in Euro 4.800,00 (avendo la stessa
    Corte di giustizia ritenuto, “prima facie”, la non corrispondenza di detto indennizzo ai
    criteri di equità ed adeguatezza imposto dall’anzidetta norma della direttiva), mostra,
    per altro verso, come non possa ravvisarsi quel carattere di esorbitanza che la
    ricorrente ascrive alla decisione impugnata, giacchè, proprio a seguito dell’intervento
    dello stesso Stato tenuto all’erogazione ex lege, recato dal più recente D.M. 23
    novembre 2019, si è di gran lunga ristretta la forbice tra il liquidato quantum
    risarcitorio e il valore dell’indennizzo stabilito dal successivo e più recente D.M. 22
    novembre 2019, che per le vittime del reato di violenza sessuale ha previsto
    l’importo base fisso di Euro 25.000,00, con possibilità di incremento per spese
    mediche e assistenziali fino, come detto, ad un ammontare che può giungere,
    complessivamente, al massimo ad Euro 35.000,00.
    Ciò posto, la liquidazione equitativa del giudice di appello va apprezzata anche in
    coerenza con la domanda svolta dall’attrice di risarcimento di tutti i danni “subiti e
    patendi” (cfr. p. 4 sentenza di appello) – e, dunque, pure di quelli derivati dal
    “mancato godimento” del beneficio, tra cui la pretesa di ristoro di pregiudizi
    patrimoniali e non patrimoniali specificamente dedotti (p. 4 controricorso,
    corrispondente a quanto si rinviene nelle pp. da 39 a 43 dell’atto di citazione) – e
    come tale il quantum debeatur risulta ancorato ad una perdita (morale e materiale)
    patita dall’attrice che si è potuta alimentare pure in ragione del tempo trascorso in
    attesa della trasposizione della direttiva 2004/80/CE, non ancora effettuata, del
    resto, al momento della decisione di secondo grado (e anzi, come detto,
    procrastinatasi sino al dicembre 2017).
    In ciò è consentito, quindi, ravvisare quel maggior danno subito dall’avente diritto per
    non aver potuto beneficiare, a suo tempo, dei vantaggi garantiti dalla norma
    attributiva del vantaggio (così anche CGUE, sentenza 10 luglio 1997, C-373/95,
    Maso e a., punti 39-42). Profilo, questo, per un verso, non attinto da congruente e
    tempestiva censura di parte ricorrente (là dove l’assunto che si rinviene a p. 3 della
    memoria da ultimo depositata – secondo cui l’attrice non ha richiesto “il risarcimento
    di ulteriori danni patiti per non aver potuto fruire a suo tempo dei vantaggi pecuniari
    introdotti dalle leggi nazionali del 2016 e del 2017″ – oltre ad essere smentito dal
    tenore dell’atto di citazione, non può integrare l’originaria doglianza, avendo la
    memoria funzione solo illustrativa delle ragioni di impugnazione fatte
    tempestivamente valere); mentre, per altro verso, dà contezza e ragione di quanto
    anticipato al p. 1.1.1. in ordine all’insussistenza dei presupposti per una declaratoria
    di cessazione della materia del contendere.
    Il perimetro e i contenuti dell’impugnazione (della sola P.C.M.), unitamente all’esito
    dello scrutinio che precede, rendono, quindi, irrilevanti ulteriori valutazioni circa
    l’effettiva rispondenza ai criteri di equità ed adeguatezza della misura dell’indennizzo
    ex lege corrisposto da ultimo all’attrice nella misura fissata con D.M. 23 novembre
    2019, difettando di rilevanza, pertanto, anche le rinnovate sollecitazioni della
    controricorrente (con la memoria da ultimo depositata) ad investire il Giudice delle
    leggi dei dubbi di costituzionalità della fonte normativa di rango primario da cui esso
    indirettamente promana.
    3.2. – Nel contesto della denuncia di parte ricorrente che investe, in toto, il profilo del
    quantum debeatur deve, però, trovare rilievo proprio il fatto sopravvenuto della
    corresponsione in favore dell’originaria attrice e attuale controricorrente
    dell’indennizzo di cui alla L. n. 122 del 2016, e successive modificazioni, in quanto
    vittima di reato intenzionale violento.
    Corresponsione che – come detto – è avvenuta dapprima per l’importo di Euro
    4.800,00, di cui dà atto la stessa sentenza della CGUE del 16 luglio 2020 (p. 26), e
    poi per l’importo di Euro 25.000,00, di cui al D.M. 23 novembre 2019, che la stessa
    parte controricorrente (con la memoria da ultimo depositata) ha affermato di aver
    ricevuto in data 17 luglio 2020, quale somma “comprensiva del precedente importo
    di Euro 4.800,00″ (p. 41 della memoria).
    Pertanto, dal risarcimento dovuto all’attrice a titolo di danno per tardiva trasposizione
    nell’ordinamento interno della direttiva 2004/80/CE, liquidato dalla Corte di appello di
    Torino con la sentenza impugnata nella misura di Euro 50.000,00, oltre interessi
    legali dalla sentenza di primo grado (26 maggio 2012), deve essere detratta la
    somma di Euro 25.000,00 corrisposta all’attrice a titolo di indennizzo ex L. n. 12 del
    2016 e successive modifiche.
    3.3. – Queste le ragioni che sottendono all’applicazione anche al caso di specie
    dell’istituto della c.d. compensatio lucri cum damno (di seguito anche solo:
    compensatio).
    3.3.1. – Giova, anzitutto, rammentare che tale istituto è inteso dal diritto vivente (in
    base all’approdo nomofilattico avutosi con le quattro coeve sentenze del 22 maggio
    2018, dal n. 12564 al n. 12567, delle Sezioni Unite civili di questa Corte) “come
    regola di evidenza operativa per la stima e la liquidazione del danno”. E’, dunque, un
    punto di vista che – salvo interventi legislativi specifici e settoriali – si colloca
    essenzialmente all’interno della materia della responsabilità civile, dovendo il giudice
    farsi carico di stimare e liquidare un danno da fatto illecito e non già di dover
    riconoscere il diritto ad una provvidenza legale o ad un indennizzo assicurativo.
    Il fondamento positivo e assiologico della compensatio, dunque, si rinviene, in linea
    generale, all’interno della materia implicata, ossia nella norma dell’art. 1223 c.c., che
    esibisce sia il principio (di indifferenza), che la regola (causale) sui quali, anzitutto, si
    fonda l’istituto, salvo che esso non sia frutto di un’interposizione legislativa specifica,
    che nella specie – come si dirà più oltre – è dato ravvisare, sotto una determinata
    prospettiva, nella stessa L. n. 122 del 2016 e successive modificazioni.
    A tal riguardo, le citate sentenze hanno individuano alcuni criteri orientativi che
    costituiscono i pilastri comuni attraverso i quali selezionare la classe di casi ai quali
    poter applicare, o meno, il cumulo tra risarcimento e beneficio collaterale.
    I criteri filtranti sono tre: l’accertamento del nesso di causalità tra il fatto illecito e il
    beneficio; la valutazione della ragione giustificatrice del beneficio; la previsione
    legislativa di un meccanismo di surroga o rivalsa. Nel nostro caso, tuttavia,
    interessano i primi due, in quanto l’erogazione del beneficio collaterale proviene
    dallo stesso obbligato civile al risarcimento del danno.
    Quanto al primo di detti filtri, viene in rilievo il congiunto operare dei già menzionati
    principio di c.d. indifferenza (il patrimonio del danneggiato non deve patire le
    conseguenze negative derivate dal fatto illecito, ma neppure giovarsi di questo) e
    regola della causalità giuridica (in questo caso anzitutto come “regola di struttura”,
    prima ancora che “regola di funzione”), che segna il criterio in base al quale – ossia
    secondo la teoria della cd. regolarità causale, fondata sull’id quod plerumque accidit

danno e vantaggio devono essere collegati eziologicamente all’illecito e ciò a
prescindere dal titolo attributivo (legge o contratto che sia).
Il secondo criterio prescelto è, come detto, quello della “ragione giustificatrice
dell’attribuzione patrimoniale entrata nel patrimonio del danneggiato”, in quanto il
sistema ordinamentale non ammetterebbe la compensatio in forza di una mera
operazione contabile, di “una regola categoriale destinata ad operare in modo
bilancistico”, ma pretende la “giustizia del beneficio” e così suggerisce di verificare a
fondo la causa della sua attribuzione, perchè solo se questa esibisse una funzione
analoga a quella risarcitoria, propria dell’illecito, ne consentirebbe lo scomputo dal
risarcimento stesso.
L’actio finium regondorum viene, quindi, a fondarsi proprio su un’indagine per “classi
di casi”, volta a dare rilievo al legame tra la funzione assolta dal vantaggio e il
danno; al di là, dunque, del titolo o della fonte attributiva del primo, ciò che diventa
dirimente è l’esistenza o meno di detto stretto legame (od omologia funzionale),
spezzato il quale, il cumulo deve essere consentito.
Come detto, non interessa il terzo dei menzionati criteri filtranti, in quanto la
previsione di un meccanismo di recupero dell’indennizzo che si palesa come
strumento volto a soddisfare un’esigenza di etica nell’allocazione degli effetti del fatto
illecito – si rende necessaria in presenza di una situazione di duplicità di posizioni
pretensive di un soggetto verso due soggetti diversi tenuti, ciascuno, in base ad un
differente titolo (dunque, in presenza di un doppio rapporto bilaterale intersecantesi),
mentre non assume rilevanza là dove, come nella fattispecie, è unico il soggetto
(Amministrazione statale) obbligato al risarcimento del danno ed al pagamento della
posta indennitaria.
In questo caso trova applicazione il principio secondo il quale nelle “ipotesi in cui,
pur in presenza di titoli differenti, vi sia unicità del soggetto responsabile del fatto
illecito fonte di danni ed al contempo obbligato a corrispondere al danneggiato una
provvidenza indennitaria (…) vale la regola del diffalco, dall’ammontare del
risarcimento del danno, della posta indennitaria avente una cospirante finalità
compensativa” (così le citate sentenze delle Sezioni Unite. In precedenza, Cass.,
S.U., 11 gennaio 2008, n. 584, Cass., 14 marzo 2013, n. 6573, Cons. Stato, A.P., n.
1 del 2018; successivamente, tra le altre, Cass., 30 novembre 2018, n. 31007).
3.3.2. – Nel caso di specie, come detto, sussiste anche una interpositio legislatoris
che ha mutuato i principi dell’istituto sopra illustrati e previsto una regola settoriale
che ne ripropone direttamente gli effetti, muovendo – come non poteva non essere –
dall’ambito prospettico che guarda all’erogazione del beneficio collaterale.
L. n. 122 del 2016, art. 12, comma 1, lett. e) ed e-bis), (come novellato, in sequenza,
dalla L. n. 167 del 2017, art. 6, comma 1, lett. c) e dalla L. n. 145 del 2018, art. 1,
comma 593, lett. b), n. 1.1) e n. 1.2.), il quale disciplina le condizioni per l’accesso
all’indennizzo, dispone: “e) che la vittima non abbia percepito, in tale qualità e in
conseguenza immediata e diretta del fatto di reato, da soggetti pubblici o privati,
somme di denaro di importo pari o superiore a quello dovuto in base alle disposizioni
di cui all’art. 11; e-bis) se la vittima ha già percepito, in tale qualità e in conseguenza
immediata e diretta del fatto di reato, da soggetti pubblici o privati, somme di denaro
di importo inferiore a quello dovuto in base alle disposizioni di cui all’art. 11,
l’indennizzo di cui alla presente legge è corrisposto esclusivamente per la
differenza”.
La prospettiva, come detto, è dal lato del beneficio, che non sarà corrisposto o lo
sarà in misura decurtata dell’importo percepito aliunde, mentre nel caso di specie è il
risarcimento del danno a dover subire il diffalco in ragione della regola generale
innanzi illustrata.
Del resto, avendo l’attuale controricorrente percepito in misura piena l’indennizzo, la
mancata incidenza dell’aliunde perceptum su quest’ultima posta si giustifica
evidentemente in forza dell’essere il primo corresponsione a titolo non definitivo,
come non lo era in quel momento la condanna esecutiva al pagamento della somma
risarcitoria.
Tuttavia, anche la regola di settore ribadisce non solo valenza e portata della regola
generale, ma la stessa certa applicazione al caso di specie in base al riscontro dei
due criteri filtranti sopra ricordati.
Non può, infatti, dubitarsi – alla luce delle considerazioni già svolte – che sia il
risarcimento del danno da illecito comunitario, che l’indennizzo ex lege trovino la loro
comune sequenza determinativa, valutabile in termini di “conseguenza immediata e
diretta” (quale locuzione identica che si rinviene nell’art. 1223 c.c. e nel citato art. 12
e, dunque, innescante una verifica in base all’id quod plerumque accidit, secondo la
teoria della cd. regolarità causale) dal fatto comune generatore del reato intenzionale
e violento commesso in danno della vittima, in quanto indefettibile fulcro intorno al
quale si è muove la disciplina della direttiva 2004/80/CE, che ha dato origine
all’obbligo dello Stato di darne attuazione.
Così come è evidente la comune funzione omnicomprensiva, compensativa/
risarcitoria, svolta da entrambe le poste, ossia di garantire comunque alla vittima del
reato intenzionale violento un ristoro per le conseguenze pregiudizievoli, morali e
materiali, patite a seguito del crimine, non altrimenti risarcite dal reo.
Del resto, nella specie, l’omologia funzionale è ancor più evidente, essendo il
risarcimento del danno da illecito comunitaria (in buona parte) surrogato
dell’indennizzo di cui l’avente diritto non ha potuto godere in ragione
dell’inadempimento statale agli obblighi sovranazionali.
3.3.3. – L’attuale controricorrente, come detto, ha percepito l’indennizzo nella misura
di Euro 25.000,00 in data 17 luglio 2020, a seguito di provvedimento amministrativo
assunto il 20 aprile 2020 dal comitato di solidarietà per le vittime dei reati di tipo
mafioso e dei reati intenzionali violenti del Ministero dell’interno, che gestisce il
relativo.
Fondo di rotazione sul quale è versata la provvista per i benefici di legge (cfr.
documento n. 10 allegato all’ultima memoria difensiva).
Si tratta, dunque, di corresponsione intervenuta nel corso del presente giudizio di
legittimità, quale fatto pacifico, che non necessita di alcun accertamento da parte di
questa Corte.
Di tale fatto sopravvenuto il Collegio può e deve tenere conto ai fini della decisione.
In primo luogo, come da indirizzo consolidato di questa Corte (tra le altre, Cass., 24
settembre 2014, n. 20111), giova rammentare che la compensatio lucri cum damno
integra un’eccezione in senso lato, ossia non la prospettazione di un fatto
modificativo o impeditivo od estintivo del diritto altrui, ma una mera difesa in ordine
all’esatta globale entità del danno effettivamente patito dal danneggiato, entità che
resta l’oggetto iniziale della controversia e non è ampliata dalla detta valutazione.
Come tale, essa può anche essere rilevata d’ufficio dal giudice, il quale, per
determinarne l’esatta misura del danno risarcibile, può fare riferimento, per il
principio dell’acquisizione della prova, a tutte le risultanze del giudizio.
Nel caso in esame, però, sia l’esistenza del fatto sopravvenuto, che gli effetti giuridici
dello stesso in termini di presupposto per l’applicazione dell’istituto della
compensatio sono stati dedotti e discussi dalle parti.
Segnatamente, la controricorrente, con l’ultima memoria (p. 43), ha ammesso, oltre
che l’effettiva percezione dell’indennizzo, di non poter: “nega(re) che tra le
“componenti” del danno liquidato in via equitativa dalla Corte territoriale sia da
annoverarsi il “fattore” costituito dall’indennizzo negato”, sebbene, poi, in sede di
discussione orale, nella pubblica udienza del 17 novembre 2020, ha genericamente
contestato potersi operare il diffalco.
Parte ricorrente aveva già dedotto in sede di giudizio dinanzi alla Corte di giustizia
(p. 26 della sentenza) il riconoscimento dell’indennizzo nella misura di Euro 4.800,00
e, con l’ultima memoria, ha insistito, come già rilevato, sulla valenza addirittura
elidente delle ragioni creditorie dell’indennizzo previsto dal D.M. 23 novembre 2019,
là dove, poi, in sede di ultima discussione orale, ha evidenziato l’esigenza di
contenere il quantum debeatur attraverso lo scomputo dell’indennizzo percepito dalla
controricorrente.
Infine, anche il pubblico ministero, in sede di ultima discussione orale, ha
argomentato al riguardo, concludendo per la detrazione dell’indennizzo dall’importo
risarcitorio liquidato dal giudice di appello.
Sicchè, il contraddittorio sulla questione in esame deve ritenersi adeguatamente
spiegato e in guisa tale da non rendere necessaria una interlocuzione delle parti
stesse ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 3, in quanto tale norma richiede come
presupposto, per l’appunto, un rilievo officioso.
In secondo luogo, questa Corte può conoscere del fatto sopravvenuto rappresentato
dall’erogazione dell’indennizzo avvenuta in base al provvedimento amministrativo di
riconoscimento e ciò facendo applicazione di quell’orientamento di questa Corte,
risalente ma non più contraddetto, formatosi in materia di espropriazione per
pubblica utilità e, segnatamente, nel caso di azione di risarcimento di danni per
occupazione illegittima di un suolo da parte della pubblica amministrazione.
Orientamento in forza del quale si è affermato che l’emanazione sopravvenuta del
decreto di espropriazione per pubblica utilità, configurandosi quale fatto estintivo
dell’azionato diritto risarcitorio, “costituisce factum superveniens, equiparabile allo
jus superveniens, che, per l’osservanza del principio della L. 20 marzo 1865, n.
2248, ex artt. 4 e 5, allegato E, in ordine all’intangibilità dell’atto amministrativo da
parte dell’AGO e della sua applicazione ove conforme a legge, può essere utilmente
dedotto per la prima volta anche nel corso della discussione orale in sede di
legittimità, ove la relativa prova documentale non trova ostacolo nei limiti di
ammissibilità ex art. 372 c.p.c.” (Cass., 26 marzo 1980, n. 2010; Cass., 14 maggio
1981, n. 3173; Cass., 17 aprile 1982, n. 2341).
In tal senso, anche l’erogazione del beneficio (indennizzo ex L. n. 122 del 2016), in
forza del presupposto provvedimento amministrativo di riconoscimento, ha inciso
direttamente ed immediatamente sul diritto soggettivo al risarcimento del danno fatto
valere nel giudizio di merito e sull’oggetto dibattuto nel giudizio stesso, operando in
via di ridimensionamento del quantum debeatur in applicazione delle norme e dei
principi giuridici (generali e di settore) innanzi illustrati.
La sua deducibilità dinanzi a questa Corte va, quindi, ammessa per analogia a
quanto si ritiene in punto di applicabilità immediata nel giudizio di cassazione dello
ius superveniens, là dove il factum superveniens sia idoneo ad incidere sull’oggetto
della causa sottoposta all’esame del giudice, essendo tale – e, quindi, equiparabile
allo jus superveniens – allorchè il contenuto della situazione giuridica controversa
abbia avuto (come avvenuto anche nel caso di specie) una definitiva modificazione a
seguito di provvedimento della pubblica amministrazione.
Di qui, pertanto, anche il superamento dei limiti di prova della documentazione del
fatto sopravvenuto rispetto a quanto prevede l’art. 372 c.p.c., non vertendosi in
ambito di “atto istruttorio del giudizio di cassazione”, ma sul piano della “conoscenza
che il giudice di legittimità può avere sia della norma giuridica sopravvenuta sia del
fatto sopravvenuto, equiparabile alla prima nei sensi sopra delineati” (così la citata
Cass. n. 2010/1980).
In questa prospettiva appare significativo il rilievo (da ascriversi alla risalente Cass.,
17 aprile 1972, n. 1204) secondo cui, a fronte di una situazione mutata “per il
sopravvenire di un fatto nuovo nella accezione di nuove circostanze di fatto, la
disciplina giuridica di tale immutazione è del tutto analoga a quella che si
determinerebbe a seguito della pubblicazione di una disposizione legislativa
applicabile alla materia del contendere (ius superveniens). Non si tratta, qui, di porre
riparo a una colpevole omissione, ma, fermo restando l’assoluto divieto di attività
assertiva di fatti non dedotti nella precedente fase del – giudizio, si deve saggiare se
un troppo spinto formalismo impedisca di ottenere nel corso del giudizio di rinvio, in
armonia con il fondamentale principio della economia processuale, quello stesso
risultato utile che altrimenti sarebbe giocoforza riconoscere aliunde, attraverso il
ricorso ad altri istituti processuali, o che addirittura resterebbe definitivamente
pregiudicato”. Sebbene tali argomenti la sentenza citata abbia speso in riferimento
esclusivo al giudizio di rinvio conseguente alla cassazione (art. 394 c.p.c.), essi – alla
luce della successiva giurisprudenza innanzi richiamata e del principio della durata
ragionevole del processo ex art. 111 Cost., nel cui più ampio ambito trova garanzia il
ricordato canone dell’economia processuale – corroborano ulteriormente il
ragionamento giustificativo dell’estensione del principio di equiparabilità del factum
superveniens allo jus superveniens anche nel giudizio di cassazione, ove in esso,
beninteso, non si ponga questione alcuna di accertamento del fatto medesimo, così
da mantenere intatti nella loro natura e funzione i poteri del giudice di legittimità,
nonchè struttura e morfologia del giudizio di cassazione.
3.3.4. – Vanno, pertanto, rigettati i primi due motivi di ricorso e accolto, per quanto di
ragione e nei termini di cui innanzi, il terzo motivo.
La sentenza impugnata va, dunque, cassata in relazione al motivo accolto e, poichè

essendo pacifico, come detto, il fatto sopravvenuto del pagamento dell’indennizzo –
non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa va decisa nel merito, ai
sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2. Pertanto, dall’importo risarcitorio liquidato dalla
Corte territoriale di Euro 50.000,00, oltre interessi legali dalla sentenza di primo
grado in data 26 maggio 2010 (alla data della decisione, del 17 novembre 2020, per
complessivi Euro 5.022,43) essendo già avvenuta la conversione del credito di
valore in valuta – va detratto l’importo di Euro 25.000,00 a titolo di indennizzo ex lege
erogato in data 17 luglio 2020, con imputazione dello stesso, ai sensi dell’art. 1194
c.c., dapprima agli interessi medio tempore maturati (Euro 5.017,34) e poi alla
somma capitale (nella misura residua di Euro 19.982,66). Ne consegue che la
Presidenza del Consiglio dei ministri va condannata al pagamento, in favore
dell’attuale controricorrente, della somma di Euro 30.022,43, oltre interessi legali
dalla anzidetta data della decisione al saldo.
In forza di una valutazione complessiva dell’esito della lite, deve ritenersi del tutto
preponderante la soccombenza della parte attualmente ricorrente (che ha visto
accogliere solo residualmente l’impugnazione in questa sede e in ragione del factum
superveniens; esito che, per altro verso, elide comunque i presupposti per una
condanna ai sensi dell’art. 96 c.p.c., commi 1 e 3), ciò comportando che la stessa
parte deve sopportare integralmente le spese dell’intero giudizio (comprensivo
dell’incidente processuale dinanzi alla CGUE ai sensi dell’art. 234, par. 3, TFUE, in
cui gli esborsi trovano giustificazione in forza della documentazione allegata alla
memoria da ultimo depositata: doc. da 11.1 a 11.5), come liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
rigetta i primi due motivi di ricorso e accoglie il terzo motivo nei termini di cui
in motivazione;
cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo la
causa nel merito, condanna la Presidenza del Consiglio dei ministri, in
persona del Presidente del Consiglio in carica, al pagamento, in favore della
controricorrente, della somma di Euro 30.022,43, oltre interessi legali dal 17
novembre 2020 al saldo;
condanna, inoltre, la Presidenza del Consiglio dei ministri al pagamento, in
favore della controricorrente, delle spese dell’intero giudizio che liquida: in
Euro 2.000,00 per diritti, Euro 6.000,00 per onorari ed Euro 600,00 per esborsi,
oltre accessori di legge, per il primo grado; in Euro 1.200,00 per diritti, Euro
7.300,00 per onorari, oltre spese forfettarie ed accessori di legge, per il
secondo grado; in Euro 15.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie
nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 e in Euro
1.171,91, e agli accessori di legge;
dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le
generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52
e successive modificazioni.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Terza civile della
Corte suprema di Cassazione, il 17 novembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 24 novembre 2020.