Sentenza, Corte Suprema di Cassazione, V Sezione Penale, 9 dicembre 2020, N. 34983, Responsabilità medica – Omicidio ex art. 584 c.p.:

In questa occasione, i giudici di legittimità hanno evidenziato che risponde di omicidio preterintenzionale il medico che sottoponga il paziente ad un intervento, dal quale consegua la morte di quest’ultimo, in assenza di finalità terapeutiche, oppure per fini estranei alla tutela della sua salute. Dunque, il medico che agisca in assenza di fine curativo, causando una malattia del corpo o della mente del paziente commette il delitto di lesioni volontarie, oppure il delitto di omicidio preterintenzionale qualora dalle lesioni derivi l’evento morte del paziente, ovvero ancora il delitto di omicidio volontario se sia dimostrato il dolo eventuale del sanitario secondo i criteri dettati dalle Sezioni Unite nel 2014. Di converso, non risponde di omicidio preterintenzionale ma di omicidio colposo, il medico che, nonostante l’esito infausto, abbia agito per salvare la vita del paziente pur violando una regola cautelare.

Corte Suprema di Cassazione, V Sezione Penale, 9 dicembre 2020, N. 34983:


Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DE GREGORIO Eduardo – Presidente –
Dott. PEZZULLO Rosa – Consigliere –
Dott. DE MARZO Giuseppe – Consigliere –
Dott. SESSA Renata – Consigliere –
Dott. BRANCACCIO Matilde – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
PROCURATORE GENERALE PRESSO CORTE D’APPELLO DI MILANO;
nel procedimento a carico di:
B.M.P.P., nato a (OMISSIS);
nel procedimento a carico di quest’ultimo:
P.P.F., nato a (OMISSIS);
inoltre:
ICCS ISTITUTO CLINICO CITTA’ STUDI S.P.A.;
S.M.;
EUKOS;
ORDINE PROVINCIALE DEI MEDICI CHIRURGHI E DEGLI ODONTOIATRI DI
MILANO;
(OMISSIS) ONLUS;
ATS CITTA’ METROPOLITANA MILANO GIA’ ASL;
REGIONE LOMBARDIA;
avverso la sentenza del 19/10/2018 della CORTE ASSISE APPELLO di MILANO;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. MATILDE BRANCACCIO;
udito il Sostituto Procuratore Generale Dr. GIORDANO LUIGI che ha concluso
chiedendo l’annullamento con rinvio limitatamente all’esclusione dell’aggravante di
cui all’art. 61 c.p., n. 2;
rigetto nel resto.
uditi i difensori delle parti civili i difensori presenti:

avv. Lamantia, per S.M., che si riporta alle conclusioni che deposita unitamente alla
nota spese;

avv. Forloni, in proprio e in qualità di sostituto processuale, che si riporta alle
conclusioni che deposita unitamente alla nota spese.
uditi per gli imputati i difensori presenti:

avv. Mocchi, per P., che chiede venga dichiarata l’inammissibilità del ricorso del
PG;

avv. Fornari, per B.M., il quale, dopo aver brevemente illustrato i motivi di ricorso,
ne chiede l’accoglimento;

avv. Madia, per B.M., che conclude chiedendo il rigetto del ricorso del PG.
Svolgimento del processo

Con la decisione in epigrafe, datata 19.10.2018, la Corte d’Assise d’Appello di
Milano, decidendo in sede di rinvio dopo l’annullamento da parte della Prima
Sezione Penale della Corte di cassazione (sentenza n. 14776 del 3/4/2018) della
precedente sentenza d’appello resa nel processo e datata 21.12.2015, ha
riqualificato nei confronti di B.M.P.P. e P.P.F. i capi 46-47-48 e 49 dell’imputazione da
omicidio volontario in omicidio preterintenzionale; ha escluso per le medesime
contestazioni la circostanza aggravante di cui all’art. 61 c.p., comma 1, n. 2, ed ha
confermato il giudizio della precedente sentenza d’appello quanto alle circostanze
attenuanti generiche, riconosciute nei confronti di P. sin dal primo grado e sempre
negate a B.M..
La pena finale è stata, così, rideterminata in anni 15 di reclusione per B.M. e in anni
7 e mesi 8 di reclusione per P., confermando nel resto la sentenza appellata e
condannando entrambi gli imputati, in solido con il responsabile civile Istituto Clinico
Città Studi s.p.a. di (OMISSIS), alla rifusione delle spese a favore delle costituite
parti civili. Gli imputati, entrambi medici chirurghi in servizio all’epoca dei fatti presso
l’Unità Operativa di Chirurgia Toracica della clinica Casa di Cura Santa Rita s.p.a. di
(OMISSIS) – Br. Massone quale “Primario”, dirigente medico responsabile dell’unità
operativa, e P. quale “Aiuto”, componente della medesima equipe chirurgica – sono
stati accusati di aver realizzato una serie di interventi chirurgici privi di finalità
terapeutiche, alcuni di essi caratterizzati dall’elevato rischio di morte per i pazienti,
già affetti da patologie gravi, e senza un valido loro consenso, e condannati dai
giudici di merito in primo grado e nella prima sentenza d’appello per omicidio
volontario, ritenendo sussistente il nesso di causalità tra le condotte chirurgiche e le
lesioni ed i decessi seguiti ad esse, nonchè, dal punto di vista soggettivo, l’elemento
psicologico del dolo eventuale.
L.r.d.t.a.e.s.r.a.v.d.f.c.i.m.f.a.c.c.d.c.p.c.i.c.o.r.n.d.d.R.L.m.r.s.d.S.(.d.D.O.i.f.
E.d.e.s.c.a.n.e.d.f.i.a.p.e.t.a.c.i.c.a.c.d.i.p.l.p.d.-.t.c.c.a.i.c.d.u.a.m. P.M. – sono stati
dichiarati prescritti dalla prima sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Milano, del
21.12.2015.
Dopo l’annullamento con rinvio, molte delle numerose, ulteriori condotte contestate
(soprattutto di lesioni personali) risultano coperte dal giudicato, non essendo state
colpite dal giudizio rescindente, mentre le imputazioni tuttora sottoposte a giudizio
sono quelle relative, quanto a B.M., alle morti dei pazienti S.A., di anni 85 (capo 46);
V.G.C., di anni 82 (capo 47); S.M.L., di anni 65 (capo 48); D.G.E., di anni 89 (capo
49).
P. risponde tuttora, invece, soltanto degli omicidi S. e V., in concorso con B.M..
I fatti risalgono agli anni tra il 2005 ed il 2006, secondo le contestazioni.
I due attuali imputati, peraltro, sono stati al centro di un ulteriore processo, nato da
una prima serie di imputazioni seguite alle indagini e relative a numerose condotte di
lesioni volontarie anche pluriaggravate, truffa e falso riferite ad altri ottantotto, diversi
interventi chirurgici, processo concluso con sentenza definitiva di condanna per
entrambi, acquisita in atti (il passaggio in giudicato è stato sancito dalla sentenza n.
35104 del 22.6.2013 della Corte di cassazione ed ampiamente riportato dalla
decisione rescindente nel presente processo, da pag. 17 in poi, al par. 2.1.).

Avverso la pronuncia della Corte d’Assise d’Appello hanno proposto ricorso sia
l’imputato B.M.P.P., tramite i difensori di fiducia avv. Fornari Luigi e avv. Madia
Nicola, che il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di
Milano.

Il ricorso del Procuratore Generale, lamentandosi anzitutto del travalicamento da
parte della sentenza rescindente dei limiti del sindacato di legittimità, evidenzia tre
distinti motivi e chiede l’annullamento con rinvio del provvedimento impugnato
perchè riediti il giudizio di rinvio nel suo complesso.
3.1. Il primo argomento di censura attiene, infatti, alla violazione complessiva del
vincolo di rinvio, scaturita dall’equivoco sul reale contenuto delle indicazioni della
sentenza di annullamento della Prima Sezione Penale.
La sentenza impugnata ha mal interpretato le indicazioni del giudice di legittimità ed
ha inteso ritrovare in quegli indicatori o fattori di carenza motivazionale, individuati
analiticamente dalla motivazione del provvedimento rescindente, altrettanti elementi
negativi per la configurabilità del coefficiente soggettivo del dolo eventuale,
necessario alla configurabilità del delitto di omicidio volontario.
In realtà, la Corte di cassazione ha soltanto evidenziato il difetto motivazionale della
sentenza annullata quanto alla ricostruzione dell’elemento psicologico dei diversi
delitti di omicidio volontario attribuiti agli imputati, segnalando la potenziale valenza
contraria alla configurabilità del dolo eventuale di alcuni elementi fattuali, che,
tuttavia, potevano invece essere valutati anche come neutri o valorizzati
diversamente nel senso di ritenere provato il suddetto coefficiente volontaristico, non
avendo la Prima Sezione Penale preso posizione in un senso o nell’altro. L’equivoco
interpretativo del giudice del rinvio ha, invece, viziato tutto il suo percorso
decisionale che, pertanto, viola il vincolo previsto dall’art. 627 c.p.p., comma 3.
Analoga violazione riscontra il Procuratore Generale nella presa di posizione, a suo
giudizio evidente, della Corte d’Assise d’Appello in favore di una riqualificazione delle
condotte, di fatto, quali omicidi colposi con colpa cosciente, ritenendo di dover
riesaminare la finalità terapeutica nella sua prospettiva soggettiva come realtà
psicologica e ciò facendo pur nella consapevolezza del giudice del rinvio del
giudicato formatosi sulla qualificazione delle condotte come dolose, essendo stata
lasciata aperta dal giudizio rescindente soltanto l’alternativa tra qualificazione
preterintenzionale o volontaria degli omicidi.
Tale ulteriore aporia implica ancora una volta una sostanziale elusione e violazione
del vincolo ex art. 627 c.p.p., comma 3, avendo viziato il giudizio della Corte di
merito nelle specifiche analisi dei risultati probatori, valutati per ciascuna
contestazione di omicidio.
3.2. Il secondo motivo di ricorso deduce violazione dell’art. 597 c.p.p., comma 1, per
avere i giudici del rinvio escluso la circostanza aggravante del nesso teleologico
degli omicidi con il reato di truffa, nonostante tale punto della decisione non sia stato
travolto dall’annullamento, che ha riguardato unicamente la sussistenza del dolo di
omicidio volontario piuttosto che di quello di omicidio preterintenzionale e i profili
sanzionatori eventualmente conseguenti ad una diversa qualificazione giuridica dei
fatti all’esito del giudizio di rinvio, nonchè i motivi difensivi ritenuti “assorbiti”
espressamente indicati dalla Prima Sezione Penale nel diniego delle attenuanti
generiche e del mancato riconoscimento della prevalenza delle stesse
sull’aggravante del nesso teleologico con il reato di truffa, la cui sussistenza, tuttavia,
neppure le difese degli imputati avevano messo in dubbio.
La valutazione sulla sussistenza dell’aggravante del nesso teleologico, pertanto,
secondo il Procuratore Generale, doveva essere ritenuta coperta da giudicato.
3.3. In ogni caso, la sentenza impugnata è censurabile – ed è questo il terzo motivo
proposto – anche per la valutazione di merito svolta quanto all’insussistenza
dell’aggravante del nesso teleologico tra gli omicidi preterintenzionali ed il reato di
truffa. E’ errata la prospettazione della Corte d’Assise d’Appello là dove evidenzia
che, se l’intervento chirurgico, pur incongruo e inappropriato, è stato realmente
effettuato, il rimborso da parte del Servizio Sanitario è realmente dovuto e non è
frutto di un comportamento decettivo.
Viceversa, l’indicazione dolosa di un intervento chirurgico inutile configura una
condotta sussumibile nel reato di falso ideologico poichè integra un comportamento
decettivo che induce il SSN a rimborsare indebitamente un intervento che in realtà
non doveva essere effettuato.
La stessa sentenza rescindente, peraltro, ha accertato definitivamente che, nel caso
in esame, gli imputati operarono animati da mero fine di lucro o di affermazione
personale e professionale.

B.M.P.P. propone un unico motivo di ricorso, doppiamente articolato, relativo alla
mancata concessione al ricorrente delle circostanze attenuanti generiche ed alla
dosimetria sanzionatoria, in relazione alla quale si evidenzia un vizio motivazionale
di contraddittorietà ed illogicità, là dove la Corte d’Assise d’Appello non ha rapportato
il proprio giudizio di disvalore per la pena base al minimo edittale consentito, pari a
dieci anni di reclusione, nè ha motivato sull’entità degli aumenti di pena per la
continuazione.
4.1. Quanto alla dosimetria sanzionatoria, il ricorso evidenzia – per entrambi i
ricorrenti – come i giudici del rinvio, dopo aver correttamente rimodulato il disvalore
complessivo dei fatti, addirittura lasciando chiaramente intendere la propensione ad
una riqualificazione delle condotte secondo un coefficiente soggettivo colposo
piuttosto che doloso, pur consapevoli del limite invalicabile del giudicato già
formatosi sulla configurazione alternativa dei fatti come omicidio preterintenzionale
ovvero omicidio volontario con dolo eventuale, non ne hanno tratto le conseguenze
in termini di commisurazione della pena e non si sono parametrati ai limiti minimi
edittali previsti per la fattispecie di cui all’art. 584 c.p..
4.2. Il ricorrente lamenta, altresì, la mancata concessione delle circostanze
attenuanti generiche, negate perchè l’imputato non si sarebbe opposto al sistema
spregiudicato di profitti, imposto da un vero e proprio vincolo organizzativo della
casa di cura Santa Rita, ma anzi lo avrebbe condiviso ed alimentato, pensando che
acquisire sempre nuovi, ulteriori pazienti e implementare le quote di rimborsi pubblici
rientrasse tra i suoi compiti. Tali argomentazioni sono contraddittorie rispetto alla
ricostruzione leggibile nel percorso complessivo e specifico della sentenza che
indica un atteggiamento colposo, piuttosto che doloso nell’esecuzione delle attività
chirurgiche contestate al ricorrente, e sono incompatibili anche con talune
osservazioni svolte dai giudici del rinvio rispetto al contenuto delle intercettazioni,
richiamate in più punti della motivazione, nelle quali si dà atto di una propensione del
ricorrente a non considerare malato e malattia solo come fonti di guadagno e di
profitto e della sua attitudine, anche eccessiva, a considerare la bontà del proprio
lavoro ritenuto innovativo.
Infine, non può ritenersi logica la richiesta di un comportamento oppositivo del
ricorrente alle logiche di profitto della clinica presso cui lavorava, logiche che la
stessa Corte d’Assise d’Appello mostra di ritenere di per sè normali, soprattutto se
non assistite da una volontà dolosa degli operatori chirurgici, ma sostanzialmente
colposa, secondo l’impostazione leggibile nella sentenza impugnata.

In data 4.12.2019 è stata depositata una memoria con note d’udienza da parte di
P.P.F., a firma del suo difensore Avv. Mocchi Mauro, con cui si chiede che venga
dichiarata l’inammissibilità o che venga rigettato il ricorso del pubblico ministero,
evidenziando la bontà argomentativa del provvedimento impugnato, il rispetto del
vincolo di rinvio, e la correttezza della decisione assunta nei confronti dell’imputato,
condannato solo per le fattispecie preterintenzionali, sulla base di un’analisi accurata
degli elementi fattuali emersi nel corso dei giudizi di merito.
La difesa sostiene, altresì, la piena legittimazione del giudice del rinvio a procedere
ad una nuova verifica della sussistenza dell’aggravante del nesso teleologico tra i
reati di omicidio e la truffa ai danni del servizio sanitario, poichè al giudizio
rescissorio non si applica l’obbligo di esaminare solo i punti specificamente annullati,
ma, nell’ambito del capo colpito dall’annullamento, sussiste invece piena autonomia
di giudizio nella ricostruzione del fatto, nell’individuazione e valutazione dei dati,
nonchè nel formare il proprio libero convincimento.
Peraltro, soggiunge la difesa, i reati di truffa in relazione ai quali il pubblico ministero
chiede venga riconosciuta l’aggravante del nesso teleologico sono stati tutti
dichiarati estinti per prescrizione, sicchè essi non possono neppure essere posti alla
base di un effettivo riconoscimento di responsabilità per tali condotte e, tanto meno,
dunque, possono essere utilizzati per ritenere configurata l’aggravante dell’aver
commesso gli omicidi preterintenzionali al fine di realizzarli.

In data 22.9.2020 è stata depositata memoria da parte della difesa di B.M. che
rappresenta come il ricorso del PG sia composto da tre motivi tutti inammissibili per
manifesta infondatezza.
In particolare, quanto al secondo motivo, la difesa dell’imputato opina che non si
sarebbe formato il giudicato sul tema della sussistenza o meno della circostanza
aggravante del nesso teleologico, essendo stata devoluta dal giudice di legittimità a
quello di rinvio la questione relativa al trattamento sanzionatorio che inevitabilmente
porta con sè quella presupposta della configurabilità dell’aggravante nel caso degli
omicidi ascritti al ricorrente.
Sul terzo motivo di ricorso del PG la memoria si sofferma per evidenziarne l’inutilità,
non essendo l’argomento della fondatezza dell’accusa per i reati di truffa rilevante
nel percorso argomentativo della Corte d’Appello anche per la prescrizione dei reati
già dichiarata.
Motivi della decisione

Tutti i motivi di ricorso di entrambi i ricorrenti sono inammissibili, eccezion fatta per
la violazione del vincolo di rinvio lamentata dal Procuratore Generale quanto
all’aggravante del nesso teleologico, esclusa dal provvedimento impugnato,
nonostante la valutazione su di essa non fosse stata devoluta ex art. 627 c.p.p. al
giudice di merito.
E’ opportuno, tuttavia, ricostruire la complessa vicenda processuale determinatasi
nella fase rescindente e rescissoria, per riuscire ad analizzare con maggiore
efficacia e precisione le singole obiezioni dei ricorrenti.

La sentenza rescindente.
La Prima Sezione Penale della Corte di cassazione ha annullato la prima sentenza
d’appello, dunque, quanto ai capi d’imputazione 46, 47, 48 e 49, limitatamente al
profilo del dolo di omicidio volontario ed alla loro relativa, corrispondente
qualificazione giuridica in tal senso, operata sia in primo che in secondo grado
coerentemente sino a quel momento, tanto che B.M.P.P. era stato per questo
condannato, dopo il primo giudizio d’appello, alla pena dell’ergastolo con isolamento
diurno per anni uno e mesi sei, mentre P.P.F. alla pena di 24 anni e 4 mesi di
reclusione.
I giudici di legittimità hanno premesso una ricostruzione della vicenda, che, in
estrema sintesi, muove dalla sua genesi, collegata alle indagini scaturite dai dubbi
sulla correttezza delle richieste di rimborso degli interventi di chirurgia presentate
dalla Casa di cura Santa Rita, presso la quale, negli anni 2004-2005, era stato
riscontrato un aumento anomalo degli interventi operatori e del valore di produzione,
ritenuto inspiegabile a fronte dell’incremento di soli sette posti letto, e prosegue
incentrandosi sul fatto che le indagini, rilevando anche il numero elevato di decessi
di pazienti, il cui aumento corrispondeva peraltro proporzionalmente all’aumento
degli interventi chirurgici, accertavano ciò che ha costituito la piattaforma probatoria
dei giudizi di merito, anche grazie all’utilizzo di intercettazioni telefoniche: gli
interventi chirurgici erano stati effettivamente eseguiti, sicchè non si trattava
formalmente di prestazioni simulate; tuttavia, si profilavano reati contro la persona
per interventi operatori effettuati con la finalità specifica di conseguire profitto
personale e per la struttura, in assenza di indicazioni terapeutiche o diagnostiche.
Il complesso percorso motivazionale e decisorio della Prima Sezione Penale è
sfociato, quindi, nel respingere molti dei motivi di ricorso proposti anche con riguardo
ai quattro capi di imputazione tuttora “aperti” al giudizio di legittimità, sicchè si è
formato un giudicato parziale sugli aspetti delle condotte che afferiscono alla loro
materialità ed al nesso causale con gli eventi mortali dalle stesse scaturiti.
In particolare, la sentenza rescindente ha chiuso ogni spazio di configurabilità al
coefficiente psicologico della colpa, sub specie della “colpa medico-professionale”
ritenendo la natura dolosa dell’attività medico-chirurgica contestata agli imputati,
poichè priva di qualsiasi legittimazione giustificativa di ordine terapeutico e, d’altra
parte, decidendo per la sussistenza del nesso eziologico tra le singole condotte
lesive e la morte dei pazienti, sicchè l’alternativa che viene lasciata “aperta” è solo
quella tra qualificazione giuridica di tali condotte mediche come omicidio volontario,
qualora fosse stato ritenuto “corretto” e confermato, quindi, il giudizio di sussistenza
dell’animus necandi, ovvero come omicidio preterintenzionale, soffermandosi, altresì,
sull’inquadramento interpretativo di tale figura delittuosa con particolare attenzione
all’attività sanitaria.
Secondo la sentenza rescindente, il dolo di lesioni personali, benchè accertato e
conseguente all’assoluta mancanza di giustificazione e legittimazione medicochirurgica degli interventi operatori in esame, in quanto privi di qualsiasi reale finalità
diagnostica, curativa o anche solo palliativa, non consente di attenuare tout court
l’onere di provare il ben diverso dolo omicidiario, ancorchè solo eventuale (mentre,
alla luce di una serie di considerazioni svolte dalla Corte di cassazione, nel caso di
specie, il dolo di lesioni personali viene ritenuto determinante di per sè alla
configurabilità della fattispecie di omicidio preterintenzionale).
Si individuano poi gli approdi della giurisprudenza di legittimità più recente in tema di
dolo eventuale e omicidio (citando Sez. U, n. 38343 del 24/4/2014, Espenhahn, Rv.
261104) secondo cui tale atteggiamento della volontà implica non soltanto la
semplice accettazione di una situazione di rischio, ma l’accettazione di un evento
definito e concreto che deve essere stato ponderato dall’autore del reato come costo
accettato dell’azione realizzata per conseguire il fine perseguito e, in definitiva,
richiede pur sempre l’adesione dell’agente all’evento, per il caso che esso si verifichi
come conseguenza anche non direttamente voluta della propria condotta.
Si espongono, inoltre, secondo una prospettiva più marcatamente probatoria, i
possibili elementi indicatori del dolo eventuale, sempre seguendo la giurisprudenza
recente delle Sezioni Unite.
Infine, si indicano le ragioni sulla base delle quali, alla luce delle considerazioni in
diritto svolte, le motivazioni della sentenza annullata, pur parzialmente corrette, non
sono sufficienti a sostenere con certezza che si sia raggiunta prova della
sussistenza del dolo eventuale del delitto di omicidio per ciascuna delle
contestazioni mosse agli imputati.
In particolare, con indicazione che costituisce anche il “cuore” del vincolo di rinvio ai
sensi dell’art. 627 c.p.p., la Prima Sezione Penale evidenzia come la sentenza
annullata avrebbe eluso il nucleo fondamentale del ragionamento probatorioargomentativo necessario per l’affermazione della sussistenza del ridetto elemento
psicologico, nei termini richiesti dalle Sezioni Unite, che esigono la puntuale e
rigorosa verifica della ricorrenza – in relazione a ciascuno dei quattro eventi mortali –
dell’elemento volontaristico tipico del dolo, costituito non solo dalla rappresentazione
del decesso del paziente come conseguenza della condotta dell’agente priva di reale
giustificazione medico-chirurgica e animata dalle motivazioni egoistiche sopra
descritte, e non tanto dalla mera accettazione del rischio di verificazione del relativo
evento, quanto soprattutto dalla concreta adesione psichica all’accadimento
dell’evento-morte, mediante il positivo accertamento della determinazione volitiva
degli imputati di agire comunque e dopo aver valutato l’eventuale prezzo da pagare,
anche a costo di causare la morte del paziente, pur di perseguire e realizzare il fine
primario della condotta.
L’inadeguatezza del percorso motivazionale seguito dai giudici di merito per
giustificare la condanna degli imputati a titolo di omicidio volontario discenderebbe
specificamente dall’aver attribuito una dirimente capacità dimostrativa, agli effetti
della prova del dolo eventuale di omicidio, ad elementi di natura indiziaria che – se
sono stati correttamente utilizzati e valorizzati sul piano della prova della
irriconducibilità della condotta degli imputati a un esercizio lecito dell’attività medicochirurgica, e della conseguente affermazione della natura dolosa della lesione
dell’integrità fisica dei pazienti cagionata da interventi operatori privi di ogni
legittimazione – non possono invece valere di per sè a integrare la prova (anche)
della sussistenza dell’elemento psicologico, diverso e ulteriore, del più grave delitto
di cui all’art. 575 c.p., ma dovevano essere sottoposti ad un autonomo vaglio critico
nell’ambito del più ampio giudizio inferenziale volto a ricostruire l’iter decisionale
dell’agente e il correlativo atteggiamento psichico nei riguardi dell’evento più grave
concretamente verificatosi (la morte del paziente), ispirato alla fondamentale regula
iuris per cui la prova dell’imputazione soggettiva più grave (piuttosto che di quella ex
art. 584 c.p.) deve essere raggiunta al di là di ogni ragionevole dubbio La sentenza
rescindente indica il campo dell’omissione motivazionale della sentenza annullata: è
mancato il confronto puntuale con altri elementi indicatori, di potenziale segno
contrario, emersi dalle risultanze istruttorie, o comunque con la possibile lettura
alternativa, sollecitata dalla difesa degli imputati, di taluni degli elementi presi in
esame dai giudici di merito.
Tali indicatori contrari vengono individuati nei seguenti:

  • la storia e le pregresse esperienze professionali dei prevenuti, sotto il profilo della
    possibile convinzione dei chirurghi B.M. e P. di essere in grado, sulla base
    dell’esperienza maturata, di controllare il rischio operatorio, per quanto ingiustificato,
    al quale avevano deciso di sottoporre i pazienti;
  • il loro comportamento contestuale o immediatamente successivo all’intervento
    chirurgico causativo del decesso, talora caratterizzato da una fattiva e spontanea
    opera soccorritrice (per quanto non andata a buon fine), come nel caso del tentativo
    di clampaggio e delle manovre di recupero poste in essere, a seguito dell’emorragia
    conseguente a lacerazione cardiaca, nel corso dell’intervento operatorio riguardante
    il paziente S.A., sotto il profilo della compatibilità con un atteggiamento di
    accettazione adesiva – ex ante – della verificazione dell’evento morte;
  • la stessa probabilità oggettiva di accadimento dell’evento, verificata, dal punto di
    vista (antecedente) dell’agente e della percezione che questi ne aveva avuto, da
    apprezzarsi anche con riferimento all’effettiva incidenza numerico/proporzionale dei
    casi accertati di morte del paziente eziologicamente riconducibili all’intervento
    operatorio, rispetto al ben più ampio e consistente numero di interventi chirurgici privi
    di giustificazione ascritti agli imputati nel periodo esaminato, oggetto dei due
    processi celebrati a loro carico;
  • le conseguenze negative, ordinariamente prevedibili ex ante, anche per gli imputati/
    agenti, della verificazione dell’evento mortale, sotto il profilo personale, professionale
    e del rischio processuale notoriamente connesso agli accertamenti doverosi
    dell’autorità giudiziaria in caso di decesso del paziente durante o subito dopo
    l’operazione;
  • l’elemento di valutazione controfattuale, sintetizzato nella c.d. prima formula di
    Frank, fondato sulla capacità delle concrete acquisizioni probatorie di dimostrare, al
    di là di ogni ragionevole dubbio, che gli imputati non si sarebbero trattenuti dalla
    condotta operatoria illecita (perchè priva di legittimazione medico-chirurgica)
    neppure se avessero avuto contezza della sicura verificazione della morte del
    paziente, accettandone l’eventualità.
    Infine, la motivazione della sentenza d’appello è stata ritenuta illogica dalla sentenza
    rescindente anche nella parte in cui ha attribuito valenza indiziante del dolo di
    omicidio a condotte post factum degli imputati – come quelle consistite nella mancata
    richiesta dell’esame autoptico dei pazienti deceduti a seguito dell’intervento
    chirurgico o nell’omessa indicazione nelle schede di morte da essi redatte della
    possibile incidenza causale dell’intervento stesso nell’esito letale – senza confrontarsi
    criticamente con l’ipotesi, plausibile, della possibile insorgenza dell’elemento
    psichico che ha animato tali condotte soltanto in un momento successivo alla
    verificazione dell’evento (morte), in funzione di un interesse sopravvenuto a elidere o
    ridurre il rischio di accertamento di una propria responsabilità, non necessariamente
    riconducibile a un atteggiamento volitivo di natura dolosa preesistente all’intervento
    operatorio.
  1. La sentenza rescissoria.
    La Corte d’Assise d’Appello di Milano, nella pronuncia rescissoria, ha dato conto del
    percorso motivazionale e delle ragioni della pronuncia di annullamento dei giudici di
    legittimità, nei termini sopra indicati, ed ha evocato i criteri interpretativi in tema di
    dolo eventuale esposti dalle Sezioni Unite nella citata sentenza Espenhahn. I giudici
    del rinvio, inoltre, hanno ritenuto che, dalla pronuncia di annullamento, dovesse
    ricavarsi – per come formulato il percorso motivazionale – una conseguenza
    preliminare quanto al perimetro di indagine sul dolo dei reati di omicidio volontario: la
    questione relativa alla sussistenza del dolo eventuale del reato di omicidio volontario
    era ancora in discussione soltanto per gli episodi omicidiari diversi dalla morte di
    S.A.; in relazione a quest’ultima, infatti, l’attivarsi degli imputati immediatamente
    dopo l’intervento chirurgico per impedire il decesso attraverso il tentativo di
    clampaggio e le manovre di recupero costituisce indicatore inconciliabile con
    quell’atteggiamento di accettazione adesiva ex ante della verificazione dell’evento
    morte, che – come si è visto – rientra tra i fattori necessari di verifica al fine di stabilire
    la configurabilità del coefficiente psicologico in esame.
    Negli altri tre casi, invece, la Corte di merito rileva dall’indicazione di rinvio che
    ancora si rendeva possibile la prospettazione del dolo eventuale del delitto di cui
    all’art. 575 c.p..
    Ciò posto, i giudici del rinvio evidenziano immediatamente l’angusto spazio riservato
    alla configurabilità della fattispecie di omicidio volontario in tema di responsabilità
    penale del medico, ridotto ad ipotesi eccezionali e comunque alla necessaria
    compresenza di fattori casistici e fattuali ben determinati:
  • una condotta arbitraria del medico (non assentita o addirittura rifiutata dal
    paziente);
  • atti medici che non siano più tali perchè privi di qualsiasi finalità terapeutica;
  • violazione consapevole e deliberata delle leges artis ed esito mortale;
  • previsione del decesso e sua accettazione con un atteggiamento interiore
    assimilabile alla volizione, che può desumersi solo qualora l’evento collaterale non
    direttamente voluto sia non così frequente o eclatante da elidere il fine primario
    perseguito dall’agente (denaro, successo accademico e professionale o altro).
    Da tale premessa logica e dall’analisi della sentenza rescindente che, secondo i
    giudici del rinvio, avrebbe evidenziato già di per sè “indicatori negativi” del dolo nei
    casi di specie, contemporaneamente individuandoli come oggetto della carenza
    motivazionale da integrare, la Corte d’Assise d’Appello di Milano giunge alla
    conclusione che non si è raggiunta la prova del coefficiente volitivo del dolo
    eventuale del delitto di omicidio volontario per ciascuna delle contestazioni mosse
    agli imputati, non essendo sufficiente la sola rappresentazione con accettazione del
    rischio dell’evento morte: non vi è prova certa, in altre parole, che gli imputati
    abbiano condiviso un atteggiamento psichico, espressione di una loro scelta
    razionale di ponderata, consapevole e funzionale adesione al fatto che dalle loro
    condotte potesse derivare la morte di ciascuno dei quattro pazienti per i quali vi è
    contestazione delittuosa.
    La Corte esamina analiticamente ognuna delle quattro imputazioni (passando in
    rassegna le prove, costituite dai risultati delle intercettazioni, intervenute solo anni
    dopo i fatti, dal raffronto delle consulenze tecniche d’accusa e di parte privata, dalle
    dichiarazioni di testimoni tecnici e degli stessi imputati) e, per ciascuna, evidenzia
    l’impossibilità di ritenere provato e, dunque, sussistente il dolo eventuale del delitto
    di omicidio volontario, spiegando, inoltre, perchè invece ritiene configurabili
    altrettante fattispecie di omicidio preterintenzionale (e, anzi, in alcuni passaggi,
    lasciando intendere come il confine tra il coefficiente doloso necessario alla
    configurabilità della preterintenzionalità e la colpa cosciente sia per i giudici assai
    labile nel caso di specie).

Il ricorso del Procuratore Generale.
Il ricorso è parzialmente fondato, quanto al secondo motivo, nei termini che si
esporranno di seguito.
4.1. Il primo motivo del ricorso della parte pubblica, riferito alla violazione del vincolo
di rinvio quanto alla scelta della configurabilità della fattispecie di omicidio
preterintenzionale piuttosto che di quella di omicidio volontario per le quattro ipotesi
di contestazione oggetto del giudizio rescissorio, è infondato.
Il vincolo di rinvio non è stato eluso nè in alcun modo violato dalla Corte d’Assise
d’Appello che, partendo da un accurato esame della motivazione del giudice di
legittimità, ha stabilito, alla stregua delle indicazioni ricevute, che nei fatti di omicidio
ascritti agli imputati non potesse individuarsi la presenza del coefficiente soggettivo
volontario riferito all’evento morte, ma solo il dolo del diverso delitto di lesioni, cui,
quando segue la morte della vittima, l’ordinamento penale ha ricollegato la
fattispecie di omicidio preterintenzionale.
Il giudice del rinvio, invero, ha dettato coordinate interpretative precise, sia in linea
generale che avuto riguardo alla specifica situazione processuale concreta,
puntando ad individuare indicatori logico-fattuali che, in concreto, tenuto conto della
giurisprudenza delle Sezioni Unite, guidassero il giudizio rescissorio.
4.2. Orbene, anzitutto il provvedimento impugnato ha tenuto conto della premessa
necessaria dell’indagine relativa alla corretta configurazione giuridica delle condotte
ascritte ai ricorrenti: non vi è spazio – seguendo il vincolo ex art. 627 c.p.p. per
ritenere la sussistenza di fattispecie colpose di omicidio, sub specie della colpa
professionale.
Deve premettersi che, dopo le più recenti riforme legislative in materia di colpa
medica (tra queste, in particolare, si ricorda la L. 8 marzo 2017, n. 24), la
giurisprudenza di legittimità ha chiarito come anche la nuova disciplina dettata
dall’art. 590-sexies c.p. – che, nel caso di evento lesivo o mortale verificatosi a causa
di imperizia dell’esercente la professione sanitaria, esclude la punibilità dell’agente il
quale abbia rispettato le raccomandazioni previste dalle linee guida ufficiali ovvero,
in mancanza di queste, le buone pratiche assistenziali, e sempre che tali
raccomandazioni risultino adeguate alle specificità del caso concreto – non trovi
applicazione: a) negli ambiti che, per qualunque ragione, non siano governati da
linee guida; b) nelle situazioni concrete in cui le suddette raccomandazioni debbano
essere radicalmente disattese per via delle peculiari condizioni del paziente o per
qualunque altra ragione imposta da esigenze scientificamente qualificate; c) in
relazione alle condotte che, sebbene collocate nell’ambito di approccio terapeutico
regolato da linee guida pertinenti e appropriate, non risultino per nulla disciplinate in
quel contesto regolativo, come nel caso di errore nell’esecuzione materiale di atto
chirurgico pur correttamente impostato secondo le raccomandazioni ufficiali (Sez. 4,
n. 28187 del 20/4/2017, Tarabori, Rv. 270213).
Le Sezioni Unite, per fare chiarezza sull’operatività dei criteri dettati normativamente
nelle cd. linee guida dell’attività medica, hanno stabilito, poi, che le raccomandazioni
contenute in tali linee guida, definite e pubblicate ai sensi della L. 8 marzo 2017, n.
24, art. 5 – pur rappresentando i parametri precostituiti a cui il giudice deve
tendenzialmente attenersi nel valutare l’osservanza degli obblighi di diligenza,
prudenza, perizia – non integrano veri e propri precetti cautelari vincolanti, capaci di
integrare, in caso di violazione rimproverabile, ipotesi di colpa specifica, data la
necessaria elasticità del loro adattamento al caso concreto; ne consegue che, nel
caso in cui tali raccomandazioni non siano adeguate rispetto all’obiettivo della
migliore cura per lo specifico caso del paziente, l’esercente la professione sanitaria
ha il dovere di discostarsene (Sez. U, n. 8770 del 21/12/2017, dep. 2018, Mariotti,
Rv. 272176).
Ed ancora ha precisato il massimo Collegio nomofilattico che l’art. 590-sexies c.p.,
introdotto dalla L. 8 marzo 2017, n. 24, art. 6, prevede una causa di non punibilità
applicabile ai soli fatti inquadrabili nel paradigma dell’art. 589 o di quello dell’art. 590
c.p., e operante nei soli casi in cui l’esercente la professione sanitaria abbia
individuato e adottato linee guida adeguate al caso concreto e versi in colpa lieve da
imperizia nella fase attuativa delle raccomandazioni previste dalle stesse; la
suddetta causa di non punibilità non è applicabile, invece, nè ai casi di colpa da
imprudenza e da negligenza, nè quando l’atto sanitario non sia per nulla governato
da linee-guida o da buone pratiche, nè quando queste siano individuate e dunque
selezionate dall’esercente la professione sanitaria in maniera inadeguata con
riferimento allo specifico caso, nè, infine, in caso di colpa grave da imperizia nella
fase attuativa delle raccomandazioni previste dalle stesse.
E’ evidente dalla breve rassegna di orientamenti appena esposta che la colpa
medica, anche in relazione all’omicidio derivato da un atteggiamento colposo
nell’esercizio della professione medica, trova il suo spazio di elezione e, al tempo
stesso, circoscrive l’ambito della sua applicabilità come coefficiente psicologico di
attribuzione della responsabilità al ventaglio di condotte mediche, anzitutto
chirurgiche, ispirate e motivate da una finalità terapeutica e funzionali alla cura del
paziente.
Solo nel caso in cui l’attività medico-chirurgica sia sorretta da una ragionevole
indicazione terapeutica, o tale indicazione sia ritenuta in buona fede dall’agente
comunque sussistente, con valutazione ex ante, la relativa attività deve considerarsi
in via di principio lecita e sindacabile sotto l’esclusivo profilo della colpa, in ipotesi di
errore operatorio ascrivibile a negligenza, imprudenza o imperizia.
Nel caso, invece, in cui l’intervento operatorio sia posto in essere in assenza di
qualsiasi ragionevole indicazione terapeutica, con condotta consapevolmente
estranea o distorta rispetto alle finalità diagnostiche o di cura, la condotta del
medico-chirurgo è destinata a risolversi in un’ordinaria attività lesiva di natura
dolosa.
In altre parole, e per tornare al caso all’esame del Collegio, risponde di omicidio
preterintenzionale il medico che sottoponga il paziente ad un intervento (dal quale
consegua la morte di quest’ultimo) in assenza di finalità terapeutiche, ovvero per fini
estranei alla tutela della salute del paziente, ad esempio provocando
coscientemente un’inutile mutilazione, od agendo per scopi estranei (scientifici,
dimostrativi, didattici, esibizionistici o di natura estetica), non accettati dal paziente;
al contrario, non ne risponde, nonostante l’esito infausto, il medico che sottoponga il
paziente ad un trattamento non consentito ed in violazione delle regole dell’arte
medica, quando nella sua condotta sia rinvenibile una finalità terapeutica, o
comunque la terapia sia inquadrabile nella categoria degli atti medici, poichè in tali
casi la condotta non è diretta a ledere, e l’agente, se cagiona la morte del paziente,
risponderà di omicidio colposo ove l’evento sia riconducibile alla violazione di una
regola cautelare (vedi, Sez. 4, n. 34521 del 26/5/2010, Huscher, Rv. 249818; vedi
anche Sez. 4, n. 28132 del 9/3/2001, Barese, Rv. 222579).
Ed in effetti, solo l’intervento chirurgico non orientato affatto da una finalità
terapeutica, anche solo di natura palliativa, smette di essere un atto medico che
trova la sua legittimazione nell’art. 32 Cost. e non si differenzia dalla condotta di
chiunque leda volontariamente l’integrità fisica altrui.
La sentenza Huscher, in particolare, ha chiaramente affermato principi utili a dirimere
ancora oggi i confini, nell’ambito della colpa medica, tra fattispecie colpose,
fattispecie preterintenzionali, azioni del tutto lecite perchè scriminate dalla finalità
terapeutica e dal consenso del paziente, ovvero non costituenti reato per assenza
del dolo di lesioni, stante la rilevata urgenza di praticare un intervento salvavita
anche in caso di mancato consenso del paziente.
Si è precisato, così, che in ipotesi di intervento medico-chirurgico con esito infausto,
il consenso del paziente che, se espresso validamente e nei limiti di cui all’art. 5 c.c.,
preclude la possibilità di configurare il delitto di lesioni volontarie, assumendo
efficacia scriminante, non è necessario, perchè l’intervento medico-chirurgico sia
penalmente lecito, in presenza di ragioni di urgenza terapeutica o nelle ipotesi
previste dalla legge.
Viceversa, in presenza di una manifestazione di volontà esplicitamente contraria
all’intervento terapeutico, l’atto, asseritamente terapeutico, costituisce un’indebita
violazione non solo della libertà di autodeterminazione del paziente, ma anche della
sua integrità; peraltro, in caso di esito fausto dell’intervento, la sussistenza di un
pericolo grave ed attuale per la vita o la salute del paziente, pur non scriminando la
condotta, esclude il dolo intenzionale di lesioni, in quanto il medico che interviene
nonostante il dissenso del paziente, si rappresenta la necessità di salvaguardarne,
cionondimeno, la vita o la salute poste in pericolo.
Nel caso degli imputati, già è stato chiarito ed ampiamente argomentato, sia dalla
sentenza rescindente della Corte di cassazione che dai giudici di merito – anche
dalla Corte d’Assise d’Appello nel provvedimento impugnato – come una serie di
elementi fattuali emersi grazie alle indagini svolte abbia fatto sì che venisse scoperto
quello che è stato chiamato il “sistema (OMISSIS)”: un numero impressionante di
interventi chirurgici dall’esito infausto, ultronei o realizzati al di fuori delle linee guida
scientificamente accettate, posti in essere dagli imputati, ed in particolare da B.M.,
con malriposta fiducia nella propria onnipotente capacità medica e per vanagloria
personale e ambizione, al fine di incrementare i ricoveri della clinica omonima e
conseguire posizioni di primo piano nella sanità pubblica per sè e per l’istituto
ospedaliero di riferimento.
La volontà di realizzare scientemente interventi chirurgici privi di ogni indicazione
terapeutica è stata ricavata, oltre che da precisi e convincenti accertamenti medici e
scientifici, anche dalla prova storica e dichiarativa, dalle intercettazioni degli stessi
imputati – che hanno sostanzialmente confessato quanto contestatogli, almeno per
ciò che concerne l’avventatezza della scelta chirurgica – e dalla concorrente assenza
di un valido consenso informato all’atto operatorio da parte del paziente, in
mancanza della quale l’efficacia scriminante dell’attività con finalità medica risulta
neutralizzata.
Ed è stato condivisibilmente affermato che la contrarietà dell’intervento operatorio
alla volontà effettiva del paziente (anche a fronte di un consenso acquisito, ma in
maniera indebita e arbitraria, che sia funzionale all’esecuzione di un intervento
estraneo a finalità terapeutiche), priva la condotta del medico-chirurgo del requisito
dell’autolegittimazione, travalicando i limiti della colpa e integrando l’elemento
psicologico del dolo, che consiste nell’accettazione piena e consapevole, in via
preventiva, dell’evento lesivo concretamente verificatosi, realizzando il delitto di cui
all’art. 582 c.p. (Sez. 4, n. 21799 del 20/04/2010, Rv. 247341, secondo cui integra il
reato di lesione personale dolosa la condotta del medico che sottoponga, con esito
infausto, il paziente a un trattamento chirurgico al quale costui abbia espresso il
proprio dissenso).
Ebbene, sotto questo primo, obbligante profilo, il vincolo di rinvio risulta senza
dubbio rispettato: il campo decisorio è stato subito sgombrato dall’ipotesi del delitto
colposo, aderendo alle indicazioni della Prima Sezione Penale che, nella sua
sentenza rescindente, lo aveva ristretto a due sole ipotesi: omicidio volontario o
preterintenzionale; conferendo, altresì, al giudice del rinvio gli strumenti ermeneutici
per consentire una scelta corretta e ponderata.
Su tale crinale di discrimine si è mossa correttamente la Corte d’Assise d’Appello,
non indulgendo affatto ad una rilettura delle condotte in chiave colposa, come ha
eccepito il Procuratore Generale ricorrente, bensì limitandosi a ribadire l’assetto
fattuale e giuridico di partenza di una vicenda complessa in cui molti elementi
dovevano essere rivalutati. 4.3. Partendo dalle premesse sopra dette, il giudice del
rinvio ha lavorato, poi, il materiale logico e probatorio rimessogli, alla ricerca della
chiave interpretativa che meglio rispecchiasse le indicazioni della sentenza di
annullamento della Cassazione. Orbene, nessuna elusione dei principi enucleati
dalla decisione rescindente vi è stata. Gli indicatori, di ordine generale e specifico,
riferiti questi ultimi ai fatti in concreto ascritti agli imputati, sono stati valutati per
come la Prima Sezione Penale – e la giurisprudenza di legittimità – li intendono.
A partire dalle Sezioni Unite n. 38343 del 24/4/2014, Espenhahn, infatti, si è
sostenuta la netta cesura tra colpa e dolo eventuale, battendo molto sulla necessità,
al fine di ritenere configurabile il secondo tra i due coefficienti soggettivi, che vi sia
prova del fatto che l’autore della condotta si sia confrontato realmente con l’evento
verificatosi nel caso concreto, aderendo psicologicamente ad esso, conferendo al
momento volontaristico anche nel dolo eventuale – un ruolo centrale e fondamentale,
superando in tal modo la teoria della semplice “accettazione del rischio”, intesa
come una generica situazione di rischio: l’accettazione deve riferirsi ad un evento
definito e concreto che deve essere stato ponderato dall’autore del reato come costo
“accettato” dell’azione realizzata per conseguire il fine perseguito.
E nel nostro caso, si tratta di un evento di fortissimo impatto psicologico: la morte del
paziente nell’immaginario del medico chirurgo che lo opera; un costo talmente alto,
in termini di ricadute complessive sull’autore della condotta, da richiedere una prova
estremamente rigorosa anche delle ragioni che abbiano motivato l’adesione interiore
ad un simile evento e la sua accettazione.
Nell’ottica delle Sezioni Unite, invero, l’adesione all’evento sostituisce, dunque, la
tradizionale espressione dell’accettazione del rischio e ciò implica non una mera
evoluzione lessicale e non soltanto un mutamento di una prospettiva dogmatica, ma
una presa di coscienza nuova circa i canoni ermeneutici ai quali fare riferimento
nell’indagine sul dolo eventuale, che non poteva continuare ad esistere come ipotesi
claudicante di dolo, o evanescente e insidiosa propaggine della colpa (cosciente),
ma doveva riprendere la scena volontaristica per riespandere la valenza definitoria
del coefficiente soggettivo doloso di attribuzione della responsabilità e ridare alla
relazione essenziale tra volontà e causazione dell’evento, voluta dall’art. 43 c.p.,
quella forza di canone essenziale e definitivo nella configurazione di qualsiasi forma
di dolo.
Il percorso tracciato con tale obiettivo dalle Sezioni Unite si è manifestato attraverso
l’individuazione di una serie di indicatori che aiutano l’interprete nella non semplice
analisi dell’elemento volontaristico del reato: a) la lontananza della condotta tenuta
da quella doverosa; b) la personalità e le pregresse esperienze dell’agente; c) la
durata e la ripetizione dell’azione; d) il comportamento successivo al fatto; e) il fine
della condotta e la compatibilità con esso delle conseguenze collaterali; f) la
probabilità di verificazione dell’evento; g) le conseguenze negative anche per l’autore
in caso di sua verificazione; h) il contesto lecito o illecito in cui si è svolta l’azione
nonchè la possibilità di ritenere, alla stregua delle concrete acquisizioni probatorie,
che l’agente non si sarebbe trattenuto dalla condotta illecita neppure se avesse
avuto contezza della sicura verificazione dell’evento (cosiddetta prima formula di
Frank).
In tali indicatori la Prima Sezione Penale ha lasciato che si specchiassero le
fattispecie concrete oggetto del processo, individuando a sua volta specifici elementi
rivelatori del dolo eventuale di omicidio, la cui mancanza correttamente è stata
interpretata dal giudice del rinvio come, appunto, la speculare prova dell’allontanarsi
delle ipotesi contestate dal paradigma dell’omicidio volontario con dolo eventuale,
per essere racchiuse in quello, invece, di omicidio con attribuzione
preterintenzionale, certa la volontarietà delle lesioni che si accingevano a procurare
ai pazienti i due imputati.
E non vi è dubbio che gli indici concreti esaminati abbiano una consistente e logica
valenza in tal senso.
Quanto al canone indicato dalle Sezioni Unite sub b), si sono correttamente messe
in risalto nel senso dell’insussistenza, in capo agli imputati, di un’ipotesi di
coefficiente soggettivo del tipo “dolo” – sia pur eventuale – la storia e le pregresse
esperienze professionali degli imputati: i due chirurghi B.M. e P. avevano la
convinzione di essere in grado, sulla base dell’esperienza maturata, di controllare,
sotto il profilo dell’evento morte, il rischio operatorio, per quanto ingiustificato, al
quale avevano deciso di sottoporre i pazienti.
Risponde al criterio indicatore enunciato dalle Sezioni Unite alla lettera d) l’aver
preso in esame il comportamento degli imputati contestuale o immediatamente
successivo all’intervento chirurgico causativo del decesso, che si è ritenuto non
indicativo di una volontaria accettazione dello specifico evento-morte come “costo”,
cui si è aderito, dell’azione realizzata, poichè sovente caratterizzato da una fattiva e
spontanea attività di soccorso (per quanto non andata a buon fine), come nel caso
del tentativo di clampaggio e delle manovre di recupero poste in essere, a seguito
dell’emorragia conseguente a lacerazione cardiaca, nel corso dell’intervento
operatorio riguardante il paziente Antonio S..
Quanto al parametro sub f) della sentenza Espenhahn, anche tale verifica si è risolta
in un ulteriore elemento di convincimento circa l’insussistenza del fattore soggettivo
del “dolo eventuale”: la probabilità oggettiva di accadimento dell’evento, infatti,
verificata dal punto di vista (antecedente) dell’agente e della percezione che questi
ne aveva avuto, e valutata anche e soprattutto con riferimento all’effettiva incidenza
proporzionale dei casi accertati di morte del paziente eziologicamente riconducibili
all’intervento operatorio, rispetto al ben più ampio e consistente numero di interventi
chirurgici privi di giustificazione ascritti agli imputati nel periodo esaminato, è risultata
inidonea in concreto ad integrare l’indicatore di sussistenza del dolo eventuale.
Ed ancora, si è tenuto conto, nella motivazione impugnata, del parametro sub g)
individuato dalla sentenza delle Sezioni Unite e si è verificato come sussistano
evidenti e gravi conseguenze negative anche per gli imputati, autori delle condotte,
derivate della verificazione di ciascun evento-morte in ragione del proprio operato
medico; conseguenze prevedibili ex ante e diffuse sotto il profilo personale,
professionale e del rischio palese di subire gli accertamenti doverosi quanto
sistematici dell’autorità giudiziaria in caso di decesso del paziente durante o subito
dopo l’operazione; conseguenze che minano dal punto di vista logico – come è stato
puntualmente sottolineato dai giudici d’appello – l’utilità di eseguire operazioni
chirurgiche con l’accettazione e l’adesione all’evento morte del paziente quale costo
della condotta.
Infine, l’indicatore di chiusura contraddistinto dalla lettera h) dell’elenco proposto
dalle Sezioni Unite – l’elemento di valutazione controfattuale, sintetizzato nella c.d.
prima formula di Frank – offre anch’esso un piano di verifica negativo, nel caso dei
ricorrenti, della prova del dolo eventuale per gli omicidi dei quali sono accusati; la
capacità delle concrete acquisizioni probatorie di dimostrare, al di là di ogni
ragionevole dubbio, che gli imputati non si sarebbero trattenuti dalla condotta
operatoria illecita (perchè priva di legittimazione medico-chirurgica), neppure se
avessero avuto contezza della sicura verificazione della morte del paziente,
accettandone l’eventualità, non è stata, infatti, ritenuta raggiunta dalla sentenza
impugnata. E tale conclusione trova adeguato confronto nella motivazione e
convincente trama negli elementi di prova esaminati.
4.4. Da quanto sinora esposto è evidente che l’analisi condotta dalla Corte d’Assise
d’Appello di Milano non soltanto non ha violato il vincolo di rinvio ma si è immersa
completamente in esso, lasciando che la decisione fosse infusa di quanto già aveva
acutamente ed attentamente osservato la sentenza rescindente, la quale,
enunciando i criteri concreti dei quali la prima sentenza d’appello non aveva tenuto
conto, aveva altresì inevitabilmente indicato al giudice di merito gli elementi di più
formidabile valenza probatoria nel senso dell’esclusione del dolo eventuale di
omicidio.
Del resto, la Corte di cassazione risolve una questione di diritto anche quando
giudica sull’adempimento del dovere di motivazione, sicchè il giudice di rinvio, pur
conservando la libertà di decisione mediante un’autonoma valutazione delle
risultanze probatorie relative al punto annullato, è tenuto a giustificare il proprio
convincimento secondo lo schema implicitamente o esplicitamente enunciato nella
sentenza di annullamento, restando in tal modo vincolato a una determinata
valutazione delle risultanze processuali (ex multis, Sez. 2, n. 45863 del 24/9/2019,
Marrini, Rv. 277999; Sez. 5, n. 7567 del 24/9/2012, dep. 2013, Scavetto, Rv.
254830) incorrendo altrimenti nel rischio di un altro annullamento, derivante dalla
reiterazione del percorso motivazionale già ritenuto inadeguato (Sez. 6, n. 19206 del
10/1/2013, Di Benedetto, Rv. 255122; Sez. 1, n. 26274 del 6/5/2004, Francese, Rv.
228913).
Rispettato tale principio, appare altamente logica la costruzione finale cui
pervengono i giudici d’appello: i chirurghi, artefici di una condotta senza dubbio
censurabile dal punto di vista giuridico e medico, hanno realizzato ciò che si è
accertato per finalità tutte che confliggerebbero con l’adesione all’evento morte come
esito del loro operare.
Un tale evento, se diffuso e, appunto, addirittura voluto come conseguenza del loro
agire al di sopra e contro le regole professionali, sarebbe in contraddizione con
quanto è emerso dalla prova dichiarativa e logica nel corso del processo, poichè
avrebbe vanificato, a lungo andare, l’obiettivo di gloria, o meglio vanagloria, che essi
si prefiggevano per le loro carriere, oltre che, ovviamente, quello di profitti sempre
maggiori.
4.5. Rientrano, invece, le condotte commesse dagli imputati nel paradigma
dell’omicidio preterintenzionale, come già si è in parte anticipato al par. 4.2.
Al netto della contestazione relativa alla morte di S.A., ritenuta condivisibilmente già
oggetto di una pronuncia “a rime obbligate” nel giudizio di rinvio, alla luce di quanto
affermato dalla sentenza rescindente circa la difficile conciliabilità del tentativo
estremo di salvare la vittima subito dopo l’intervento chirurgico lesivo, attuando
manovre di clampaggio e di recupero dell’emorragia provocatasi, la Corte d’Appello
ha applicato correttamente anche negli altri tre casi contestati i criteri di
configurabilità dello schema normativo dell’art. 584 c.p..
Anzitutto si è rilevato come fosse sceso già il giudicato progressivo sul precedente
accertamento, svolto nella sentenza d’appello annullata, circa l’assenza di
giustificazione degli interventi chirurgici praticati alle vittime, attraverso un’analisi
dell’ampia prova dichiarativa, storica e critica che è stata ritenuta logicamente
motivata dalla Prima Sezione Penale.
Partendo ancora una volta dalle affermazioni della sentenza n. 34521 del 2010,
Huscher, la Corte d’Assise d’Appello evidenzia che, in linea di principio, risponde di
omicidio preterintenzionale il medico che sottoponga il paziente ad un intervento, dal
quale consegua la morte di quest’ultimo, in assenza di finalità terapeutiche, ovvero
per fini estranei alla tutela della salute del paziente, ad esempio provocando
coscientemente un’inutile mutilazione ovvero agendo per scopi estranei (scientifici,
dimostrativi, didattici, esibizionistici o di natura estetica non accettati dal paziente);
ma anche senza che vi sia accertamento della finalità diversa perseguita il medico
risponderà di omicidio preterintenzionale qualora l’intervento risulti estraneo ad ogni
ipotizzabile scelta terapeutica poichè in questo caso quella che viene a mancare è la
stessa natura ontologica dell’atto medico che, privo della finalità terapeutica, cessa
di essere tale.
Dunque, il medico che leda, senza giustificazione terapeutica alcuna, nel corpo o
nella mente, la persona del paziente realizza il fatto tipico del delitto di lesioni
volontarie, ovvero del delitto di omicidio preterintenzionale qualora dalle lesioni derivi
la morte del paziente, ovvero ancora del delitto di omicidio volontario se agisce con
atto non terapeutico nel quale, come si è visto, secondo i criteri dettati dalle Sezioni
Unite nel 2014, possa desumersi la volontarietà, sotto il profilo del dolo eventuale,
dell’adesione psichica all’evento morte, inteso come “costo accettato” della propria
condotta.
Al contrario, non risponde di omicidio preterintenzionale, nonostante l’esito infausto,
il medico che sottoponga il paziente ad un trattamento non consentito ed in
violazione delle regole dell’arte medica, quando nella sua condotta sia rinvenibile
una finalità terapeutica, o comunque la terapia sia inquadrabile nella categoria degli
atti medici, poichè in tali casi la condotta non è diretta a ledere, e l’agente, se
cagiona la morte del paziente, risponderà di omicidio colposo ove l’evento sia
riconducibile alla violazione di una regola cautelare.
Orbene, richiamando il Collegio quanto già esposto circa la coerente esclusione del
dolo eventuale di omicidio volontario nel caso delle condotte contestate agli imputati,
deve sottolinearsi come la Corte di merito abbia ben evidenziato le ragioni sulla base
delle quali ha ritenuto fosse sceso il giudicato parziale sull’assenza oggettiva di
giustificazione medico-chirurgica degli interventi praticati, confermando la
sussistenza della prova di qualsiasi finalità terapeutica nell’operato di B.M. e P.,
individuandone, peraltro, anche le diverse ragioni a fondamento: a far da guida,
infatti, agli interventi chirurgici praticati non solo sulle vittime delle contestazioni oggi
in esame ma anche a quella consistente serie di attività operatorie realizzate
nell’ambito temporale di riferimento non è stato “il bene e l’interesse del paziente
bensì il meccanismo di retribuzione proporzionalmente crescente con l’accrescersi
numerico degli interventi effettuati, in ragione del correlativo incremento dei rimborsi
corrisposti alla struttura clinica Santa Rita dalla sanità pubblica” (cfr. pag. 27 del
provvedimento impugnato). Nei quattro casi ancora sottoposti al giudice di rinvio,
infatti, la Prima Sezione Penale aveva sostanzialmente rigettato i motivi di ricorso sia
sulla sussistenza del nesso causale tra la condotta chirurgica e il decesso, sia sulla
“natura insensata” sotto il profilo medico degli interventi praticati nei confronti delle
vittime, ritenendo le ragioni difensive proposte una sollecitazione ad ottenere letture
alternative dei fatti e delle risultanze istruttorie. La sentenza rescissoria, pertanto, ha
anzitutto confermato che la condotta degli imputati ha contribuito ad accelerare gli
eventi morte di pazienti già con situazioni patologiche che lasciavano basse
aspettative di vita, sicchè il loro decesso è stato ritenuto causalmente riconducibile
alle avventate operazioni alle quali erano stati sottoposti.
Quindi, ha richiamato i pareri scientifici e le prove in atti sull’inutilità e sull’incongruità
degli interventi chirurgici praticati, certamente tali secondo un’indicazione già emersa
dalla pronuncia rescindente, soffermandosi sulla consapevolezza da parte degli
imputati di tale “inutilità” e dannosità, per esplorare il coefficiente soggettivo del reato
di omicidio. Invero, questa è la parte di meno piana lettura della sentenza
impugnata, che, pur analizzando ciascun episodio omicidiario dettagliatamente,
assumendo – sulla base della giurisprudenza citata – la sussistenza del dolo di lesioni
come dato certo, derivandola dalla prova rassicurante raggiunta nel processo, ed
oramai “chiusa” dal giudicato, dell’inutilità degli interventi chirurgici praticati e della
loro non rispondenza ad indicazioni terapeutiche, rievoca poi la ricostruzione
dell’atteggiamento psicologico dei due imputati che, secondo i giudici, per
spavalderia e autoreferenzialità eccessiva, non hanno mai ritenuto di operare al di
fuori del consentito secondo la scienza medica, preoccupandosi esclusivamente di
escludere quello di omicidio volontario.
Peraltro, ciò è spiegabile in ragione dell’alternativa obbligata posta dalla sentenza di
annullamento in modo stringente e relativa alla contrapposta configurabilità del reato
di omicidio preterintenzionale ovvero di quello volontario con dolo eventuale, sicchè,
una volta escluso quest’ultimo, giocoforza la Corte d’Assise d’Appello ha ritenuto
provato il primo, basandosi, come si è sottolineato più volte, sulle affermazioni al
riguardo già solide della pronuncia rescindente e coperte dal giudicato quanto alla
non rispondenza di tutti gli interventi praticati alle vittime ad indicazioni terapeutiche,
nonchè – come si è visto – alla loro relazione causale con i decessi dei pazienti.
E tuttavia, si comprende che proprio le laconiche considerazioni in diritto che
chiudono le ampie ricostruzioni in fatto proposte dalla sentenza rescissoria per
ciascuna delle contestazioni hanno indotto il Procuratore Generale a dubitare, sia
pur infondatamente, come detto, della reale comprensione del vincolo di rinvio da
parte della Corte d’Assise d’Appello e a spingerlo a sostenere che una corrente
profonda di convincimento corresse lungo la motivazione della sentenza
impropriamente e portasse alla non ammessa propensione per una configurazione
dei fatti come colposi.

La circostanza aggravante del nesso teleologico.
5.1. Il secondo motivo di ricorso del Procuratore Generale è fondato.
E’ dedotta la violazione dell’art. 597 c.p.p., comma 1, per avere i giudici del rinvio
escluso la circostanza aggravante del nesso teleologico in relazione agli omicidi per i
quali gli imputati sono stati condannati ed avuto riguardo al reato di truffa commesso
ai danni del Servizio Sanitario nazionale.
Il ricorrente ha evidenziato che il corrispondente punto, nella precedente decisione
già oggetto di annullamento da parte della Cassazione, non era stato toccato dalla
sentenza rescindente.
L’eccezione è fondata e non rilevano al riguardo le osservazioni contenute nelle
memorie depositate dagli imputati.
La sentenza rescindente ha richiesto una nuova valutazione solo della configurabilità
della fattispecie di omicidio volontario piuttosto che di quella di omicidio
preterintenzionale, “aprendo” il rinvio ai diversi esiti sanzionatori che eventualmente
fossero conseguiti ad una differente qualificazione giuridica dei fatti, nonchè alla
rivalutazione dei motivi difensivi ritenuti “assorbiti” ma espressamente indicati dalla
Prima Sezione Penale nel diniego delle attenuanti generiche, avuto riguardo alla
posizione dell’imputato B.M., e nel mancato riconoscimento della prevalenza delle
stesse attenuanti sull’aggravante del nesso teleologico con il reato di truffa con
riferimento all’allora ricorrente P..
Quanto a quest’ultima aggravante, della sua sussistenza neppure le difese degli
imputati avevano dubitato, nè tantomeno essa aveva fatto parte del perimetro
dell’annullamento della Cassazione, che ha riguardato, come detto, il diverso aspetto
del giudizio di bilanciamento, per P. (ma eventualmente per lo stesso B.M., se fosse
stato rivisto il precedente diniego delle circostanze attenuanti generiche in senso più
favorevole per l’imputato), delle circostanze ex art. 62-bis c.p. con l’aggravante ex
art. 61 c.p., comma 1, n. 2.
Detto altrimenti, la sussistenza della circostanza aggravante del nesso teleologico
tra i più reati di omicidio preterintenzionale contestati e quelli di truffa, dichiarati
prescritti, non era in gioco nel giudizio di rinvio, limitato, per espressa indicazione
della sentenza rescindente, al motivo riferito al diniego delle circostanze attenuanti
generiche proposto nell’interesse di B.M. ed a quello sul “mancato riconoscimento
della prevalenza delle stesse sulla aggravante del nesso teleologico” per P.,
entrambi assorbiti, per come circoscritti, però, dalla precisa indicazione della
sentenza di annullamento, dal rinvio per la rideterminazione della pena conseguente
a quello sulla qualificazione giuridica delle condotte come omicidio volontario o
preterintenzionale.
Ebbene, è vero che il giudice di rinvio è vincolato, ai sensi dell’art. 624 c.p.p., alla
decisione della Corte di cassazione limitatamente a ciò che concerne le questioni di
diritto decise, ma non in ordine a questioni che la Corte non ha deciso, dichiarando i
relativi motivi assorbiti in quello accolto con la pronunzia di annullamento (cfr., in
passato, in relazione alla precedente disposizione vigente dell’art. 546 del 1930,
Sez. 2, n. 2812 del 25/10/1991, dep. 1992, Mastroleo, Rv. 189311; Sez. 4, n. 2476
del 28/10/1985, dep. 1986, Barbagallo, Rv. 172246) e la questione assorbita è
demandata, senza alcun vincolo, all’esame del giudice del rinvio sempre che abbia
fatto parte anche dei motivi d’appello.
Tuttavia, la questione assorbita non può essere ampliata indiscriminatamente, come
è stato fatto nel caso di specie dal giudice del rinvio, sicchè dall’essere stata
demandatagli la valutazione sul giudizio di bilanciamento tra circostanze aggravanti
ed attenuanti, perchè assorbita dall’accoglimento di un motivo principale relativo alla
qualificazione giuridica del reato, si giunga a rivedere la decisione sulla stessa
sussistenza dell’aggravante che doveva essere bilanciata.
Tanto più che nell’atto di appello non si era fatto motivo della sussistenza
dell’aggravante del nesso teleologico ma soltanto, B.M., aveva eccepito il vizio di
motivazione avuto riguardo al diniego delle circostanze attenuanti generiche e P.
aveva impugnato il bilanciamento equivalente tra le concesse circostanze attenuanti
generiche e la stessa aggravante, chiedendo la prevalenza delle attenuanti.
La valutazione sulla sussistenza dell’aggravante del nesso teleologico, pertanto,
doveva essere ritenuta coperta da giudicato dai giudici del rinvio, secondo la regola
del “giudicato cd. progressivo”, nei confronti di entrambi gli imputati.
A proposito di tale istituto, sono ancora attuali le affermazioni e le categorie logicogiuridiche dettate dalle Sezioni Unite nella sentenza Sez. U, n. 4460 del 19/1/1994,
Cellerini, Rv. 196886-87, secondo cui, con un ragionamento valido sia in relazione
alla disposizione di cui all’art. 624 che a quella di cui all’art. 545 del codice
processuale del 1930, per “parti non annullate della sentenza” devono intendersi
quelle in ordine alle quali si è ormai del tutto esaurita ogni possibilità di decisione del
giudice di merito e, contestualmente, completato l'”iter” processuale e che hanno,
così, acquistato, perchè definitive, “autorità di cosa giudicata”, mentre il rapporto di
“connessione essenziale” tra parti annullate e parti non annullate della sentenza
deve intendersi come necessaria interdipendenza logico giuridica tra le parti
suddette, nel senso che l’annullamento di una di esse provochi inevitabilmente il
riesame di altra parte della sentenza seppur non annullata.
Ebbene, nel caso di specie, certamente l’annullamento della sentenza della Corte
d’Assise d’Appello deciso dalla Prima Sezione Penale, essendo relativo alla
qualificazione giuridica dei fatti come omicidio volontario ovvero omicidio
preterintenzionale, non implica necessaria interdipendenza logico-giuridica della
parte di pronuncia riferita alla sussistenza di un’aggravante (quella del nesso
teleologico con i reati di truffa pure contestati ed oramai prescritti) mai neppure
impugnata dalle parti e non coinvolta nella motivazione rescindente, nè
implicitamente nè espressamente e neppure ricompresa nella formula letterale del
rinvio riferita al mero giudizio di bilanciamento della stessa aggravante con le
attenuanti riconosciute ad uno degli imputati.
Infine, nessun collegamento essenziale sussiste tra la riformulazione del giudizio di
bilanciamento suddetto, cui puntava il motivo dichiarato assorbito dalla sentenza
rescindente, e la revisione della valutazione positiva sulla stessa sussistenza
dell’aggravante poi erroneamente esclusa nel giudizio di rinvio: la prima è una
conseguenza della seconda che, dunque, è sopravvissuta all’annullamento in quanto
affermazione autonoma e preliminare, che fungeva da presupposto al giudizio di
bilanciamento.
Le conclusioni alle quali giunge il Collegio trovano conferma anche nella
giurisprudenza di legittimità più recente ed attenta sul tema.
Ed infatti, si è affermato che la cognizione del giudice del rinvio riguarda il nuovo
esame non solo del profilo censurato, ma anche delle questioni discendenti dalla sua
rivalutazione secondo un rapporto di interferenza progressiva e dichiarate assorbite
nella pronuncia di annullamento. La necessaria nuova verifica del tema assorbito,
stretto da un rapporto di pregiudizialità logica con il tema assorbente sul quale deve
rinnovarsi l’esame, impone, altresì, la progressiva verifica delle questioni dipendenti
che da quella premessa traggono il proprio caposaldo argomentativo (Sez. 6, n.
49750 del 4/7/2019, Diotallevi, Rv. 277438).
Premesso che la devoluzione al giudice del rinvio della res iudicanda, che si
determina in seguito alle pronunce di annullamento, va effettivamente riguardata con
riferimento al principio di formazione progressiva del giudicato e, dunque, alla
eventuale stabilizzazione di determinati punti devoluti alla Corte di legittimità e dalla
medesima decisi, dei quali è preclusa la successiva valutazione, ed al correlativo
ambito di cognizione del giudice ad quem (cfr. da ultimo, per tutte, Sez. 5, n. 5509
del 08/01/2019, Castello, Rv. 275344; Sez. 5, n. 39786 del 11/7/2017, Zordan, Rv.
271074), nel guado del rapporto tra la dinamicità della devoluzione e la fissità del
limite costituito dai punti ormai intangibili come risultanti dall’esito della decisione di
annullamento, si pone l’ulteriore questione dell’assorbimento delle questioni
dipendenti dalla soluzione dei temi sui quali la Corte di legittimità richiede al giudice
di merito una rinnovata valutazione.
L’individuazione dei punti ormai intangibili e la definizione delle questioni assorbite
circoscrive, in seguito all’annullamento, il rinnovato potere-dovere di accertamento
del giudice di merito quale giudice del rinvio, potere ulteriormente circoscritto dal
divieto di reiterazione dell’errore ritenuto sussistente nel giudizio rescindente o di
riproposizione dello schema motivazionale annullato, come già sottolineato in
precedenza (cfr., tra le altre, le citate Sez. 6, n. 19206 del 10/1/2013, Di Benedetto,
Rv. 255122; Sez. 1, n. 26274 del 6/5/2004, Francese, Rv. 228913).
Tuttavia, la cognizione del giudice del rinvio, circoscritta da tali limiti negativi e
pienamente riespansa non solo in relazione al nuovo esame del profilo censurato,
ma anche a tutte le questioni che dalla rivalutazione del medesimo discendano
secondo un logico rapporto di inferenza progressiva e che ne risultano, pertanto,
“assorbite”, si estende fino alle questioni dipendenti che da quella premessa,
rivalutata, traggono il loro caposaldo argomentativo, imponendone la progressiva
verifica, ma non certo alle questioni presupposte a quelle assorbite (come è nel caso
di specie).
Deve, pertanto, affermarsi il seguente principio di diritto: nel giudizio di rinvio
conseguente all’annullamento parziale della sentenza d’appello per vizio di
motivazione riferito alla ritenuta sussistenza del dolo di omicidio volontario ed alla
qualificazione giuridica del reato in termini di omicidio volontario piuttosto che di
omicidio preterintenzionale – vizio da cui è dipesa la devoluzione anche del punto
della sentenza relativo alla rideterminazione della pena – non è consentito al giudice
del rinvio escludere un’aggravante relativa alla condotta, comunque qualificata, già
ritenuta sussistente dalla pronuncia annullata e non impugnata sotto tale aspetto con
l’atto d’appello, nel caso in cui la sentenza di annullamento si sia limitata a dichiarare
assorbito il motivo difensivo riferito alla sola eccezione sul mancato bilanciamento
prevalente tra tale aggravante e le circostanze attenuanti generiche riconosciute
all’imputato, poichè in relazione all’affermata sussistenza di detta aggravante deve
ritenersi formato il giudicato.
A tale affermazione consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata
limitatamente alla parte in cui ha ritenuto insussistente l’aggravante di cui all’art. 61
c.p., comma 1, n. 2, con riferimento a tutte e quattro le contestazioni oggetto del
giudizio di rinvio, dovendosi ritenere l’avvenuto passaggio in giudicato della
statuizione relativa alla sua configurabilità nei confronti degli imputati, già derivato
dall’annullamento parziale disposto con sentenza della Prima Sezione Penale n.
14776 del 2018.
Pertanto, vi è necessità di disporre rinvio ad altra Sezione della Corte d’Assise
d’Appello di Milano affinchè proceda alla rideterminazione del trattamento
sanzionatorio nei confronti degli imputati sulla base del presupposto della
sussistenza dell’aggravante suddetta, avuto riguardo a tutte le imputazioni loro
contestate.
5.2. Il terzo motivo del ricorso del Procuratore Generale, dedicato a ribadire le
ragioni di sussistenza della circostanza ex art. 61 c.p., comma 1, n. 2, anche
approfondendo il merito della questione, è assorbito dalla constatazione preliminare
del passaggio in giudicato della relativa statuizione e del divieto di rivalutazione della
stessa da parte del giudice del rinvio nella pronuncia rescissoria seguita
all’annullamento disposto con la sentenza n. 14776 del 2018 della Prima Sezione
Penale.
In proposito, le osservazioni contenute nelle memorie depositate dagli imputati per
ribattere alle ragioni contenute nel ricorso del PG e relative all’insussistenza delle
contestazioni di truffa ed alla correttezza del ragionamento logico-giuridico seguito
dalla sentenza impugnata per escludere l’aggravante del nesso teleologico
dipendente dalla configurabilità dei reati di truffa suddetti, si infrangono dinanzi al
muro costituito dalle statuizioni definitivamente passate in giudicato in punto di
sussistenza dell’aggravante e da quelle, egualmente definitive, sull’estinzione di tali
reati per prescrizione.
Priva di fondamento, peraltro, è anche l’osservazione contenuta nel ricorso di P.P.F.
e relativa al fatto che i reati di truffa costituenti l’orizzonte finalistico dell’aggravante
teleologica contestata ad entrambi gli imputati siano prescritti.
Deve essere ribadito, infatti, che la circostanza aggravante del nesso teleologico,
prevista dall’art. 61 c.p., comma 1, n. 2, sopravvive all’eventuale estinzione del reato
fine (Sez. 1, n. 15494 del 23/11/1988, dep. 1989, Buda, Rv. 182492; Sez. 6, n.
10567 del 31/5/1983, Bellin, Rv. 161615) anche per prescrizione, in quanto la
predetta causa estintiva non incide sul fatto complessivamente contestato (Sez. 5, n.
6488 del 24/1/2005, Di Flavio, Rv. 231423).
Il vincolo teleologico è infatti un elemento circostanziale specializzante della
fattispecie aggravata, ha carattere immanente ed è insensibile a situazioni
estrinseche e successive del reato concorrente, che, anche se non perseguibile, ha
già spiegato in modo irreversibile la funzione aggravatrice del reato in vista o in
dipendenza del quale sia stato commesso (Sez. 3, n. 4429 del 15/2/1982, Riva, Rv.
153460) ed è configurabile anche quando il reato-fine sia perseguibile a querela di
parte e questa non sia stata presentata, essendo irrilevante l’applicazione di una
causa di improcedibilità (Sez. 4, n. 36971 del 1/7/2003, Piovini, Rv. 226375).

Il ricorso dell’imputato B.M..
Il ricorso di B.M.P.P. è inammissibile perchè manifestamente infondato. La sentenza
motiva ampiamente sul diniego delle circostanze attenuanti generiche e sulla
dosimetria sanzionatoria, nè può farsi ricorso per desumere l’erroneità della
determinazione della pena inflitta ad un espediente retorico suggestivo quanto
irrilevante e fallace come la presunta propensione del giudice di rinvio ad ipotizzare
a carico degli imputati una responsabilità solo colposa, propensione che sarebbe
stata frenata soltanto dal giudicato sul tema derivante dalla sentenza rescissoria
della Cassazione (che ha come noto – escluso il coefficiente di attribuzione
soggettiva colposo, lasciando che la scelta potesse essere fatta unicamente tra la
fattispecie dolosa a dolo eventuale e quella preterintenzionale), ma che avrebbe
dovuto guidare la rimodulazione della pena inflitta al ricorrente verso i limiti minimi
edittali.
Invero, da un lato si è già in precedenza chiarito come non vi sia stata affatto, da
parte dei giudici di rinvio, una malcelata volontà di non aderire a quanto ricostruito
dal punto di vista giuridico dalla Corte di cassazione nella sentenza di annullamento,
ma, anzi, essi ne hanno voluto esaltare le radici di fatto sulle quali si basa,
ripercorrendole e prendendo posizione, nel caso di specie, per una chiara evidenza
della responsabilità preterintenzionale piuttosto che volontaria e dolosa, avuto
riguardo agli omicidi pur causati.
Dall’altro, la Corte d’Assise d’Appello ha ampiamente motivato sulle ragioni che
l’hanno indotta a non concedere le attenuanti generiche all’imputato ricorrente, il
quale non soltanto partecipe a pieno titolo del “sistema Santa Rita” che, attraverso i
suoi protagonisti, ricercava profitti tenendo in scarso conto la salute e la stessa vita
dei pazienti, ma che di tale sistema era “anima” consapevole, volta continuamente e
spregiudicatamente ad alimentarlo, come risulta dalla piattaforma probatoria
ampiamente illustrata nel provvedimento impugnato e nella stessa sentenza di
annullamento della Corte di cassazione da cui è derivato il presente giudizio di
rinvio.

All’inammissibilità del ricorso segue, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., la condanna del
ricorrente B.M.P.P., che lo ha proposto, al pagamento delle spese processuali
nonchè, ravvisandosi profili di colpa relativi alla causa di inammissibilità (cfr. sul
punto Corte Cost. n. 186 del 2000), al versamento, a favore della Cassa delle
Ammende, di una somma che si ritiene equo e congruo determinare in Euro 3.000.
7.1. Il ricorrente B.M. deve essere condannato, altresì, in solido con il responsabile
civile ICCS Istituto Clinico Città Studi s.p.a., al pagamento delle spese sostenute
dalle parti civili costituite che liquida rispettivamente in: Euro tremila in favore della
parte civile Regione Lombardia; Euro tremila in favore della parte civile ATS Città
Metropolitana Milano; Euro tremila in favore della parte civile Medicina Democratica;
nonchè in Euro cinquemilatrecento in favore della parte civile S.M..
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata senza rinvio limitatamente all’esclusione
dell’aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 2, e con rinvio ad altra Sezione della
Corte d’Assise d’Appello di Milano quanto al trattamento sanzionatorio.
Rigetta nel resto il ricorso del PG. Dichiara inammissibile il ricorso di B.M. che
condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila
in favore della Cassa delle ammende. Condanna il ricorrente B.M., in solido
con il responsabile civile ICCS Istituto Clinico Città Studi s.p.a., al pagamento
delle spese sostenute dalle parti civili costituite che liquida rispettivamente in:
Euro tremila in favore della parte civile Regione Lombardia; Euro tremila in
favore della parte civile ATS Città Metropolitana Milano; Euro tremila in favore
della parte civile Medicina Democratica; nonchè in Euro cinquemilatrecento in
favore della parte civile S.M..
Così deciso in Roma, il 24 settembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 9 dicembre 2020