Sentenza, Corte Suprema di Cassazione, III Sezione Civile, 15 gennaio 2021, n. 653, Interruzione della gravidanza dopo 90 giorni:
La vicenda traeva origine dalle menomazione di un neonato cagionato dalla contrazione di citomegalovirus da parte della madre durante la gestazione. Quest’ultima lamentava di non essere stata adeguatamente informata dal medico dei possibili effetti sul feto dell’infezione da lei contratta, precludendole quindi di interrompere la gravidanza ai sensi degli artt. 6 e 7 della L. 194/1998. Da un’interpretazione letterale e sistematica del punto b) del suddetto articolo 6, i giudici di legittimità sostengono che la donna possa interrompere la gravidanza dopo i 90 giorni non solo quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del feto, idonei a cagionare un grave pericolo alla salute fisica o psichica della madre, ma anche quando l’accertamento del processo patologico con un alto grado di probabilità statistica possa provocare anomalie o malformazioni del nascituro, che pur non ancora clinicamente accertate siano idonee a provocare nella madre, correttamente informata, un grave pericolo per la sua salute fisica o psichica, valutabile caso per caso. Conseguentemente, il medico che non informa adeguatamente la gestante dei possibili rischi per il feto causati da una malattia da lei contratta durante la gestazione, risponde dei danni cagionati dalla mancata interruzione della gravidanza alla quale la donna sarebbe ricorsa a fronte di un grave danno alla sua salute fisica o psichica.
Corte Suprema di Cassazione, III Sezione Civile, 15 gennaio 2021, n. 653:
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –
Dott. SESTINI Danilo – rel. Consigliere –
Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –
Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –
Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 33720/2018 proposto da:
S.S., M.V., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA SANT’ANSELMO 7, presso lo studio dell’avvocato
MONICA MARUCCI, che li rappresenta e difende;
ricorrenti –
contro
N.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PADRE SEMERIA 65, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE
NATALUCCI, che lo rappresenta e difende;
UNIVERSITA’ STUDI ROMA LA SAPIENZA, elettivamente domiciliata in ROMA, P.LE A. MORO 5, presso lo
studio dell’avvocato ALFREDO FAVA, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato LUIGI MILANESE;
controricorrenti –
e contro
GENERALI ITALIA SPA;
intimata –
nonchè da:
GENERALI ITALIA SPA, in persona dei procuratori speciali, domiciliata in Roma, presso la Cancelleria della
Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dagli avvocati FRANCO TASSONI, e MATTEO MUNGARI;
ricorrente incidentale –
avverso la sentenza n. 2597/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 20/04/2018;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27/10/2020 dal Consigliere Dott. DANILO
SESTINI;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARDINO Alberto.
Svolgimento del processo
S.S. e M.V., in proprio e in nome e per conto del figlio minore M.F. (nato con gravi malformazioni
comportanti un’invalidità del 100%), convennero in giudizio il Dott. N.G. e l’Azienda Policlinico (OMISSIS)
per sentirli condannare al risarcimento dei danni che assumevano conseguiti al fatto che il N., che aveva
seguito la S. durante la gravidanza (sia nel proprio studio che presso il (OMISSIS)), non l’aveva
adeguatamente informata sui rischi per il feto correlati ad un’infezione da citomegalovirus da essa
contratta, in modo da consentirle di interrompere la gravidanza, nonchè (quanto alla sola struttura
ospedaliera) all’ulteriore fatto che il parto con taglio cesareo era stato effettuato dopo un prolungato e
inusuale travaglio che aveva comportato una sofferenza fetale.
Gli attori dedussero che, avendo contratto un’infezione da citomegalovirus, la S. – giunta alla 22 settimana
di gestazione – si era rivolta al Dott. N. chiedendogli se non fosse necessario o opportuno interrompere la
gravidanza in relazione alla possibilità di partorire un bambino affetto da gravi malformazioni e che il
professionista l’aveva rassicurata, escludendo categoricamente l’esistenza di rischi e affermando,
comunque, l’impossibilità di ricorrere all’aborto terapeutico, dato che erano decorsi i termini di cui alla L. n.
194 del 1978 e che non erano emerse malformazioni del feto; aggiunsero che il (OMISSIS), dopo un
travaglio protrattosi per ben ventiquattro ore, la S. aveva dato alla luce il figlio F., che presentava
gravissime lesioni cerebrali conseguenti a calcificazioni nervose.
Si costituirono in giudizio sia il N. – che chiamò in manleva la Reale Mutua Assicurazioni (salvo rinunciare
alla domanda nel corso del giudizio di primo grado) – che l’Azienda Sanitaria (OMISSIS), che eccepì il proprio
difetto di legittimazione passiva e chiamò in causa l’Università La Sapienza (di cui l’azienda ospedaliera
costituiva una struttura) e l’Ina Assitalia s.p.a..
il Tribunale di Roma, dichiarato il difetto di legittimazione passiva dell’Azienda (OMISSIS) in favore di quella
dell’Università degli Studi di Roma La Sapienza, rigettò la domanda degli attori e compensò le spese di lite.
La Corte di Appello ha respinto il gravame proposto dalla S. e dal M., anche in nome e per conto del figlio F.,
e ha compensato nuovamente le spese processuali.
La Corte ha affermato che il primo giudice ha correttamente richiamato l’orientamento di legittimità
secondo cui è onere della parte che lamenti il mancato esercizio del diritto all’interruzione della gravidanza
allegare e dimostrare l’esistenza delle condizioni legittimanti tale interruzione ai sensi della L. n. 194 del
1978, art. 6, lett. b), ovvero che la conoscibilità dell’esistenza di rilevanti anomalie o malformazioni del feto
avrebbe generato uno stato patologico tale da mettere in pericolo la salute fisica o psichica della donna;
tanto premesso, ha rilevato che “il tribunale ha dato rilievo all’assenza di anomalie o malformazioni,
“…seppur prevedibili con un certo grado di probabilità statistica…”, fino alla 28 settimana di gestazione,
quando il neonato aveva già acquisito vita autonoma” e che il “nucleo della decisione va, quindi, individuato
nella mancanza di certezza di un danno rilevante ed attuale per il feto, manifestatosi solo quando non era
più possibile praticare l’aborto, perchè il feto godeva già di vita autonoma”; ha aggiunto che, invece, “gli
appellanti anticipano il tempo di praticabilità dell’aborto al momento dell’infezione del feto, che rende
altamente probabile l’insorgere di anomalie o malformazioni, a prescindere dalla loro esistenza” e ha
affermato che tale lettura “non corrisponde, però, alla ratio sottesa, che tende a contemperare le esigenze
di autodeterminazione della madre ed il diritto alla via del feto”; ha concluso che “i presupposti per
ricorrere all’aborto sono sempre mancati fin dall’inizio” in quanto “il feto, nonostante l’infezione, era sano e
tale è rimasto fino al settimo mese” e le malformazioni si sono manifestate troppo tardi, quando il feto
aveva già vita autonoma; la Corte ha, infine, escluso la ricorrenza di condotte colpose nella gestione del
parto, osservando che i consulenti tecnici d’ufficio avevano accertato la “conformità alla normativa vigente
dell’operato dei sanitari e dell’organizzazione della struttura, in occasione del parto, escludendo ogni
rapporto con le invalidità del nascituro, peraltro, già presenti circa due mesi prima della nascita” quali esiti
di malattia congenita da CMV. Hanno proposto ricorso per cassazione S.S. e M.V., affidandosi a tre motivi;
hanno resistito – con distinti controricorsi – il N., l’Università degli Studi di Roma La Sapienza e la Generali
Italia s.p.a. (già Ina Assitalia); quest’ultima ha anche proposto ricorso incidentale condizionato affidato ad
un solo motivo.
Con ordinanza interlocutoria n. 12930/2020, adesiva alle conclusioni rassegnate dal P.G., il ricorso è stato
rimesso alla pubblica udienza.
Hanno depositato memorie i ricorrenti, il N. e la Generali Italia.
Motivi della decisione
IL RICORSO PRINCIPALE. 1. Il primo motivo denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1176,
1218 e 2043 c.c., in relazione alla L. n. 184 del 1978, (rectius, 194), art. 6, lett. b) e art. 7: premesso che
“l’informazione dovuta deve essere (…) comprensiva di tutti gli elementi per consentire alla paziente una
scelta informata e consapevole, sia che essa sia volta alla interruzione che se sia volta alla prosecuzione di
una gravidanza il cui esito potrà comportare delle problematiche da affrontare”, i ricorrenti assumono che,
“in presenza di un accertato processo patologico in atto, quale era l’infezione materna da CMV, il medico
avrebbe dovuto rappresentare ai genitori, sin da subito, seppure in astratto e senza alcun riferimento al
caso concreto, tutti i rischi teoricamente probabili (assai probabili) che l’infezione trasmettendosi al feto
avrebbe determinato. Ciò senza necessità di attendere il momento in cui, in concreto, si sarebbero
manifestate le prime lesioni fetali”; aggiungono che “ha erroneamente ritenuto la Corte di Appello che,
accertate le malformazioni del feto derivanti da infezione da citomegalovirus in data successiva al 90 giorno
di gestazione, la sig.ra S. non avrebbe più potuto sottoporsi a interruzione della gravidanza (…) perchè il
feto aveva già possibilità di vita autonoma”; sostengono che i giudici di merito avrebbero dovuto “ritenere il
processo patologico di cui alla L. n. 194 del 1978, già in essere a seguito della insorta infezione da CMV e già
accertato dal momento in cui era stata diagnosticata la malattia prescindendo, quindi, dal momento in cui
questa aveva manifestato le prime anomalie fetali” e “ritenere quindi che, già al momento della prima visita
eseguita sulla S. nel (OMISSIS) questa, se correttamente informata, avrebbe potuto legittimamente
interrompere la gravidanza in quanto in presenza di un grave pericolo per la sua salute psichica”.
Il secondo motivo (“violazione e/o falsa applicazione della L. n. 184 del 1978, art. 6, lett. b) e art. 7, in
relazione agli artt. 1218 e 2967 c.c., agli artt. 115 e 116 c.p.c.”) censura la sentenza “laddove ha ritenuto,
del tutto a priori e persino in contrasto con le risultanze istruttorie, che alla data del 9/9/1998 – momento
dell’accertamento della sussistenza delle malformazioni – il feto potesse avere vita autonoma e, pertanto,
che fosse esclusa per la gestante la facoltà di interrompere la gravidanza”.
Col terzo motivo (che denuncia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1218 e 1228 c.c.), i
ricorrenti lamentano che la Corte di Appello “non ha esaminato nè ha deciso della ravvisata diretta
responsabilità dell’Università La Sapienza, in via solidale e concorrente con quella del Dott. N., per i
comportamenti a questo riferibili in virtù della responsabilità oggettiva derivante dall’avere il medico
all’epoca dei fatti di causa prestato presso la struttura la propria opera professionale”.
IL RICORSO INCIDENTALE CONDIZIONATO. 4. Con l’unico motivo – che deduce “errore in procedendo (art.
360 c.p.c., n. 4) in relazione agli artt. 112 e 345 c.p.c.” – la Generali Italia s.p.a. censura la sentenza,
condizionatamente all’accoglimento del ricorso principale, “per non essersi pronunciata sull’eccezione
dell’esponente Compagnia di inammissibilità dell’appello ex art. 345 c.p.c., comma 1, nella parte in cui, in
relazione alla richiesta di accertamento dell’inadempimento dell’obbligo informativo indipendentemente
dall’esistenza dei requisiti legali per l’esercizio del diritto all’interruzione della gravidanza, ha introdotto in
sede di gravame una domanda nuova”; espone che, nell’atto di citazione introduttivo del giudizio, gli attori
avevano dedotto la responsabilità dei convenuti per aver impedito alla S. di esercitare consapevolmente il
diritto all’interruzione volontaria della gravidanza, mentre, con l’atto di appello, era stato richiesto
l’accertamento della responsabilità per il solo fatto della mancata informazione “a prescindere se “questa
potesse essere posta a fondamento della decisione di abortire””; tanto premesso, lamenta che la Corte di
Appello aveva disatteso l’eccezione, ritenendola assorbita dalla decisione di merito che aveva dichiarato
l’infondatezza della domanda attorea e conclude che, in caso di accoglimento del primo motivo del ricorso
principale, “andrà (preliminarmente) valutato che la Corte territoriale ha tralasciato di rilevare la novità
della domanda, e comunque di pronunciarsi sull’eccezione di inammissibilità ex art. 345 c.p.c., sollevata
dalla parte appellata, così incorrendo nella violazione dell’art. 112 c.p.c.”.
CONSIDERAZIONI. 5. La pretesa risarcitoria avanzata dai ricorrenti presuppone l’affermazione della
possibilità legale della S. di interrompere la gravidanza oltre il novantesimo giorno di gestazione; possibilità
che è riconosciuta dalla L. n. 194 del 1978, art. 6 – alla lett. a) – “quando la gravidanza o il parto comportino
un grave pericolo per la vita della donna” e – alla lett. b) – “quando siano accertati processi patologici, tra cui
quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la
salute fisica o psichica della donna”.
Premesso che, tra i “processi patologici” che possono determinare il grave pericolo per la salute della
donna, la norma considera anche “quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro”, il
ricorso principale interroga sulla portata della previsione dell’art. 6, lett. b), dovendosi stabilire se, al fine di
ritenere consentita l’interruzione della gravidanza, rilevino solo i processi patologici che risultino già esitati
in accertate anomalie o malformazioni del feto oppure anche i processi patologici che possano determinare
(con alta probabilità) tali anomalie o malformazioni, a prescindere dal fatto che le medesime siano state
accertate, ove comunque emerga l’idoneità della stessa esistenza di un processo patologico potenzialmente
nocivo per il nascituro a provocare un grave pregiudizio per la salute della donna (tale da legittimarne il
ricorso all’interruzione della gravidanza oltre il novantesimo giorno e fino a quando non sussista possibilità
di vita autonoma del feto).
L’adesione all’una o all’altra delle due opzioni è tale da comportare esiti opposti; è evidente – infatti – che la
prima conduce a ritenere (così come ha fatto la Corte di Appello) che, pur in presenza di una patologia
materna idonea a determinare, con rilevante grado di probabilità, gravi malformazioni del feto, la donna
che abbia superato i novanta giorni di gestazione non possa effettuare la scelta abortiva anche a fronte di
un grave pericolo per la sua salute psichica (quale potrebbe conseguire alla consapevolezza di portare in
grembo un feto molto probabilmente menomato); l’adesione alla seconda consente viceversa – di
accertare, caso per caso, se la stessa esistenza di una patologia potenzialmente produttiva di malformazioni
fetali sia tale da determinare il grave pericolo per la salute della donna che giustifica il ricorso
all’interruzione della gravidanza oltre il novantesimo giorno (e fino al momento in cui il feto non abbia
acquistato possibilità di vita autonoma).
A questa seconda opzione interpretativa ritiene il Collegio di dover aderire.
E ciò sia in base alla lettera della norma che alla luce della ratio ad essa sottesa.
Va considerato, infatti, che:
letta a prescindere dall’inciso concernente le anomalie o malformazioni del nascituro, la norma della L. n.
194 del 1978, art. 6, lett. b), prevede che l’interruzione volontaria della gravidanza può essere praticata
“quando siano accertati processi patologici (…) che determinino un grave pericolo per la salute fisica o
psichica della donna”; l’inciso compreso tra le due virgole (“tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o
malformazioni del feto”) vale a specificare che tra i processi patologici da considerare sono compresi anche
quelli attinenti a rilevanti anomalie o malformazioni del feto;
il legislatore ha dunque posto l’accento sull’esistenza di un “processo patologico” (che può anche non
essere attinente ad anomalie o malformazioni fetali) e sul fatto che lo stesso possa cagionare un grave
pericolo per la salute della donna;
a ciò deve aggiungersi la considerazione che l’aggettivo “relativi” (riferito a processi patologici e collegato a
“rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro”) esprime, di per sè, un generico rapporto di inerenza fra
la patologia e la malformazione che non postula necessariamente l’attualità della seconda e che consente
di riconoscere rilevanza anche alla sola probabilità che il processo patologico determini il danno fetale;
deve pertanto ritenersi che, laddove si riferisce a processi patologici “relativi a rilevanti anomalie o
malformazioni del feto”, la L. n. 194 del 1978, art. 6, lett. b), non richieda che la anomalia o la
menomazione si sia già concretizzata in modo da essere strumentalmente o clinicamente accertabile, ma
dia rilievo alla circostanza che il processo patologico possa sviluppare una relazione causale con una
menomazione fetale;
deve sottolinearsi come lo stesso sintagma “processo patologico” individui una situazione biologica in
divenire, che può assumere rilevanza per il solo fatto della sua esistenza e della sua attitudine a
determinare ulteriori esiti patologici, a prescindere dal fatto che tale potenzialità si sia già concretamente
tradotta in atto; cosicchè deve ritenersi, in relazione al caso in esame, che anche la sola circostanza
dell’esistenza di un’infezione materna da citomegalovirus possa rilevare al fine di apprezzare l’idoneità di
tale processo patologico a determinare nella S. -compiutamente edotta dei possibili sviluppi – il pericolo di
un grave pregiudizio psichico in considerazione dei potenziali esiti menomanti;
nello stesso senso orienta la ratio della norma che, ponendo l’accento (come detto) sul processo patologico
e sul grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna, impone di riconoscere rilevanza alle situazioni
in cui la patologia, ancorchè non ancora esitata in menomazione fetale accertata, risulti comunque tale da
poter determinare nella donna – che sia stata informata dei rischi per il feto – un grave pericolo per la sua
salute psichica;
deve pertanto ritenersi che un tale pericolo – da accertarsi, in ogni caso, in concreto – possa determinarsi
non solo nella gestante che abbia contezza dell’esistenza di gravi malformazioni fetali, ma anche in quella
che sappia di aver contratto una patologia atta a produrre, con apprezzabile grado di probabilità, anomalie
o malformazioni del feto;
ciò comporta, sotto il profilo dell’obbligo informativo, che il medico al quale la gestante si sia rivolta per
conoscere i rischi correlati ad un processo patologico deve informarla compiutamente della natura della
malattia e della sue eventuali potenzialità lesive del feto, onde prospettare alla stessa un quadro completo
della situazione attuale e dei suoi possibili sviluppi; dal che consegue che l’omissione di un’informazione
corretta e completa sulla pericolosità del processo patologico non consente alla gestante di acquisire
elementi che – se conosciuti – potrebbero determinare nella stessa la situazione di pericolo per la salute
psichica che potrebbe giustificarne la scelta abortiva;
in conclusione, va disattesa, in quanto non conforme alla lettera e alla ratio della norma, una lettura della L.
n. 194 del 1978, art. 6, lett. b), che, inibendo l’interruzione della gravidanza fino al momento in cui non si
manifesti la malformazione fetale, finisce per porre in non cale il pericolo di grave pregiudizio psichico che
potrebbe determinarsi nella donna a fronte della conoscenza di processi patologici suscettibili di porsi in
relazione causale (“relativi”) con rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro; per tale via, pervenendo
a privare la donna, che versi in concreto in grave pericolo di pregiudizio alla salute psichica, della possibilità
di determinarsi all’interruzione della gravidanza (privazione che può risultare definitiva laddove, come nel
caso in esame, la menomazione si manifesti o venga accertata quando il feto abbia ormai acquisito
possibilità di vita autonoma, giacchè, in tale ipotesi, l’art. 7, comma 3 della legge consente l’interruzione
della gravidanza solo in caso di pericolo per la vita della donna).
Il motivo dev’essere pertanto accolto e la sentenza va cassata con rinvio alla Corte territoriale, che si
uniformerà ai seguenti principi di diritto:
“l’accertamento di processi patologici che possono provocare, con apprezzabile grado di probabilità,
rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro consente il ricorso all’interruzione volontaria della
gravidanza, ai sensi della L. n. 194 del 1978, art. 6, lett. b), laddove determini nella gestante – che sia stata
compiutamente informata dei rischi – un grave pericolo per la sua salute fisica o psichica, da accertarsi in
concreto e caso per caso, e ciò a prescindere dalla circostanza che l’anomalia o la malformazione si sia già
prodotta e risulti strumentalmente o clinicamente accertata”;
“il medico che non informi correttamente e compiutamente la gestante dei rischi di malformazioni fetali
correlate a una patologia dalla medesima contratta può essere chiamato a risarcire i danni conseguiti alla
mancata interruzione della gravidanza alla quale la donna dimostri che sarebbe ricorsa a fronte di un grave
pregiudizio per la sua salute fisica o psichica”.
Va peraltro precisato che la Corte di rinvio dovrà, nell’ordine:
verificare se sia effettivamente mancata, da parte del N., una corretta e completa informazione sui rischi
correlati all’infezione da citomegalovirus contratta dalla gestante (accertamento che non è stato compiuto
perchè la Corte territoriale ha ritenuto che l’aborto non sarebbe stato comunque praticabile);
nel caso in cui detta informazione risulti mancata o carente, accertare in concreto, con giudizio
controfattuale e anche mediante ricorso a presunzioni, se la conoscenza della probabilità che l’infezione da
citomegalovirus provocasse danni fetali avrebbe determinato nella S. un grave pericolo per la salute fisica o
psichica (costituente, come detto, un necessario presupposto legittimante il ricorso all’interruzione
volontaria della gravidanza);
nel caso in cui risultino integrate tutte le condizioni per praticare l’interruzione della gravidanza, accertare,
alla stregua dei noti criteri individuati da questa Corte (cfr., per tutte, Cass., S.U. n. 25767/2015), se la S. vi
avrebbe fatto ricorso.
Il secondo e il terzo motivo restano assorbiti.
L’unico motivo del ricorso incidentale condizionato (di cui si impone l’esame a seguito dell’accoglimento
del primo motivo del ricorso principale) è inammissibile.
La ricorrente, pur ritenendo (correttamente) che l’eccezione di novità della domanda proposta in appello
dalla S. e dal M. sia stata considerata assorbita dal giudice di secondo grado, prospetta un vizio di omissione
di pronuncia che, tuttavia, è escluso in radice dal fatto stesso che la pronuncia sia mancata proprio in
conseguenza del ritenuto assorbimento della questione, il quale comporta, per sua natura e secondo un
principio di economia processuale, che non si debba pronunciare su questioni comunque “superate” (cfr.
Cass. n. 4498/1996: “il vizio di omessa pronuncia correlato alla violazione dell’art. 112 c.p.c., è configurabile
soltanto in ipotesi di mancanza di una decisione in ordine ad una domanda o ad un assunto che richieda
una statuizione di accoglimento o di rigetto ed è pertanto da escludere quando ricorrano gli estremi di una
reiezione implicita della pretesa o della deduzione difensiva ovvero di un loro assorbimento in altre
declaratorie”; conforme Cass., n. 10001/2003).
Invero, una censura ai sensi dell’art. 112 c.p.c., avrebbe potuto essere prospettata solo nel caso in cui la
Corte di appello avesse erroneamente ritenuto assorbita la questione della novità della domanda (cfr. Cass.
n. 11459/2019, a mente della quale, solo l’illogica dichiarazione di assorbimento di un motivo di appello si
risolve in una omessa pronuncia e, come tale, può essere censurata in sede di legittimità ai sensi dell’art.
112 c.p.c.).
La Corte di rinvio provvederà anche sulle spese di lite.
Sussistono, in relazione al ricorso incidentale condizionato, le condizioni per applicare il D.P.R. n. 115
del 2002, art. 13, comma 1 quater.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo del ricorso principale, con assorbimento degli altri due motivi, e dichiara
inammissibile il ricorso incidentale condizionato; cassa in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per
le spese di lite, alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti
processuali per il versamento, da parte della ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso incidentale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-
bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 27 ottobre 2020.
Depositato in Cancelleria il 15 gennaio 2021.