Sentenza, Suprema Corte di Cassazione, Sezioni Unite Penali, 19 febbraio 2021, n. 6551 – Risarcimento per detenzione inumana e degradante ex art. 3 CEDU:

I giudici di legittimità sono stai chiamati a rispondere al seguente quesito di diritto: “…Se, in tema di conformità delle condizioni di detenzione all’art. 3 CEDU, come interpretato dalla Corte EDU, lo spazio minimo disponibile di tre metri quadrati per ogni detenuto debba essere computato considerando la superficie calpestabile della stanza ovvero quella che assicuri il normale movimento, conseguentemente detraendo gli arredi tutti senza distinzione ovvero solo quelli tendenzialmente fissi e, in particolare, se, tra questi ultimi, debba essere detratto il solo letto a castello ovvero anche quello singolo…”.Sul punto, le Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione affermano che nella valutazione dello spazio minimo individuale di 3 metri quadrati si deve considerare la superficie che assicura la libertà di movimento al recluso, senza calcolare gli arredi fissi, tra cui il letto a castello. Conseguentemente, la presunzione della violazione dell’art. 3 della CEDU non è automatica qualora il detenuto abbia a disposizione meno di 3 metri quadrati, poiché tale violazione è esclusa alla presenza di altri fattori compensativi positivi, come la breve durata della detenzione, le dignitose condizioni carcerarie, la sufficiente libertà di movimento al di fuori della cella mediante lo svolgimento di adeguate attività. Di contro, nel caso di disponibilità di uno spazio individuale fra i tre e i quattro metri quadrati, vengono valutati sia i fattori compensativi positivi che negativi, tra questi ultimi: la mancanza di accesso al cortile o all’aria e alla luce naturale, la cattiva aerazione, una temperatura insufficiente o troppo elevata nei locali, la assenza di riservatezza nelle toilette e le cattive condizioni sanitarie ed igieniche; al fine di vagliare la fondatezza dell’istanza presentata ai sensi dell’art. 35 ter ord. Pen.

Suprema Corte di Cassazione, Sezioni Unite Penali, 19 febbraio 2021, n. 6551:

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CASSANO Margherita – Presidente –
Dott. DI TOMASSI Mariastefania – Consigliere –
Dott. FIDELBO Giorgio – Consigliere –
Dott. SARNO Giulio – Consigliere –
Dott. DI STEFANO Pierluigi – Consigliere –
Dott. VERGA Giovanna – Consigliere –
Dott. DI SALVO Emanuele – Consigliere –
Dott. ROCCHI Giacomo – rel. Consigliere –
Dott. PISTORELLI Luca – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Ministero della Giustizia, in persona del Ministro pro tempore;
nel procedimento promosso da:
C.C., nato a (OMISSIS);
avverso la ordinanza del 02/04/2019 del Tribunale di Sorveglianza di L’Aquila;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal componente Giacomo Rocchi;
lette le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore
generale Dott. COCOMELLO Assunta, che ha concluso chiedendo l’annullamento
con rinvio dell’ordinanza impugnata limitatamente ai periodi detentivi espiati presso
le Case Circondariali di (OMISSIS), nonchè il rigetto, nel resto, del ricorso.
Svolgimento del processo

Con ordinanza del 2 aprile 2019 il Tribunale di Sorveglianza di L’Aquila rigettava il
reclamo proposto dal Ministero della Giustizia avverso il provvedimento del
Magistrato di Sorveglianza di L’Aquila che, in parziale accoglimento dell’istanza
presentata da C.C. ai sensi della L. 26 luglio 1975, n. 354, art. 35 ter, (Norme
sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative
della libertà), inserito dal D.L. 26 giugno 2014, n. 92, art. 1, comma 1, convertito, con
modificazioni, dalla L. 11 agosto 2014, n. 117, aveva liquidato in suo favore la
somma di Euro 4.568,00. Il Magistrato di Sorveglianza aveva riconosciuto che la
detenzione di C. nelle Case Circondariali di Pianosa, (OMISSIS), per un periodo di
4.571 giorni, si era svolta in condizioni tali da violare l’art. 3 della Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali come interpretata dalla
Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Il reclamante, richiamando la sentenza della Corte EDU, GC, 20/10/2016, Muri c.
Croazia, aveva censurato l’ordinanza per l’adozione di un erroneo criterio di calcolo
della superficie detentiva media goduta dal detenuto, che era stata determinata al
netto dello spazio occupato dagli arredi, mentre avrebbe dovuto esserlo al lordo; il
diverso metodo di calcolo avrebbe dovuto indurre il Magistrato di sorveglianza a
respingere l’istanza con riferimento ad alcuni periodi di detenzione trascorsi nelle
Case Circondariali di (OMISSIS).
Il Tribunale di Sorveglianza, ricordando che le condizioni di eccessivo
sovraffollamento carcerario integrano una forma di detenzione inumana, richiamava
il principio affermato dalla sentenza della Corte EDU, 16/07/2009, Sulejmanovic c.
Italia, in base al quale sussiste una presunzione di violazione dell’art. 3 della CEDU,
quando lo spazio personale riservato al detenuto è inferiore a tre metri quadrati, con
la conseguenza che non è necessario prendere in considerazione altri aspetti della
condizione detentiva.
Secondo l’ordinanza, poichè la superficie di tre metri quadrati costituisce uno spazio
destinato a permettere il movimento della persona, gli arredi fissi presenti nella cella
devono essere scomputati dal calcolo, costituendo un ingombro che lo impedisce; in
particolare, deve essere detratto dal calcolo l’ingombro dei letti (singoli o a castello),
mentre gli arredi non fissi, quali sgabelli e tavolini, non devono essere considerati.
Applicando questi principi alle condizioni di detenzione di C. nelle Case Circondariali
di Palmi e Carinola, il Tribunale di Sorveglianza riteneva che la superficie pro capite
delle celle fosse inferiore a tre metri quadrati.

Ricorre per cassazione il Ministero della Giustizia, in persona del Ministro pro
tempore, deducendo in un unico motivo violazione di legge e non corretta
interpretazione dell’art. 35 e ss. ord. pen., anche con riferimento alle decisioni della
Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
In base alla Circolare del D.A.P. del 18 aprile 2014, nel calcolo della superficie utile
devono essere computati sia il bagno di pertinenza della camera che lo spazio
occupato dall’arredamento. Il ricorrente contesta l’orientamento espresso a partire
dal 2016 dalla Corte di Cassazione, secondo cui lo spazio minimo individuale nella
cella collettiva è quello fruibile dal singolo detenuto ed idoneo al movimento, con la
conseguente necessità di detrarre dalla superficie complessiva non solo lo spazio
destinato ai servizi igienici, ma anche quello occupato dagli arredi fissi e dal letto: si
tratterebbe di un criterio di calcolo difforme da quello enunciato dalla Corte EDU,
GC, 20/10/2016, Muri c. Croazia, in base al quale, per calcolare lo spazio pro capite
nelle celle collettive, non si deve tenere conto dei servizi igienici, mentre si deve
computare lo spazio occupato dagli arredi, ferma restando la necessità di valutare la
possibilità per i detenuti di muoversi normalmente nella cella. Secondo il ricorrente,
con altre due sentenze del 2017, la Corte EDU ha confermato il metodo di calcolo
della superficie e, in particolare, la necessità di includere lo spazio occupato dai
mobili.
In definitiva, secondo il ricorrente, l’interpretazione adottata dal Tribunale di
Sorveglianza è difforme dall’insegnamento della Corte EDU che, ai sensi dell’art. 35
ter ord. pen., è vincolante per il giudice nazionale.
Il ricorrente conclude per l’annullamento senza rinvio dell’ordinanza impugnata.

Con l’ordinanza adottata all’udienza del 21 febbraio 2020, la Prima Sezione
penale ha rimesso il ricorso alle Sezioni Unite.
La Sezione rimettente evidenzia, in premessa, che il testo dell’art. 35 ter ord. pen.
richiama l’art. 3 CEDU come interpretato dalla Corte EDU, secondo un meccanismo
mobile il cui contenuto precettivo è eterodefinito e si modella sull’interpretazione
della stessa Corte, che diventa il nucleo centrale del precetto normativo. Richiama,
inoltre, l’obbligo di lettura adeguatrice che incombe sul giudice nazionale, così
affermato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 49 del 2015.
Nel merito, osserva che per valutare le condizioni detentive, occorre definire i
parametri di calcolo dello spazio dei tre metri quadrati per ciascun detenuto nella
cella di assegnazione indicato dalla Corte EDU. Alla luce della giurisprudenza della
Corte EDU, ed in particolare della sentenza Mugic c. Croazia, è pacifico che nel
calcolo non debba essere compresa la superficie occupata dai servizi sanitari,
mentre deve essere incluso lo spazio occupato dai mobili, ferma restando la
necessità di verificare se i detenuti abbiano la possibilità di muoversi normalmente
nella cella.
L’ordinanza sottolinea che la giurisprudenza della Corte di cassazione non è
uniforme sui criteri di calcolo dello spazio minimo da assicurare a ciascun detenuto:
le pronunce divergono sulla stessa nozione di “spazio disponibile”, inteso come
“superficie materialmente calpestabile” ovvero come “superficie che assicuri il
normale movimento nella cella”.
Secondo un primo orientamento, dalla superficie lorda della cella deve essere
detratta l’area occupata dagli arredi, senza alcuna distinzione fra gli stessi.
Successivamente alla sentenza Muri c. Croazia, un nuovo orientamento ha operato
una distinzione tra gli arredi integranti strutture tendenzialmente fisse, di ostacolo al
libero movimento, la cui superficie deve essere detratta dallo spazio minimo, e arredi
facilmente rimuovibili (ad esempio sgabelli e tavolini), che non devono essere tenuti
in considerazione nel calcolo.
Un contrasto specifico riguarda la superficie occupata dal letto: secondo un primo
indirizzo, deve essere sottratta in ogni caso; secondo un altro, invece, deve esserlo
soltanto se avente la struttura “a castello”, incompatibile con la seduta eretta e,
quindi, destinato esclusivamente al riposo.
Infine, un altro orientamento opta per una concezione lorda della superficie, che
prescinde dalla presenza della mobilia.
L’ordinanza di rimessione segnala l’esistenza di un altro contrasto relativo ai “fattori
compensativi”, individuati dalla Corte EDU come idonei a mitigare lo scarso spazio
disponibile per il detenuto. Una pronuncia osserva che gli stessi rilevano soltanto
quando la superficie minima individuale è compresa tra i tre e i quattro metri
quadrati, mentre se è inferiore a tre metri quadrati, la detenzione deve ritenersi in
ogni caso non conforme all’art. 3 della Convenzione. Altre sentenze, invece,
attribuiscono rilevanza ai criteri compensativi qualunque sia la superficie individuale
nella cella, ritenendo che gli stessi possano rendere le condizioni della detenzione
conformi agli standard convenzionali anche se la superficie individuale è inferiore a
tre metri quadrati.

Con provvedimento del 20 maggio 2020, il Presidente Aggiunto ha assegnato il
ricorso alle Sezioni Unite penali e ha fissato l’udienza odierna per la trattazione del
ricorso in camera di consiglio ai sensi dell’art. 611 c.p.p..

L’Avvocatura generale dello Stato, nell’interesse del Ministero della giustizia, ha
depositato una memoria.
Secondo la difesa del ricorrente, la sentenza della Corte EDU, GC, 20 ottobre 2016,
Murp.ie c. Croazia, confermata anche da sentenze successive, ha posto fine ai
contrasti interpretativi e ha esposto in maniera chiara il metodo di calcolo della
superficie minima dello spazio personale che deve essere garantito a un detenuto
ospitato in una cella collettiva: quello della superficie lorda, dalla quale non devono
essere scomputati nè gli spazi occupati dai letti, nè quelli ove risultano allocati gli
arredi, purchè sia assicurata a ciascun detenuto la possibilità di muoversi
normalmente nella cella. In effetti, la superficie occupata dagli arredi concorre alla
definizione della vivibilità dell’ambiente.
I fattori compensativi individuati dalla Corte EDU possono permettere di superare la
presunzione di violazione dell’art. 3 della Convenzione – forte, ma non assoluta –
quando la superficie individuale è inferiore a tre metri quadrati, purchè le riduzioni
dello spazio personale sotto il limite minimo siano brevi, occasionali e minori, si
accompagnino ad una libertà di movimento sufficiente fuori dalla cella e ad attività
fuori dalla cella adeguate e, inoltre, le condizioni generali di detenzione all’interno
dell’istituto siano dignitose.
Al contrario, se la superficie individuale è compresa tra i tre e i quattro metri quadrati,
sussiste una violazione dell’art. 3 CEDU soltanto se sono presenti altre condizioni
critiche di detenzione specificamente indicate.
In definitiva, è corretto l’orientamento della Corte di cassazione che ammette
l’operatività dei criteri compensativi in maniera generalizzata, qualunque sia la
superficie individuale nella cella.

Il Procuratore generale ha depositato memoria nella quale conclude come
riportato in epigrafe.
Atteso che, in forza dell’art. 35 ter ord. pen., i contenuti della giurisprudenza
sovranazionale sono elevati a parametro normativo e sono vincolanti erga omnes
per l’interpretazione e la qualificazione della condotta, sussiste incertezza sui confini
del divieto di trattamenti inumani e degradanti e sugli elementi costitutivi dell’art. 35
ter cit.
In ogni caso, il giudice nazionale non può adottare standard più alti rispetto a quelli
indicati dalla Corte EDU, a pena di violazione dell’art. 35 ter ord. pen.; ciò anche per
impedire una applicazione differente in ciascuno Stato membro delle regole e dei
parametri individuati dalla giurisprudenza consolidata della Corte EDU e per non
incidere sull’efficacia del sistema di cooperazione internazionale per l’esecuzione dei
mandati di arresto Europeo.
Il Procuratore generale rileva che, comunque, residuano spazi interpretativi per il
giudice nazionale e, in particolare, per la Corte di cassazione.
La Corte EDU ha indicato il metodo di calcolo per il computo dello spazio pro-capite
riservato al detenuto: la superficie calpestabile di tre metri quadrati è individuata al
netto dei servizi igienici, ma è comprensiva degli arredi, senza distinzione, mentre la
valutazione della possibilità del libero movimento in cella del detenuto deve essere
sganciata dal calcolo metrico e riguarda, piuttosto, un giudizio empirico, che la Corte
ha volutamente lasciato al giudice di merito nel caso concreto.
Quando la superficie pro capite in cella è inferiore a tre metri quadrati sussiste una
forte presunzione di violazione dell’art. 3 CEDU; lo Stato può, tuttavia, dimostrare
l’esistenza di fattori compensativi per superarla; se, invece, lo spazio individuale
misura dai tre ai quattro metri quadrati, l’art. 3 CEDU è violato se esistono altri fattori
di inadeguatezza del sistema penitenziario; infine, se la superficie individuale è
superiore a quattro metri quadrati, lo spazio personale non rileva ai fini
dell’accertamento della violazione dell’art. 3 CEDU. Nel caso in esame, la violazione
dell’art. 3 CEDU si è verificata durante la detenzione di C. nel carcere di Pianosa,
poichè nella cella collettiva i servizi igienici non erano totalmente separati dalla
camera; al contrario, con riferimento alla detenzione negli altri istituti penitenziari, la
violazione non sussisteva: il Tribunale di Sorveglianza ha adottato un metodo di
calcolo della superficie personale minima più restrittivo di quello indicato dalla Corte
EDU, incorrendo in una violazione di legge.
Motivi della decisione

La questione di diritto per la quale il ricorso è stato rimesso alle Sezioni unite è la
seguente:
“Se, in tema di conformità delle condizioni di detenzione all’art. 3 CEDU come
interpretato dalla Corte EDU, lo spazio minimo disponibile di tre metri quadrati per
ogni detenuto debba essere computato considerando la superficie calpestabile della
stanza ovvero quella che assicuri il normale movimento, conseguentemente
detraendo gli arredi tutti senza distinzione ovvero solo quelli tendenzialmente fissi e,
in particolare, se, tra questi ultimi, debba essere detratto il solo letto a castello
ovvero anche quello singolo”.

Il Magistrato di sorveglianza di L’Aquila ha ordinato il pagamento a favore di C.C.
di una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno ex att. 69, comma 6, lett.
b), art. 35 bis, e art. 35 ter, commi 1 e 2 ord. pen..
L’art. 69 cit. regola le funzioni e i provvedimenti del magistrato di sorveglianza, cui
attribuisce la competenza, a norma dell’art. 35 bis, sui reclami dei detenuti e degli
internati concernenti, tra l’altro, “l’inosservanza da parte dell’amministrazione di
disposizione previste dalla presente legge e dal relativo regolamento, dalla quale
derivi al detenuto o all’internato un attuale e grave pregiudizio all’esercizio dei diritti”.
L’art. 35 ter cit. stabilisce che il pregiudizio menzionato dall’art. 69, comma 6, lett. b)
può consistere “in condizioni di detenzione tali da violare l’art. 3 della Convenzione
per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi
della L. 4 agosto 1955, n. 848, come interpretata dalla Corte Europea dei diritti
dell’Uomo”.
Quando sussistono tali condizioni, su istanza presentata dal detenuto,
personalmente o tramite difensore munito di procura speciale, il magistrato di
sorveglianza, se le condizioni di detenzione subita in violazione dell’art. 3 della
CEDU siano proseguite “per un periodo non inferiore ai quindici giorni”, dispone, a
titolo di risarcimento del danno, una riduzione della pena detentiva da espiare pari,
nella durata, a un giorno ogni dieci durante il quale il richiedente ha subito il
pregiudizio (art. 35 ter, comma 1, ord. pen.).
Se, invece, il periodo di detenzione non conforme all’art. 3 CEDU è stato inferiore a
quindici giorni ovvero se il periodo di pena ancora da espiare non permette la
detrazione per intero prevista dal comma 1, il magistrato di sorveglianza liquida al
detenuto, a titolo di risarcimento del danno, una somma di denaro pari a Euro 8,00
per ciascuna giornata nella quale questi ha subito il pregiudizio (comma 2).
Tale risarcimento del danno è liquidato dal tribunale civile in composizione
monocratica, nelle forme di cui all’art. 737 c.p.c. e ss., se l’interessato ha terminato
l’espiazione della pena detentiva in carcere ovvero se le condizioni contrarie all’art. 3
CEDU si sono verificate in conseguenza “di custodia cautelare in carcere non
computabile nella determinazione della pena da espiare”.
In base all’art. 35 bis cit., il magistrato di sorveglianza deve provvedere nelle forme
previste dagli artt. 666 e 678 c.p.p.; avverso la sua ordinanza è ammesso reclamo al
tribunale di sorveglianza, il cui provvedimento è ricorribile per cassazione per
violazione di legge.

L’art. 35 bis cit. prevede anche le modalità con cui il magistrato di sorveglianza
può intervenire per impedire la prosecuzione delle violazioni della legge penitenziaria
e del relativo regolamento in danno dei detenuti.
In effetti, coerentemente con la funzione di esercitare la vigilanza sull’organizzazione
degli istituti di prevenzione e di pena (art. 69, comma 1 ord. pen.), il magistrato di
sorveglianza, nelle ipotesi di cui all’art. 69, comma 6, lett. b), “accertate la
sussistenza e l’attualità del pregiudizio, ordina all’amministrazione di porre rimedio
entro il termine indicato dal giudice” (art. 35 bis, comma 3, seconda parte); tale
ordine, quando il provvedimento non è più soggetto ad impugnazione, può dar luogo
ad un giudizio di ottemperanza nel caso in cui l’amministrazione non abbia
provveduto (art. 35 bis, commi 5 e 6), giudizio che può portare alla nomina di un
commissario ad acta (art. 35 bis, comma 6, lett. d), ord. pen.).

Si tratta di una disciplina completa ed efficace, finalizzata a garantire nell’attualità i
detenuti e gli internati da condizioni di detenzione inumane o degradanti, potendo
essi ottenere dal magistrato di sorveglianza un ordine vincolante per
l’Amministrazione per costringerla a rimediare tempestivamente, nonchè a risarcire i
detenuti e gli internati per i danni subiti in conseguenza di pregresse condizioni di
detenzione aventi le medesime caratteristiche, calcolati in misura forfetaria.
Come è noto, la disciplina è il frutto di due interventi legislativi operati a breve
distanza di tempo: dapprima con il D.L. 23 dicembre 2013, n. 146, convertito, con
modificazioni, dalla L. 21 febbraio 2014, n. 10, che ha modificato l’art. 69 ord. pen. e
introdotto l’art. 35 bis ord. pen.; successivamente con il D.L. 26 giugno 2014, n. 92,
convertito, con modificazioni, dalla L. 11 agosto 2014, n. 117, che ha introdotto l’art.
35 ter cit., stabilendo anche una disciplina transitoria.
Il legislatore è intervenuto a seguito della pronuncia della sentenza “pilota” della
Corte EDU, 08/01/2013, Torreggiani c. Italia. Con quella pronuncia, la Corte EDU,
dopo avere accertato che i ricorrenti, in conseguenza della situazione di
sovraffollamento del carcere dove erano detenuti, non avevano goduto di uno spazio
minimo conforme al dettato dell’art. 3 della Convenzione, oltre a sottolineare il
principio della carcerazione come extrema ratio e ad auspicare il ricorso alle misure
alternative alla detenzione, aveva rimarcato la necessità che lo Stato predisponesse
rimedi preventivi e compensativi alla detenzione inumana e degradante. La Corte
aveva ritenuto il reclamo previsto dai previgenti artt. 35 e 69 ord. pen. un rimedio non
effettivo nella pratica, in quanto non consentiva di porre fine rapidamente alla
carcerazione in condizioni contrarie all’art. 3 della Convenzione e aveva constatato
la mancanza di un ricorso che consentisse alle persone detenute in condizioni lesive
della loro dignità di ottenere una qualsiasi forma di riparazione.
La Corte aveva, quindi, concluso che spettava alle autorità nazionali creare “un
ricorso o una combinazione di ricorsi “… con effetti preventivi e compensativi, tali da
garantire” una riparazione effettiva delle violazioni della Convenzione risultanti dal
sovraffollamento carcerario in Italia”. All’Italia veniva assegnato il termine di un anno
per conformarsi alle prescrizioni.
In conseguenza del duplice intervento legislativo, il Comitato dei Ministri del
Consiglio d’Europa, con risoluzione adottata l’8 marzo 2016, ha dichiarato
positivamente conclusa la procedura nei confronti dell’Italia in merito al caso
Torreggiani e altri. Anche la Corte EDU ha riconosciuto espressamente
l’adeguatezza delle misure adottate nella sentenza Corte EDU, 16/09/2014, Stella c.
Italia.
Per rimarcare il legame tra la normativa in esame e la sentenza Torreggiani, va
richiamato il D.L. n. 92 del 2014, art. 2, in base al quale coloro che avevano
promosso il giudizio davanti alla Corte EDU potevano proporre domanda di
risarcimento ai sensi dell’art. 35 ter dalla stessa norma introdotta.

La normativa transitoria appena menzionata fa comprendere il nucleo sostanziale
della scelta del legislatore nel configurare il nuovo rimedio risarcitorio dell’art. 35 ter
ord. pen.: il giudice nazionale è chiamato ad applicare i rimedi risarcitori a favore del
detenuto nei casi in cui la Corte EDU, qualora adita direttamente dal detenuto,
potrebbe condannare lo Stato italiano per la violazione dell’art. 3 della Convenzione.
Per giungere a questo risultato, il legislatore ha adottato uno strumento innovativo,
valorizzando l’interpretazione della Corte EDU come elemento integrativo della
norma di legge; strumento non necessitato e fonte di questioni interpretative, la cui
soluzione è necessaria per rendere certo e non evanescente il contenuto della
norma, che comporta provvedimenti di riduzione di pena o (come nel caso in esame)
di condanna dello Stato al pagamento di somme in favore di detenuti a titolo di
risarcimento del danno.
In effetti, in base all’art. 35 ter ord. pen., l’interpretazione dell’art. 3 CEDU da parte
della Corte diventa parte della norma che il giudice nazionale deve applicare.

Gli opposti orientamenti menzionati dall’ordinanza di rimessione in punto di
modalità di computo della superficie minima individuale si basano, quindi, sulle
pronunce della Corte EDU e sulla loro interpretazione.
In realtà, anche prima dell’intervento legislativo veniva riconosciuto al magistrato di
sorveglianza, ai sensi dell’art. 35 ord. pen., il potere di ordinare alle autorità
penitenziarie le misure necessarie per garantire al detenuto reclamante uno spazio
individuale minimo coerente con l’art. 3 CEDU. Peraltro, poichè il ricorso per
cassazione avverso l’ordinanza del Magistrato di sorveglianza era ammesso solo per
violazione di legge, ne veniva dichiarata l’inammissibilità se la motivazione del
provvedimento non era mancante nè apparente: il riferimento alle sentenze della
Corte EDU, di conseguenza, veniva operato solo incidentalmente.
Tre pronunce (Sez. 1, n. 5728 del 19/12/2013, dep. 2014, Berni, Rv. 257924; Sez. 1,
n. 53011 del 27/11/2014, Min. Giustizia, non mass. sul punto; Sez. 1, n. 5729 del
19/12/2013, dep. 2014, Carnoli, non mass.) avevano adottato il criterio del computo
della superficie lorda della cella e argomentato che da essa doveva essere detratta
l’area occupata dagli arredi, proprio richiamando i principi espressi dalla sentenza
“pilota” della Corte EDU Torreggiani c. Italia già citata.
Si deve ricordare che, in quel procedimento, la Corte EDU aveva valutato la
condizione di tre ricorrenti che avevano condiviso una cella di superficie di nove
metri quadri: la Corte rimarcava che “tale spazio era peraltro ulteriormente ridotto
dalla presenza di mobilio nelle celle”. La sentenza, nel ritenere fondata la domanda
dei ricorrenti, menzionava la giurisprudenza precedente che, in alcuni casi, aveva
richiesto una superficie individuale maggiore, pari a quattro metri quadrati, seguendo
l’indicazione del Comitato per la Prevenzione della Tortura.
Successivamente all’introduzione della normativa in esame e alla sentenza della
Grande Camera nel procedimento Muri contro Croazia, la giurisprudenza di questa
Corte assumeva tale pronuncia come punto di riferimento.
Si affermava, quindi, (Sez. 1, n. 13124 del 17/11/2016, dep. 2017, Morello, Rv.
269514) che la giurisprudenza della Corte EDU indica un preciso criterio orientativo,
secondo il quale lo spazio fruibile all’interno della camera detentiva, non contenibile
al di sotto della soglia minima predetta, deve essere inteso come superficie libera,
che consenta la possibilità di muoversi e non di svolgere altre attività, intellettive o
manuali, che implichino la stazione eretta o distesa. Da qui la conclusione che lo
spazio minimo, necessario per assicurare al soggetto ristretto il movimento
all’interno della cella, deve essere calcolato al netto degli ingombri degli arredi fissi
che, in quanto tali, impediscono il moto. Tra gli arredi fissi va compreso anche il letto
“a castello”, che non può essere facilmente spostato, risultando irrilevante la
“vivibilità” del letto per l’assolvimento di altre funzioni.
Nella medesima prospettiva si sottolineava (Sez. 1, n. 12338 del 17/11/2016, dep.
2017, Agretti, non mass.) che lo spazio disponibile in cella va inteso come libero, tale
da permettere il movimento, cosicchè, laddove risultino collocati arredi fissi non
facilmente rimuovibili attraverso operazioni semplici, la superficie perde la sua
connotazione iniziale per assumere quella di uno spazio occupato.
Principi analoghi venivano espressi da un’altra decisione in tema di mandato di
arresto Europeo (Sez. F., n. 39207 del 17/8/2017, Gongola, non mass.), la quale
ribadiva, richiamando la sentenza della Corte EDU Torreggiani c. Italia, che dalla
superficie lorda della cella deve essere detratta l’area occupata da strutture
tendenzialmente fisse, tra cui il letto, mentre non rilevano gli altri arredi facilmente
amovibili. La sentenza che aveva disposto la consegna del soggetto veniva, di
conseguenza, annullata con rinvio, poichè lo Stato richiedente, nel fornire le
informazioni sulle condizioni di detenzione che sarebbero state riservate al soggetto,
aveva calcolato la superficie della cella “al lordo del letto e di altri non precisati arredi
mobili”.
Anche Sez. 1, n. 41211 del 26/05/2017, Gobbi, Rv. 271087 affermava che, ai fini
della determinazione dello spazio individuale minimo intramurario in cella collettiva,
da assicurare ad ogni detenuto affinchè lo Stato non incorra nella violazione del
divieto di trattamenti inumani o degradanti, stabilito dall’art. 3 della Convenzione dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, così come interpretato dalla
giurisprudenza della Corte EDU, la soglia minima dei tre metri quadrati va riferita alla
“superfice calpestabile” funzionale alla libertà di movimento del recluso, dovendosi,
pertanto, detrarre, al fine del calcolo dello spazio individuale minimo, l’area destinata
ai servizi igienici e quella occupata da strutture tendenzialmente fisse, tra cui il letto
a castello, destinato a sole finalità di riposo. La soluzione derivava dal
consolidamento di tale principio nell’ambito della giurisprudenza della Corte EDU, di
cui si citavano le sentenze Muri contro Croazia e Rezmivese c. Romania.
Un’altra decisione (Sez. 1, n. 52819 del 09/09/2016, Sciuto, Rv. 268231)
approfondiva il tema relativo allo spazio occupato dal letto, rispetto al quale la Corte
EDU, Muri non aveva espresso una posizione specifica.
La Corte rilevava la necessità di escludere dal computo quelle superfici occupate da
struttura tendenzialmente fisse (tra cui il letto), considerando irrilevanti le diverse
possibili modalità di utilizzo del letto, trattandosi di funzioni che non soddisfano la
primaria esigenza di movimento.
La pronuncia, in verità, non sosteneva espressamente che anche la superficie
occupata dal letto singolo deve essere detratta, al pari di quella occupata dagli arredi
fissi, sulla considerazione che il letto, in una cella collettiva, “per comune esperienza
è tipologicamente un letto a castello”. Sulla base della medesima argomentazione
una sentenza della Cassazione civile (Sez. 1 civ., n. 4096 del 20/02/2018, Rv.
647236) affermava, invece, espressamente che anche lo spazio occupato dai letti
singoli deve essere detratto, riducendo lo spazio libero necessario per il movimento.
A tale indirizzo interpretativo se ne contrappone un altro (Sez. 1, n. 40520 del
16/11/2016, dep. 2017, Triki, non mass.), secondo cui i letti sono da ritenersi ostativi
al libero movimento e alla piena fruizione da parte del detenuto soltanto quando
presentino la struttura “a castello”, che non ne permette lo spostamento e che,
quindi, restringe l’area di libero movimento. Al contrario, i letti singoli sono da
ritenersi amovibili al pari di sgabelli o tavoli.
Infine, alcune sentenze pronunciate in tema di consegna di soggetti colpiti da
mandato di arresto Europeo, facevano riferimento alla superficie lorda della cella,
escludendo che da tale superficie debba essere detratto lo spazio occupato dagli
arredi, di qualunque tipo. Peraltro, si trattava di affermazioni incidentali nell’ambito di
una valutazione cemp-I-es-s-iva delle complessive condizioni detentive che lo Stato
di consegna assicura al soggetto consegnato, tenuto conto dei fattori compensativi e
di un regime detentivo non “chiuso”, ma “semi-aperto”.

La soluzione del contrasto presuppone alcuni passaggi, imposti dalla innovativa
configurazione dell’art. 35 ter ord. pen. già evidenziata: le considerazioni che
seguono, ovviamente, sono valide per tutti i casi di applicazione della norma, che
non riguarda soltanto la violazione dell’art. 3 CEDU in conseguenza del
sovraffollamento carcerario, ma ogni ipotesi di detenzione inumana e degradante
secondo l’interpretazione data alla norma dalla Corte EDU. In primo luogo, è
necessario individuare le decisioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo da
adottare come elemento integrativo della norma, tema in qualche modo reso più
arduo dalla natura delle stesse, che hanno la funzione di fornire una risposta a
singoli casi, accertando, sulla base di un ricorso individuale, se vi è stata violazione
di un diritto stabilito dalla Convenzione.
La Corte Costituzionale ha da tempo delineato il tema dei rapporti tra giudice
nazionale e giurisprudenza della Corte EDU; con la sentenza n. 49 del 2015 ha
ribadito e approfondito il proprio insegnamento.
Fin dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, la Corte Costituzionale ha affermato che
alla Corte di Strasburgo compete di pronunciare la “parola ultima” in ordine a tutte le
questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione e dei suoi
Protocolli, secondo quanto le parti contraenti hanno stabilito in forza dell’art. 32 della
CEDU: una “funzione interpretativa eminente”, con la quale si assicura la certezza
del diritto e l’uniformità presso gli Stati aderenti di un livello minimo di tutela dei diritti
dell’uomo.
Tuttavia, i giudici nazionali non sono “passivi ricettori di un comando esegetico
impartito altrove nelle forme della pronuncia giurisdizionale” e non possono
spogliarsi della funzione che è assegnata loro dall’art. 101 Cost., comma 2, con il
quale si “esprime l’esigenza che il giudice non riceva se non dalla legge l’indicazione
delle regole da applicare nel giudizio, e che nessun’altra autorità possa quindi dare
al giudice ordini o suggerimenti circa il modo di giudicare in concreto”; ciò vale anche
per le norme della CEDU, che hanno ricevuto ingresso nell’ordinamento giuridico
interno grazie ad una legge ordinaria di adattamento.
Ai giudici nazionali è attribuito il compito dell’applicazione e dell’interpretazione del
sistema di norme, ma essi non possono ignorare l’interpretazione della Corte EDU,
una volta che essa si sia consolidata in una certa direzione: il giudice comune è
tenuto ad uniformarsi alla “giurisprudenza Europea consolidatasi sulla norma
conferente” (sentenze n. 236 del 2011 e n. 311 del 2009), ” in modo da rispettare la
sostanza di quella giurisprudenza ” (sentenza n. 311 del 2009; nello stesso senso,
sentenza n. 303 del 2011), fermo il margine di apprezzamento che compete allo
Stato membro (sentenze n. 15 del 2012 e n. 317 del 2009).
E’, pertanto, solo un “diritto consolidato”, generato dalla giurisprudenza Europea,
che il giudice interno è tenuto a porre a fondamento del proprio processo
interpretativo, mentre nessun obbligo esiste in tal senso, a fronte di pronunce che
non siano espressive di un orientamento oramai divenuto definitivo.
La nozione di giurisprudenza consolidata trova riconoscimento nell’art. 28 CEDU,
che attribuisce maggiore persuasività alle pronunce che seguono un principio
costantemente applicato dalla Corte, nonchè alle sentenze della Grande Camera
che pronuncia su questione di principio (S. U, n. 8544 del 24/10/2019, dep. 2020,
Genco, Rv. 278054).
La Corte costituzionale indica anche i criteri per riconoscere la natura non
consolidata di un orientamento espresso in una sentenza della Corte EDU: “la
creatività del principio affermato, rispetto al solco tradizionale della giurisprudenza
Europea; gli eventuali punti di distinguo, o persino di contrasto, nei confronti di altre
pronunce della Corte di Strasburgo; la ricorrenza di opinioni dissenzienti, specie se
alimentate da robuste deduzioni; la circostanza che quanto deciso promana da una
sezione semplice, e non ha ricevuto l’avallo della Grande Camera; il dubbio che, nel
caso di specie, il giudice Europeo non sia stato posto in condizione di apprezzare i
tratti peculiari dell’ordinamento giuridico nazionale, estendendovi criteri di giudizio
elaborati nei confronti di altri Stati aderenti che, alla luce di quei tratti, si mostrano
invece poco confacenti al caso italiano”.

Questo principi hanno diretto rilievo ai fini della ricostruzione del contenuto
precettivo dell’art. 35 ter ord. pen..
Il contenuto precettivo della norma è determinato per relationem, tramite un
meccanismo di rinvio mobile, agli indirizzi interpretativi elaborati dalla Corte EDU in
ordine all’art. 3 della Convenzione, in quanto le decisioni della Corte EDU hanno il
compito non solo di dirimere le controversie di cui è investita, ma, in modo più
ampio, di chiarire, salvaguardare e approfondire le norme della Convenzione,
svolgendo un ruolo chiave nella definizione e concretizzazione dei diritti e delle
libertà elencati nel testo, con formule generalmente aperte.
Si tratta del primo caso di espressa integrazione diretta del sistema normativo
interno ai contenuti della giurisprudenza sovranazionale, elevati, in questa materia, a
parametro normativo, vincolante erga omnes per l’interpretazione e qualificazione
della condotta.
In base a tale scelta legislativa, pertanto, gli orientamenti tratti dalle pronunce della
Corte EDU non assolvono all’ordinaria finalità di orientamento dell’interpretazione
della disposizione, cui è tenuto ordinariamente il giudice nazionale in virtù dei vincoli
derivanti dagli obblighi internazionali riconoscenti del nostro ordinamento (art. 117
Cost.), ma, tramite una clausola di rinvio formale, fanno ingresso nell’ordinamento
quale fonte cui è demandata la determinazione delle fattispecie.
Al giudice interno sono imposte la costante conoscenza e analisi delle decisioni
emesse dalla Corte EDU sul tema in questione, poichè oggetto della verifica ex art.
35-ter ord. pen. sono soprattutto le caratteristiche dell’offerta trattamentale da parte
dell’Amministrazione penitenziaria in relazione al particolare vissuto del soggetto
interessato (Corte EDU, Grande Camera 28.2.2008, Scadi c/Italia).

Si deve, inoltre, ribadire che la giurisprudenza della Corte EDU non rileva soltanto
rispetto alla nozione di detenzione in condizioni disumane e degradanti con specifico
riferimento allo spazio minimo da assicurare al detenuto all’interno della cella, ma
anche ai fini dell’accertamento di altre violazioni dell’art. 3 CEDU: i principi affermati
dalla Corte EDU integrano la fattispecie di cui all’art. 35-ter ord. pen. non solo in
chiave sincronica, mediante l’attribuzione al testo di uno dei possibili significati, ma
anche in una prospettiva diacronica, tramite l’inquadramento nella norma di diritti e
garanzie originariamente non riconosciuti.
In effetti, l’analisi dell’evoluzione della giurisprudenza della Corte EDU dimostra una
progressiva presa di consapevolezza del fatto che la privazione della libertà
personale non comporta, di per sè, il venir meno dei diritti riconosciuti dalla CEDU
(Corte EDU, 21/02/1975, Golder c. Regno Unito) e che i diritti delle persone recluse
possono essere sottoposti a restrizioni solo ove queste siano giustificate dalle
normali e ragionevoli esigenze della detenzione; passando dal principio secondo cui
l’art. 3 CEDU non pone a carico degli Stati contraenti solo obblighi negativi, ma
anche ben più incisivi obblighi positivi, di intervento, per assicurare ad ogni individuo
detenuto condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana (Corte EDU,
Grande Camera, 26/10/2000, Kudla c. Poland), si afferma che le modalità di
esecuzione della restrizione in carcere non devono provocare all’interessato uno
sconforto e un’afflizione di intensità tale da eccedere l’inevitabile sofferenza legata
alla detenzione.
Per riempire di contenuto l’art. 3 CEDU che pone un divieto assoluto, ma senza
alcuna tipizzazione della nozione di “pene o trattamenti inumani o degradanti”, la
Corte ha adottato il criterio della “soglia minima di gravità”, evidenziando i casi in cui
tale soglia viene superata in relazione alle circostanze oggettive del fatto o alle
qualità soggettive della vittima.
Tale evoluzione si riscontra anche con riferimento al tema del sovraffollamento
carcerario, come si evidenzierà nel prosieguo.

Alla luce di queste affermazioni devono essere letti i passaggi di alcune
pronunce di questa Corte che sembrano ritenere possibile per il giudice nazionale,
nell’ambito del giudizio instaurato ai sensi dell’art. 35 ter ord. pen., l’applicazione di
criteri differenti e più favorevoli per i diritti dei detenuti rispetto a quelli adottati dalla
Corte EDU, richiamando “l’obbligo di fornire, nel sistema interno, la più ampia tutela
possibile ad un diritto fondamentale”, in quanto “con riferimento ad un diritto
fondamentale, il rispetto degli obblighi internazionali non può mai essere causa di
una diminuzione di tutela rispetto a quella predisposta dall’ordinamento interno, ma
può e deve, viceversa, costituire strumento efficace di ampliamento della tutela
stessa” (Sez. 1, n. 15554 del 23/01/2019, Inserra, non mass.); rivendicando, in
sostanza, uno spazio di autonomia della giurisprudenza della Corte di cassazione,
“quando la soluzione adottata assicuri una maggiore garanzia al diritto fondamentale
in gioco rispetto a quello che si intende far valere in forza della traduzione letterale
delle pronunce della Corte EDU” (Sez. 1, n. 46442 del 16/10/2019, Poretti, non
mass.).
Benchè tali pronunce siano ispirate dalla giusta esigenza di garantire al meglio i
diritti fondamentali dei detenuti, in ossequio al dettato costituzionale, è il sistema fin
qui delineato che impedisce al giudice nazionale di adottare un’interpretazione
dell’art. 3 della CEDU differente da quella consolidata fornita dalla Corte EDU su uno
specifico aspetto, perchè ciò violerebbe sia il principio dell’obbligo per il giudice
comune di uniformarsi alla giurisprudenza Europea consolidata sulla norma
conferente, sia lo stesso art. 35 ter ord. pen. che, appunto, ha reso la predetta
giurisprudenza consolidata la fonte normativa mediante il rinvio per relationem più
volte ricordato.
Resta, senza dubbio, la possibilità del ricorso alla Corte Costituzionale nel caso in
cui il giudice ravvisi che la norma dell’art. 35 ter cit., così applicata, contrasti con il
divieto posto dall’art. 27 Cost., comma 3: ma si tratta di ipotesi astratta, attesa la
sostanziale coincidenza di contenuto tra la norma costituzionale e quella
convenzionale e l’autorevolezza della giurisprudenza della Corte Europea dei diritti
dell’Uomo; la lettura delle sentenze dimostra, del resto, che, lungi dal limitarsi a
stabilire regole o fissare misure, la Corte EDU ha ben presente il complesso delle
problematiche legate alla detenzione e con le sue decisioni fissa principi volti al
miglioramento complessivo delle condizioni dei detenuti negli Stati membri (si pensi
ai richiami ripetuti alle indicazioni del Comitato per la prevenzione della tortura e di
altri organismi), adottandolo come obiettivo da raggiungere gradualmente con
un’azione basata sulla concretezza e sul realismo.

Come già accennato, il rispetto del divieto di trattamenti inumani e degradanti
viene in rilievo in fase di esecuzione di un mandato di arresto Europeo (MAE),
avendo la Corte di Giustizia dell’Unione Europea riconosciuto, a determinate
condizioni, l’obbligo per l’autorità giudiziaria dell’esecuzione di sospendere o porre
fine alla procedura di consegna, qualora questa rischi, in concreto, di esporre la
persona colpita dal mandato ad un trattamento inumano o degradante. Quando è
presente tale rischio, l’autorità giudiziaria dell’esecuzione deve rimandare la
decisione sulla consegna della persona fino a quando non riceva informazioni che
consentano di escluderlo.
L’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea ha contenuto identico
all’art. 3 della CEDU; si deve ricordare che, secondo il Preambolo, la Carta
“riafferma, nel rispetto delle competenze e dei compiti dell’Unione e del principio di
sussidiarietà, i diritti derivanti in particolare dalle tradizioni costituzionali e dagli
obblighi internazionali comuni agli Stati membri, dalla Convenzione Europea per la
salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, dalle carte sociali
adottate dall’Unione e dal Consiglio d’Europa, nonchè dalla giurisprudenza della
Corte di giustizia dell’Unione Europea e da quella della Corte Europea dei diritti
dell’uomo”. Anche in questo caso, quindi, la norma viene espressamente integrata
con il richiamo alla giurisprudenza della Corte EDU. Ebbene: la Corte di Giustizia UE
ha negato espressamente la possibilità per il giudice nazionale, chiamato a decidere
sull’esecuzione di un MAE, di adottare uno standard più elevato rispetto a quelli
indicati; nella sentenza Corte di Giustizia, GS, 15/10/2019, Dumitru-Tudor
Dorobantu, si osserva che “anche per quanto riguarda le modalità con cui – per
valutare se esista un rischio reale per la persona interessata di essere sottoposta ad
un trattamento inumano o degradante, ai sensi dell’art. 4 della Carta – va calcolato lo
spazio minimo di cui deve disporre una persona detenuta in una cella collettiva nella
quale si trovino mobilio e infrastrutture sanitarie, bisogna, in assenza, allo stato
attuale, di regole minime stabilite in materia dal diritto dell’Unione, tener conto dei
criteri fissati dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo alla luce dell’art. 3 della EDU.
(…) Occorre (…) sottolineare che, se certo è lecito per gli Stati membri prevedere,
per il loro sistema penitenziario, standard minimi, in termini di condizioni di
detenzione, più elevati di quelli risultanti dall’art. 4 della Carta e dall’art. 3 della
CEDU, come interpretato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, nondimeno, uno
Stato membro può, in quanto Stato membro di esecuzione, subordinare la
consegna, allo Stato membro emittente, della persona oggetto di un mandato
d’arresto Europeo unicamente al rispetto di questi ultimi standard, e non al rispetto di
quelli risultanti dal proprio diritto nazionale. Infatti, la soluzione contraria, rimettendo
in discussione l’uniformità dello standard di tutela dei diritti fondamentali definiti dal
diritto dell’Unione, finirebbe per pregiudicare i principi della fiducia e del
riconoscimento reciproci che la decisione quadro 2002/584 mira a sostenere e,
dunque, per compromettere l’effettività di tale decisione quadro (v., in tal senso,
sentenza del 26 febbraio 2013, Melloni, punto 63)”.
Nell’ambito di tale pronuncia, la Corte recepisce integralmente i criteri dettati dalla
sentenza della Corte EDU, Mursic, più volte ricordata.

Quanto fin qui argomentato non esclude uno spazio per l’interpretazione della
norma in esame e, con essa, dell’orientamento consolidato della giurisprudenza
della Corte EDU che la integra: operazione che molte delle sentenze menzionate
nell’ordinanza di rimessione richiamano e che, nel caso in esame, risulta decisiva. In
effetti, se la giurisprudenza consolidata della Corte EDU costituisce parte integrante
della norma, anch’essa, nel suo contenuto precettivo, può non avere un significato
del tutto chiaro e può legittimare interpretazioni differenti.
Del resto, la Corte costituzionale ricorda che “i canoni dell’interpretazione
costituzionalmente e convenzionalmente orientata devono (…) trovare applicazione
anche nei confronti delle sentenze della Corte EDU, quando di esse (…) non si è in
grado di cogliere con immediatezza l’effettivo principio di diritto che il giudice di
Strasburgo ha inteso affermare per risolvere il caso concreto (sentenza n. 236 del
2011). In tali evenienze, non comuni ma pur sempre possibili, a fronte di una pluralità
di significati potenzialmente compatibili con il significante, l’interprete è tenuto a
collocare la singola pronuncia nel flusso continuo della giurisprudenza Europea, per
ricavarne un senso che possa conciliarsi con quest’ultima, e che, comunque, non sia
di pregiudizio per la Costituzione” (Corte Cost., sent. n. 49 del 2015).
Emerge, quindi, il duplice ruolo della Corte di cassazione nei giudizi relativi
all’applicazione dell’art. 35 ter ord. pen. in presenza di un ricorso consentito soltanto
per violazione di legge: l’interpretazione della norma nazionale e della
giurisprudenza consolidata della Corte EDU, che concorre a definirne la portata e il
significato precettivo, nonchè l’annullamento dei provvedimenti adottati in violazione
di legge, vizio che ricorre, sotto il profilo sostanziale, in caso di adozione da parte del
giudice di merito di un criterio difforme da quello indicato dalla Corte EDU nella sua
giurisprudenza consolidata nell’esame del singolo caso sottoposto al suo giudizio,
che richiede una puntuale valutazione di tutti gli elementi di fatto ai fini dell’adozione
di un provvedimento conforme al paradigma normativo.

Alla luce delle considerazioni fin qui esposte, è possibile affrontare la questione
di diritto posta dall’ordinanza di rimessione.
Il suo esame impone una doverosa premessa.
La condizione di detenzione non comporta per il soggetto ristretto la perdita delle
garanzie dei diritti affermati dalla Convenzione che, al contrario, assumono specifica
rilevanza proprio a causa della situazione di particolare vulnerabilità in cui si trova la
persona.
Secondo la consolidata giurisprudenza della Corte EDU, l’art. 3 della Convenzione,
nel sancire uno dei valori fondamentali delle società democratiche, pone a carico
degli Stati contraenti non soltanto obblighi negativi, ma anche più incisivi obblighi
positivi per assicurare ad ogni individuo detenuto condizioni compatibili con il rispetto
della dignità umana (Corte EDU, 15/7/2002, Kalachnikov c. Russia). Di conseguenza
una pena, pur legalmente inflitta, può tradursi in una violazione della Convenzione
qualora comporti una compressione dei diritti convenzionali non giustificata dalle
condizioni di restrizione. In altri termini, le modalità di esecuzione della restrizione in
carcere non devono provocare all’interessato un’afflizione di intensità tale da
eccedere l’inevitabile sofferenza legata alla detenzione. Ciò coerentemente con il
criterio della c.d. soglia minima di gravità, costantemente utilizzato dalla Corte EDU
per selezionare le condotte messe al bando ai sensi dell’art. 3 della Convenzione
(Corte EDU, 8/2/2006, Alver c. Estonia, p. 49).
In tale contesto, lo spazio che deve essere attribuito a ciascun detenuto è stato
oggetto di crescente attenzione da parte della Corte di Strasburgo.
In una prima fase la Corte ha considerato il dato spaziale unitamente ad altri fattori
(quali, a titolo esemplificativo, la durata della detenzione, la possibilità di usare i
servizi igienici privatamente, l’areazione disponibile, l’accesso alla luce naturale e
all’aria aperta, la qualità del riscaldamento, il rispetto delle esigenze sanitarie di
base, la presenza o mancanza di intimità nelle celle) al fine dell’accertamento della
violazione dell’art. 3 CEDU, evitando di quantificare la misura dello spazio personale
che deve essere attribuito a ciascun detenuto. In base a tale approccio, l’elemento
dello spazio minimo vitale, pur costituendo elemento centrale di valutazione, non
rappresentava il criterio esclusivo per dichiarare la sussistenza della violazione
dell’art. 3 della Convenzione (Corte EDU, 19/07/2007, Trepachkine c. Russia, p. 92;
Corte EDU, 6/12/2007, Lind c. Russia).
Successivamente l’estrema esiguità della cella carceraria è stata considerata
l’elemento di per sè sufficiente per stabilire se si verta in un’ipotesi di trattamento
disumano e degradante. In particolare, in un alto numero di casi, la Corte ha
determinato in 3 metri quadrati di superficie calpestabile (floor space) il criterio
minimo applicabile in materia di spazio personale per i detenuti in una cella collettiva
La sentenza della Corte EDU, 6/11/2009, Sulejmanovic c. Italia ha adottato una sorta
di automatismo di violazione dell’art. 3 CEDU in caso di mancato rispetto del
parametro dei tre metri quadrati, già enunciato in precedenti pronunce. E’, però,
interessante richiamare la dissenting opinion del giudice Zagrebelsky (allegata alla
sentenza) secondo il quale era da escludere ogni automatismo tra dimensione della
cella e violazione dell’art. 3 CEDU in mancanza di elementi ulteriori e diversi rispetto
all’insufficienza di spazio disponibile.
La sentenza Torreggiani c. Italia, già ricordata, ha affermato che, in presenza di una
situazione di sovraffollamento carcerario, uno spazio inferiore a 3 metri quadrati
effettivi, detratti gli arredi fissi dal computo dello spazio disponibile, può costituire
l’elemento centrale da prendere in considerazione nella valutazione della conformità
di una data situazione all’art. 3 CEDU. Ha, inoltre, argomentato che la grave
insufficienza di spazio riscontrata – costituente di per sè trattamento disumano e
degradante – può essere ulteriormente aggravata da altre negative condizioni di
detenzione (quali l’assenza di acqua calda e l’inadeguatezza del sistema di
illuminazione e ventilazione) in grado di cagionare sofferenze addizionali alla
persona ristretta.
Anche la sentenza della Corte EDU, 5/3/2013, Tellissi c. Italia ha evidenziato che
una situazione di sovraffollamento carcerario con uno spazio inferiore a 3 metri
quadrati è sufficiente ad integrare la violazione dell’art. 3 CEDU, mentre uno spazio
inferiore a 4 metri quadrati (auspicato dal Comitato per la prevenzione della tortura)
non può, da solo, costituire una violazione di tale disposizione e richiede la
valutazione di altri aspetti inerenti alle modalità di esecuzione della misura cautelare.
In una linea di sostanziale continuità con tali orientamenti non incentrati sul solo dato
geometrico, nella pronuncia della Corte EDU del 10/01/2012, Ananyev e altri c.
Russia vengono coniugati tre fattori per valutare la conformità della detenzione
all’art. 3 CEDU: uno spazio individuale destinato al riposo dentro la cella; la
disponibilità di almeno 3 metri quadrati di superficie; la possibilità di movimento
libero fra gli arredi. La mancanza di uno di essi (tra cui lo spazio individuale inferiore
a tre metri quadrati) non determina una automatica violazione dell’art. 3 CEDU, ma
crea una forte presunzione che le condizioni di detenzione integrino un trattamento
degradante, lasciando allo Stato la possibilità di confutazione in base ad altri
elementi compensativi.

La pronuncia della Grande Camera del 20/10/2016 nel procedimento Muri c.
Croazia.
La sentenza, all’esito di un percorso articolato, muovendo dalla diversità tra il ruolo
del Comitato per la prevenzione della tortura, teso, in dimensione preventiva, ad
assicurare un grado di protezione più elevato, e quello della Corte, chiamata alla
verifica giudiziale di eventuali violazioni dell’art. 3 della Convenzione, ha ribadito che
la costrizione di un detenuto in uno spazio inferiore a 3 metri quadrati in una cella
collettiva determina una “forte presunzione” di violazione dell’art. 3 CEDU,
presunzione, peraltro, relativa, che può essere vinta dall’esistenza di altri fattori in
grado di compensare la carenza di spazio vitale: la brevità, l’occasionalità, la
modesta entità della riduzione di spazio personale, la sufficiente libertà di movimento
e lo svolgimento di attività all’esterno della cella; l’adeguatezza della struttura in
assenza di altri aspetti che aggravino le condizioni generali di detenzione del
ricorrente. Uno spazio personale dentro la cella compreso fra i 3 e i 4 metri quadrati
può assumere rilievo nella prospettiva dell’art. 3 CEDU solo se l’esiguità della
superficie si accompagna ad altri fattori di inadeguatezza del regime penitenziario
(impossibilità di fare esercizio all’aria aperta, scarso accesso alla luce naturale e
all’aria, insufficiente sistema di riscaldamento, omesso rispetto di basilari requisiti
igienico-sanitari).
In presenza di uno spazio personale dentro la cella superiore a 4 metri quadrati, ai
fini dell’eventuale violazione dell’art. 3 CEDU, assumono rilievo aspetti diversi da
quello dello spazio.
La Corte, in definitiva, ricomprende il complesso delle condizioni di detenzione,
positive e negative, in una valutazione unitaria, rispettosa della dignità dell’essere
umano detenuto, per il quale l’esperienza carceraria è unica, come è unitaria la
valutazione del suo carattere inumano o degradante, e specifica, inoltre, la portata e
le caratteristiche del tema dello spazio ridotto riservato ad ogni detenuto in
conseguenza del sovraffollamento carcerario, emerso come fattore di notevole
rilevanza per la valutazione richiesta.
E’, quindi, possibile affermare che la Grande Camera opta per una valutazione
multifattoriale e cumulativa delle concrete condizioni detentive in cui gioca un ruolo
rilevante anche il dato temporale.
La sentenza affronta, infine, per la prima volta il tema delle modalità di calcolo dello
spazio minimo, oggetto di valutazione incidentale nelle altre pronunce. Al riguardo,
osserva testualmente:
“(…) la Corte reputa importante spiegare più precisamente il metodo che applica ai
fini dell’esame nella prospettiva dell’art. 3 per calcolare la superficie minima dello
spazio personale che deve essere garantito a un detenuto ospitato in una cella
collettiva”. Ritiene “(…) che in questo calcolo la superficie totale della cella non
debba comprendere quella dei sanitari. In compenso il calcolo della superficie
disponibile nella cella deve includere lo spazio occupato dai mobili. L’importante è
determinare se i detenuti hanno la possibilità di muoversi normalmente nella cella
(cfr., ad esempio, Ananyev and Others, cit., p.p. 147-148; e Vladimir Belyayev, cit., p.
34)”. Nel contesto ricostruttivo sin qui delineato le opinioni dissenzienti allegate alla
sentenza non ne intaccano il valore di precedente particolarmente autorevole, ove si
consideri che i medesimi principi sono stati enunciati da altre pronunce che hanno
contribuito a “consolidarlo” (Corte EDU, 25/04/2017, Rezmivese c. Romania –
trattasi, per di più, di sentenza “pilota” nonchè Corte EDU, 16/05/2017, Sylla e
Nollomont c. Belgio; Corte EDU, 30/01/2020, J.M.B. c. Francia), come comprovato
anche dalla sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea nella sentenza
della Grande Sezione, 15/10/2019, Dumitru-Tudor Dorobantu, che riproduce il
principio di diritto sopra riportato, citando espressamente la pronuncia della Corte
EDU. 15. La sentenza Muri c. Croazia contiene due passaggi che meritano un
approfondimento.
E’ pacifico che la superficie dei servizi igienici (che, in base al D.P.R. 30 giugno
2000, n. 230, art. 7, Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e
sulle misure privative e limitative della libertà, devono essere collocati “in un vano
annesso alla camera”) non deve essere computata in quella complessiva della cella,
come riconosce anche il Ministero ricorrente, pur ricordando che, in una circolare del
2014, era stata adottata la soluzione opposta.
Tanto premesso, occorre approfondire la relazione esistente tra due proposizioni
contenute nella sentenza. La Corte EDU, infatti, afferma che: “(…) il calcolo della
superficie disponibile nella cella deve includere lo spazio occupato dai mobili”; inoltre
osserva che: “è importante determinare se i detenuti hanno la possibilità di muoversi
normalmente nella cella”.
Il Procuratore generale e l’Avvocatura Generale per il Ministero ricorrente, con le
rispettive memorie, propongono una considerazione autonoma delle due
proposizioni, sostenendo che la Corte EDU ha fatto riferimento ad una “concezione
lorda della superficie” e che “la valutazione sulla clausola aperta della verifica della
possibilità del libero movimento in cella del detenuto deve essere sganciata dal
calcolo metrico che, logicamente, la precede”.
Ritenere distinte e autonome le due proposizioni della sentenza Mursic, quindi, porta
a valorizzare un mero calcolo geometrico della superficie della cella, utilizzando le
lunghezze dei lati e detraendo da tale superficie quella dei servizi igienici.
Come già anticipato, questa prospettazione ha un’altra conseguenza: la verifica della
possibilità del normale movimento dei detenuti nella cella diventa un accertamento di
fatto, di natura empirica, spettante al magistrato di sorveglianza, rispetto al quale
non vi è spazio per dedurre con il ricorso per cassazione violazioni di legge.

Il Collegio ritiene, al contrario, sulla base di una lettura sistematica delle due
proposizioni alla luce dei principi enunciati, che le stesse debbano essere lette
congiuntamente, sì da attribuire loro un significato effettivo e conforme alle finalità
perseguite dalla Corte e dalla legge in relazione al divieto di pene inumane e
degradanti.
L’interpretazione separata delle due proposizioni renderebbe il secondo parametro –
quello della possibilità di muoversi normalmente nella cella – assai generico e di
difficile applicazione da parte del magistrato di sorveglianza, se non in casi eclatanti
di manifesta impossibilità di spostamento. Non è un caso che la Corte EDU, sia nella
sentenza Ananyev c. Russia che nella decisione Muri c. Croazia, utilizzi
alternativamente due termini: “normalmente” (normally) e “liberamente” (freely),
espressivi dell’evanescenza del criterio se adottato autonomamente, con
conseguente rischio di penalizzazione del detenuto.
La lettura combinata delle due proposizioni permette, invece, di attribuire rilievo, ai
fini della possibilità di movimento in una stanza chiusa, quale è la cella, ad un
armadio fisso oppure ad un pesante letto a castello che equivalgono ad una parete:
in tale ottica la superficie destinata al movimento nella cella è limitata dalle
pareti,nonchè dagli arredi che non si possono in alcun modo spostare e che, quindi,
fungono da parete o costituiscono uno spazio inaccessibile.
Questa lettura è suffragata dall’etimologia del sostantivo della lingua italiana
“mobile”, cui corrisponde quello della lingua francese “meuble”, utilizzata dalla Corte
EDU nella traduzione ufficiale della sentenza Murgie: “En revanche, le calcul de la
surface disponible dans la cellule doit inclure l’espace occupè par les meubles” (la
stessa è stata usata anche successivamente nella sentenza Corte EDU, Rezmivese,
già menzionata). Il sostantivo indica un oggetto che può essere spostato, che è,
appunto, mobile (si tratta di considerazione che non può essere estesa alla lingua
inglese, che utilizza il sostantivo forniture, che ha un’etimologia differente). Ebbene:
per i detenuti all’interno di una cella, mentre il tavolino, le sedie, i letti singoli possono
essere spostati da un punto all’altro della camera (sono, quindi, “mobili”), non
altrettanto può dirsi per gli armadi o i letti a castello, sia a causa della loro
pesantezza o del loro ancoraggio al suolo o alle pareti, che dalla difficoltà di loro
trasporto al di fuori della cella.
In definitiva, la duplice regola dettata dalla Corte EDU può essere legittimamente
interpretata nel senso che, quando la Corte afferma che il calcolo della superficie
disponibile nella cella deve includere lo spazio occupato dai mobili, con tale ultimo
sostantivo intende riferirsi soltanto agli arredi che possono essere facilmente spostati
da un punto all’altro della cella. E’, al contrario, escluso dal calcolo lo spazio
occupato dagli arredi fissi, tra cui rientra anche il letto a castello.

Il Collegio è consapevole che il principio di umanità della pena – cui si riferisce
l’art. 3 CEDU ed espresso anche nell’art. 27 Cost., comma 3, – che impone il divieto
di trattamenti degradanti ha un contenuto di carattere relativo, in quanto ogni pena,
come tale, ha un’intrinseca componente di inumanità (Corte EDU, 25/3/1993,
Costello-Roberts c. Regno Unito). Tuttavia, la rilettura di un principio che si pone
l’obiettivo di quantificare lo spazio minimo vitale per ogni detenuto, al fine di
assicurare il pieno rispetto della dignità della persona nell’espiazione della pena,
restituisce al principio stesso un carattere di assolutezza che appartiene alla
sensibilità di società e ordinamenti giuridici che hanno a cuore il pieno rispetto dei
diritti della persona, anche di chi è recluso.
Tanto premesso, l’adozione dell’interpretazione illustrata in precedenza seguita dalla
maggioranza delle decisioni di questa Corte – appare senza dubbio favorevole al
benessere dei detenuti, ai quali viene garantito uno spazio più ampio concretamente
utile per il movimento rispetto a quello ricavabile dalla soluzione opposta.
Questa esegesi è avvalorata dalla sentenza della Corte EDU Torreggiani, avente
natura di sentenza “pilota” nei confronti dell’Italia, in cui, come detto, la Corte EDU
ha riservato specifico rilievo all’incidenza del mobilio sullo spazio disponibile in una
cella occupata da più detenuti.
La soluzione interpretativa prescelta non trova valida obiezione nella possibile
allocazione di alcuni arredi fissi, quali gli armadi, fuori dalla cella per consentire la
presenza di un maggior numero di persone: da una parte, le istanze di rimedi
risarcitori ai sensi dell’art. 35 ter ord. pen. vengono avanzate con riferimento a
periodi di detenzione già trascorsi, per i quali, quindi, non sono ipotizzabili manovre
dirette ad alterare il dato dello spazio minimo inferiore a tre metri quadrati posto a
base della domanda; dall’altra, la legge fornisce il diverso strumento previsto dall’art.
35 bis, comma 3, ord. pen. mediante il quale il magistrato di sorveglianza, accertate
la sussistenza e l’attualità del pregiudizio, può ordinare all’Amministrazione
penitenziaria di porre rimedio alle violazioni di legge e di regolamento da cui derivino
violazioni ai diritti dei detenuti. Il magistrato potrà verificare se, concretamente –
nonostante il formale rispetto dello spazio individuale minimo di tre metri quadrati – la
disposizione dei mobili all’interno della cella renda del tutto difficoltoso il normale
movimento dei detenuti ovvero se essi siano penalizzati dalla mancanza di armadi,
dove riporre gli oggetti personali all’interno della cella (sui rapporti tra i due
strumenti, cfr. Sez. 1, n. 20985 del 23/06/2020, Biondino, Rv. 279220).

In definitiva deve essere affermato il seguente principio di diritto: “Nella
valutazione dello spazio minimo di tre metri quadrati si deve avere riguardo
alla superficie che assicura il normale movimento e, pertanto, vanno detratti
gli arredi tendenzialmente fissi al suolo, tra cui rientrano i letti a castello”.

Benchè non rilevante nel caso in esame, è opportuno esporre il contenuto
dell’art. 35 ter ord. pen., così come interpretato dalla giurisprudenza consolidata
della Corte EDU, anche con riferimento al tema dei “fattori compensativi” rispetto al
problema del sovraffollamento carcerario.
Come già osservato, il giudizio sulla natura inumana o degradante della pena è
unitario e complessivo, anche se la Corte EDU ha attribuito specifico rilievo al tema
dello spazio minimo riservato ad ogni detenuto. La problematica relativa ai cc.dd.
“fattori compensativi” assume specifico rilievo soprattutto nell’ambito della procedura
di consegna ad altri Stati di persone arrestato in forza di MAE e, quindi, nei rapporti
con Autorità Giudiziarie straniere.
La Sezione rimettente indica la seguente questione di diritto: “se, nel caso di
accertata violazione dello spazio minimo, possa comunque escludersi la violazione
dell’art. 3 CEDU nel concorso di altre condizioni, come individuate dalla stessa Corte
EDU (breve durata della detenzione, sufficiente libertà di movimento al di fuori della
cella con lo svolgimento di adeguate attività, dignitose condizioni carcerarie) ovvero
se tali fattori compensativi incidano solo quando lo spazio pro capite sia compreso
tra i tre e i quattro metri quadrati”.
L’ordinanza segnala che da due pronunce si ricaverebbe il principio che, quando lo
spazio individuale nella cella collettiva è inferiore alla soglia minima di tre metri
quadrati, la detenzione deve ritenersi in ogni caso non conforme al divieto posto
dall’art. 3 CEDU, a prescindere dall’esistenza di fattori compensativi.
In verità, tale principio non sembra espressamente stabilito dalle due sentenze
menzionate: Sez. 1, n. 52992 del 09/09/2016, Gallo, Rv. 268655 non ha
espressamente esaminato la problematica relativa ai fattori compensativi, privi di
rilievo nel caso concreto in cui era dimostrato che il detenuto aveva goduto di uno
spazio individuale superiore a 3 metri quadrati, previo scomputo degli arredi fissi.
Analoghe considerazioni valgono per Sez. 1, n. 5835 del 15/11/2018, dep. 2019,
Marsano, Rv. 274874, che ha analizzato l’incidenza del lavoro interno (art. 20 ord.
pen.) svolto dal detenuto e delle relative condizioni di svolgimento ai fini della
valutazione delle complessive condizioni di detenzione che comprendevano anche la
permanenza in una cella collettiva nella quale lo spazio individuale era compreso tra
i tre e i quattro metri quadrati.
Le due pronunce, piuttosto, valorizzano la presenza di ulteriori elementi negativi
della detenzione che, uniti allo spazio ridotto nella cella collettiva, possono portare a
ritenere integrata la violazione dell’art. 3 CEDU. Le altre sentenze evocate
nell’ordinanza attribuiscono specifico rilievo, per escludere la violazione dell’art. 3
CEDU pur in presenza di uno spazio vitale inferiore a 3 metri quadrati in caso di
consegna a Paese straniero, a fattori compensativi: così Sez. 6, n. 7979 del
26/02/2020, Barzoi, Rv. 278355, che ha valorizzato il congruo numero di ore da
trascorrere quotidianamente all’esterno delle celle, le adeguate condizioni di igiene,
e, dopo l’espiazione di un quinto della pena, la possibilità di accedere al regime di
detenzione cd. aperto; Sez. 6, n. 52541 del 09/11/2018, Moisa, Rv. 274296, che ha
dato importanza al ridotto lasso di tempo (solo nelle ore notturne) trascorso in cella,
all’igiene personale, ai pasti, all’areazione, a condizioni di illuminazione e
climatizzazione adeguate, nonchè all’accesso all’acqua corrente ed ai servizi sanitari
e, ancora alla possibilità di accedere a postazioni telefoniche ed informatiche,
all’acquisto di generi di necessità, alle visite, alla possibilità di lavoro, allo
svolgimento di attività educative, sportive, terapeutiche, con accesso agli spazi
aperti.
Le predette pronunce richiamano alcune sentenze della Corte EDU (Corte EDU,
23/10/2012, Dmitriy c. Russia, 5 53; Corte EDU, 27/11/2012, Kulikov c. Russia, 5 37;
Corte EDU, 27/6/2013, Yepishin c. Russia, p. 65) che hanno rimarcato la necessità
di tenere conto delle complessive condizioni di detenzione: principio ampiamente
richiamato da Corte EDU, GC, Muri c. Croazia più volte ricordata.
Sulla base delle considerazioni sinora svolte è possibile affermare che, nella
giurisprudenza di questa Corte, è incontrastato il principio secondo cui, se il detenuto
è sottoposto al regime c.d. “chiuso”, è necessario che gli venga assicurato uno
spazio minimo di tre metri quadrati, detratto quello impegnato da strutture sanitarie e
arredi fissi; se, al contrario, è sottoposto al regime c.d. “semiaperto”, ove gli venga
riservato uno spazio inferiore ai tre metri quadrati, è necessario, al fine di escludere
o di contenere il pericolo di violazione dell’art. 3 CEDU, che concorrano i seguenti
fattori: 1) breve durata della detenzione; 2) sufficiente libertà di movimento al di fuori
della cella assicurata dallo svolgimento di adeguate attività; 3) dignitose condizioni
carcerarie (Sez. 6, n. 53031 del 09/11/2017, P, Rv. 271577).

La questione di diritto posta dall’ordinanza di rimessione riguarda, in sostanza, i
rapporti tra il sovraffollamento e gli altri aspetti che incidono sulla condizione di
detenzione: si tratta di fattori sia negativi che positivi.
La nozione di “fattori compensativi” si attaglia soltanto a quelli di carattere positivo
che, in qualche modo, possono attenuare il disagio di uno spazio troppo ristretto
all’interno della cella; ma, come si vedrà, anche i fattori di natura negativa possono
interagire con il sovraffollamento ai fini di una valutazione di avvenuta violazione
dell’art. 3 CEDU e conseguente accoglimento dell’istanza di rimedio risarcitorio.
In proposito la Corte EDU, con la citata sentenza Muri c. Croazia, ha affermato che
l’attribuzione di uno spazio individuale inferiore al minimo di tre metri quadrati non
comporta inevitabilmente e di per sè la violazione dell’art. 3 CEDU, ma fa sorgere
soltanto una “forte presunzione”, non assoluta, di violazione.
Ha, inoltre, stabilito che tale presunzione può essere vinta dagli effetti cumulativi
degli altri aspetti delle condizioni di detenzione.
Il primo di tali fattori è la brevità del periodo in cui avviene la riduzione dello spazio
personale in rapporto al minimo obbligatorio (p.p. 130 e 131). Si tratta di un fattore
espressamente preso in considerazione dal legislatore nazionale, che permette la
riduzione della durata della pena detentiva a titolo di risarcimento del danno solo se
la violazione dell’art. 3 CEDU si sia protratta per un periodo di tempo non inferiore a
15 giorni (art. 35 ter, comma 1, ord. pen.). Il medesimo art. 35 ter, comma 2,
prevede, tuttavia, che il magistrato di sorveglianza liquidi al richiedente, a titolo di
risarcimento del danno, una somma di denaro pari a Euro 8,00 per ciascuna giornata
nella quale questi ha subito il pregiudizio anche nel caso in cui il periodo di
detenzione espiata in condizioni non conformi ai criteri di cui all’art. 3 CEDU sia stato
inferiore a quindici giorni. Tenuto conto della rilevanza attribuita dalla Corte EDU alla
brevità del periodo in cui non è stato rispettato lo spazio minimo individuale come
fattore compensativo, si deve ritenere che la norma dell’art. 35 ter, comma 2 appena
citata si riferisca a violazioni dell’art. 3 CEDU diverse da quella derivante dal
sovraffollamento.
Gli ulteriori fattori compensativi che permettono di superare la “forte presunzione” di
violazione dell’art. 3 della Convenzione sono la sufficiente libertà di movimento fuori
dalla cella, lo svolgimento di adeguate attività fuori cella, nonchè le condizioni
dignitose della detenzione in generale (p. 132).
I fattori compensativi devono ricorrere congiuntamente per permettere di superare la
forte presunzione (p. 138).
Secondo la Corte EDU, tali fattori devono essere dimostrati dal Governo: principio
che, ovviamente, si riferisce al giudizio davanti alla stessa Corte, ma che può essere
trasfuso in quello instaurato a seguito di istanza ai sensi dell’art. 35 ter ord. pen.,
essendo onere dell’Amministrazione penitenziaria dimostrare che, benchè il
detenuto istante sia stato privato dello spazio minimo individuale, sussistono i “fattori
compensativi” idonei a superare la presunzione di violazione dell’art. 3 CEDU. 21.
Sulla base di quanto sin qui esposto è possibile affermare che il riconoscimento di
trattamenti disumani e degradanti è frutto di una valutazione multifattoriale della
complessiva offerta trattamentale da parte dell’Amministrazione penitenziaria in caso
di restrizione in una cella collettiva in cui lo spazio sia uguale o superiore al livello
minimo di tre metri quadrati, ma inferiore a quattro metri quadrati e, quindi, pur non
violando la regola dettata dalla Corte EDU, possa costituire un fattore negativo ai fini
della valutazione delle condizioni complessive di detenzione.
In questa ipotesi la contestuale sussistenza di altri fattori negativi potrà portare a
ritenere violato l’art. 3 della Convenzione (p. 139). Tali fattori sono indicati nella
mancanza di accesso al cortile o all’aria e alla luce naturale, nella cattiva
aereazione, in una temperatura insufficiente o troppo elevata nei locali, nell’assenza
di riservatezza nelle toilette, nelle cattive condizioni sanitarie e igieniche. Nella
prospettiva della violazione dell’art. 3 CEDU non è richiesta la contestuale presenza
di tutti i fattori negativi.
Nell’istanza presentata ai sensi dell’art. 35 ter ord. pen., il detenuto dovrà porre a
fondamento della domanda risarcitoria, oltre alla detenzione in celle collettive con
uno spazio individuale inferiore a quattro metri quadrati, anche alcuni dei fattori
negativi sopra indicati.
Da parte sua, l’Amministrazione potrà opporre i fattori compensativi per contrastare
la domanda: il magistrato di sorveglianza dovrà, quindi, esprimere una valutazione
globale delle condizioni di detenzione tenendo conto di tutti i fattori, positivi e
negativi, così come richiesto dalla Corte EDU. La valutazione dei concorrenti aspetti
dell’offerta trattamentale idonei ad essere posti in bilanciamento con le dimensioni
della cella collettiva deve formare oggetto di specifica motivazione in relazione alle
concrete opportunità di cui abbia realmente usufruito ciascun detenuto, non potendo
essere fondata su parametri potenziali correlati all’astratta offerta trattamentale
presente nell’istituto penitenziario (Sez. 1, n. 35537 del 30/5/2019, Fragalà).
Infine, se lo spazio individuale in una cella collettiva è stato superiore a quattro metri
quadrati, il fattore sovraffollamento non rileverà in una domanda proposta ai sensi
dell’art. 35 ter ord. pen. che, pertanto, dovrà essere basata su fattori differenti (p.
140).

Deve, quindi, essere affermato il seguente principio di diritto: “i fattori
compensativi costituiti dalla breve durata della detenzione, dalle dignitose
condizioni carcerarie, dalla sufficiente libertà di movimento al di fuori della
cella mediante lo svolgimento di adeguate attività, se ricorrono
congiuntamente, possono permettere di superare la presunzione di violazione
dell’art. 3 CEDU derivante dalla disponibilità nella cella collettiva di uno spazio
minimo individuale inferiore a tre metri quadrati; nel caso di disponibilità di
uno spazio individuale fra i tre e i quattro metri quadrati, i predetti fattori
compensativi, unitamente ad altri di carattere negativo, concorrono alla
valutazione unitaria delle condizioni di detenzione richiesta in relazione
all’istanza presentata ai sensi dell’art. 35 ter ord. pen.”.

Sulla base dei principi fin qui enunciati, il ricorso proposto dal Ministro della
Giustizia deve essere rigettato, essendo fondato su una diversa modalità di computo
dello spazio minimo individuale. Si deve rimarcare che la violazione di diversa natura
riscontrata in un istituto (mancanza di riservatezza rispetto ai servizi igienici) non
viene contestata dal ricorrente e, quindi, non può formare oggetto di valutazione in
questa sede.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, il 24 settembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 19 febbraio 2021

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