Sentenza, Corte Suprema di Cassazione, I Sezione Penale, 12 marzo 2021, n. 9887, Infortuni sul lavoro – Reato ex art. 437 c.p

In questa occasione, i giudici di legittimità hanno, in via preliminare, stabilito che è inammissibile il deposito di motivi nuovi in una casella di posta elettronica certificata diversa da quella individuata nel provvedimento del direttore generale dei sistemi informativi automatizzati del Ministero della giustizia ex art. 24, comma 4, d.l. n. 137 del 2020. Nel merito, invece, hanno chiarito che il reato di cui all’art. 437 c.p è un reato proprio, il quale è commesso da colui che riveste una posizione di garanzia, come il datore di lavoro o il direttore di lavoro, dal quale discende l’obbligo giuridico di evitare infortuni sul lavoro attraverso il collocamento di impianti, apparecchi o segnali volti a prevenirli. In aggiunta, ricorda la Corte che la condotta colui che omettere i suddetti dispositivi, ex art. 437, I co., c.p., configura un reato permanente, cessando l’offesa con il collocamento del dispositivo omesso o quando esso non è più utilmente collocabile, oppure con la cessazione la posizione di garanzia.

Corte Suprema di Cassazione, I Sezione Penale, 12 marzo 2021, n. 9887:

Presidente: IASILLO ADRIANO
Relatore: APRILE STEFANO Data Udienza: 26/01/2021

Fatto

Con il provvedimento impugnato, la Corte d’appello di Bologna ha confermato la sentenza pronunciata dal Tribunale di Bologna in data 28 marzo 2017 con la quale G.G. e C.G. sono stati giudicati responsabili del reato di cui agli articoli 110 e 437 cod. pen., per avere omesso di attuare idonee cautele per prevenire gli infortuni sul lavoro, in epoca immediatamente precedente e successiva all’agosto 2012 e nell’attualità.
1.1. Con concorde valutazione di entrambi i giudici di merito è stata affermata la concorrente responsabilità degli imputati che, nella condivisa qualità di imprenditori e datori di lavoro (C.G. anche di direttore dei lavori), aprivano e gestivano un cantiere edile senza rispettare alcuna disposizione antinfortunistica con riguardo ai rischi di folgorazione, di caduta, d’inciampo, di crollo e in generale di prevenzione degli infortuni sul lavoro, impiegando, senza alcuna protezione e senza dispositivi di protezione individuale, numerosi operai, mai formati sui rischi specifici del cantiere, costretti a lavorare in condizioni pericolose e precarie, senza parapetti e cinture di sicurezza, così esponendoli a gravi rischi per la propria incolumità fisica.
La responsabilità degli imputati è stata affermata sulla base delle concordi dichiarazioni dei testi escussi al dibattimento (committente, dipendenti, ecc.), degli accertamenti di polizia giudiziaria effettuati dai Carabinieri, dalla Polizia Municipale e dalla ASL competente, dal sequestro del cantiere, dai rilievi video­ fotografici effettuati, nonché sulla base di una conversazione telefonica del 16 novembre 2012 intercorrente tra i due imputati, ritenuta utilizzabile.

Ricorrono, con distinti atti, G.G. e C.G., a mezzo dei rispettivi difensori avv. Luca BR. e avv. Pier Nicola B..
2.1. G.G. denuncia:

la violazione della legge processuale, in riferimento agli articoli 601, 604, 605, 102 e 179 cod. proc. pen., per nullità del giudizio di appello, svoltosi in assenza della difesa e senza che l’imputato ne avesse conoscenza a causa della mancata notificazione dell’avviso di fissazione dell’udienza d’appello all’imputato che risultava assistito da un difensore che aveva rinunciato al mandato. Il decreto di citazione per il giudizio di appello è stato ricevuto dal difensore di fiducia avvocato G. il quale, però, senza informare l’imputato, lo ha trasmesso all’avvocato S. «con la richiesta di provvedere alla sua revoca»; all’udienza del 2/7/2019 l’avvocato S. si faceva sostituire da altro difensore che si dichiarava verbalmente anche sostituto processuale dell’avv. G. il quale però esclude di averlo all’uopo nominato. Soltanto il successivo 8 luglio 2019, dopo la pronuncia della sentenza impugnata, l’avv. S. ha comunicato all’imputato la rinuncia alla difesa da parte dell’avv. G. unitamente all’informazione sull’andamento del processo. Da ciò discende l’assoluta nullità del giudizio di appello (primo e secondo motivo);

la violazione della legge processuale, in riferimento agli articoli 244, 246, 354, 364 e 179 cod. proc. pen., con riguardo all’utilizzazione della nota del D.P.S.A.L. (dipartimento di prevenzione e sicurezza ambienti di lavoro) della ASL in data 18 novembre 2013, che la Corte d’appello ha erroneamente qualificato come rappresentazione dello stato dei luoghi, trattandosi invece di un’ispezione effettuata in mancanza dell’apposito decreto del Pubblico ministero procedente e senza avere dato avviso agli indagati e ai difensori. Essendosi trattato di un vero e proprio atto d’ispezione, mancava l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria, sicché gli elementi acquisiti in forza di tale atto sono inutilizzabili (terzo motivo);

la violazione della legge processuale e il vizio della motivazione, anche sotto il profilo del travisamento del fatto, in quanto, preso atto della nullità dell’accesso eseguito il 18 novembre 2013, nessun elemento indiziario della sussistenza del delitto di cui all’articolo 437 cod. pen. può desumersi da tale atto, come peraltro riconosciuto anche dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Bologna che aveva escluso la gravità indiziaria per tale ipotesi di reato (quarto motivo);

la violazione della legge processuale, in riferimento agli articoli 521 e 522 cod. proc. pen., con riguardo alla data di consumazione del reato che la Corte d’appello posticipa al 18/12/2013, data di notificazione dell’avviso di conclusione delle indagini, con conseguente nullità della sentenza per modifica dell’imputazione in quanto essa riportava il riferimento finale della consumazione del reato con l’espressione «fino all’attualità», avendo invece la Corte d’appello illegittimamente modificato la data del commesso reato (quinto motivo);

la violazione della legge processuale, in riferimento agli articoli 429 e 179 cod. proc. pen., mancando la individuazione della veste giuridica in forza della quale l’imputato è chiamato a rispondere della contestazione, oltre alla genericità della individuazione del tempus commissi delicti (sesto motivo);
la violazione di legge, in riferimento all’articolo 437 cod. pen., e il vizio della motivazione, anche per travisamento del fatto, trattandosi di una fattispecie di reato proprio, addebitabile unicamente a colui il quale ricopra una specifica posizione di garanzia, mentre la Corte d’appello ha erroneamente affermato che il precetto è rivolto a chiunque, non essendo stato svolto dall’imputato alcun ruolo gestorio. Del resto, la Corte d’appello non ha tenuto conto della inattendibilità del teste V., in quanto sottoposto ad amministrazione di sostegno, che agiva sotto il controllo psicologico di un diverso soggetto che lo ha indotto a rendere le proprie dichiarazioni accusatorie, mentre l’imputato era unicamente responsabile degli affari generali dell’impresa e intratteneva unicamente rapporti commerciali con le altre imprese, i clienti, i fornitori e le banche e si occupava del settore amministrativo. Nessun elemento è stato individuato a sostegno dell’elemento psicologico, caratterizzato dal dolo, richiesto dal reato di cui si tratta, essendo piuttosto emersi: la regolare attivazione del cantiere; l’invito alla ASL di effettuare un sopralluogo; l’abbandono del cantiere da parte della ditta Eurocostruzioni; la successiva riapertura del cantiere affidato alla GE.DA. Costruzioni; l’incendio dell’ottobre 2013 con conseguente sequestro del cantiere medesimo (settimo motivo);

la violazione della legge processuale e il vizio della motivazione, anche per travisamento, essendo emersa la piena regolarità del cantiere nell’ambito dei controlli effettuati nell’agosto 2012, mentre ciò che è emerso nel novembre 2013 attiene a una diversa fase di conduzione del cantiere alla quale è estraneo l’imputato (ottavo motivo).
2.1.1. In data 11 gennaio 2021 il difensore di G.G. faceva pervenire tramite PEC istanza di trattazione in pubblica udienza e motivi nuovi con i quali ulteriormente deduceva:

l’incolpevole mancata conoscenza del processo di appello a causa dell’errata notificazione dell’avviso di fissazione, ribadendo gli errori compiuti dai difensori e dal giudice di secondo grado;

la intervenuta prescrizione;

l’inutilizzabilità dell’atto di ispezione, anche perché non applicabile il d.lgs. n. 81 del 2008, mancando la presenza di operai in cantiere all’atto dell’accesso;

l’inutilizzabilità del verbale 14/7/2014 perché compiuto dopo la chiusura delle indagini preliminari avvenuta il 25/7/2014;

l’estraneità dell’imputato che non rivestiva funzioni in tema di prevenzione infortuni.

2.2. C.G. denuncia la violazione della legge processuale, in relazione agli articoli 270 e 271 cod. proc. pen., per essere state utilizzate, a fondamento della responsabilità, delle intercettazioni telefoniche per un reato, quello di cui all’articolo 437 cod. pen., in relazione al quale esse non erano né autorizzate né ammissibili.

Diritto

I ricorsi di G.G. e C.G. sono inammissibili.
1.1. La richiesta di trattazione orale in pubblica udienza avanzata nell’interesse di G.G. è tardiva poiché trasmessa in data 11/1/2021, in violazione del termine di venticinque giorni liberi prima dell’udienza (26/1/2021) previsto dall’art. 23, comma 8, DL n. 137 del 2020.

Il ricorso nell’interesse di G.G. è inammissibile perché manifestamente infondato, generico, assertivo e reiterativo di argomentazioni proposte nel giudizio di merito che sono state esaminate con motivazione che non viene specificamente criticata dal ricorso.
2.1. È il caso di precisare che i motivi nuovi sono inammissibili sotto molteplici profili.
Anzitutto perché travolti dall’inammissibilità del ricorso ex art. 585, comma 4, ultimo periodo, cod. proc. pen.
I motivi nuovi sono, del resto, inammissibili perché trasmessi a una casella di posta certificata diversa da quella individuata dal provvedimento in data 9 novembre 2020 emesso dal direttore generale dei sistemi informativi automatizzati del Ministero della giustizia a mente dell’art. 24, comma 4, DL n. 137 del 2020 (reperibile nel portale dei servizi telematici del Ministero della giustizia all’indirizzo: http://pst.giustizia.it/PST/).
A norma di tale disposizione, il deposito tramite posta elettronica certificata degli atti penali presso la Corte di cassazione è consentito soltanto nelle caselle di posta ivi indicate. Nel caso di specie, gli atti diretti alla Prima sezione penale vanno depositati nella casella depositoattipenali1.cassazione@giustiziacert.it , mentre motivi nuovi sono stati trasmessi dall’avv. Luca BR. (lucaBR.@pec.avvocati.prato.it) alla casella sezl.penale.cassazione@giustizia.cert , non abilitata a riceverli.
La specifica causa di inammissibilità dei motivi trasmessi a una casella di posta elettronica non indicata nel citato provvedimento direttoriale è prevista dall’art. 24, comma 6-sexies, lett. e), DL n. 137 del 2020, convertito con modificazioni dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, sicché va rilevata d’ufficio.
D’altra parte, i motivi nuovi sono inammissibili perché tardivi in quanto pervenuti in data 11 gennaio 2021, senza il rispetto del termine di giorni 15 giorni previsto dall’art. 585, comma 4, primo periodo, cod. proc. pen.
La giurisprudenza di legittimità ha, infatti, chiarito che <<In materia di termini, la regola di cui all’art. 172, comma quinto, cod. proc. pen. secondo la quale “quando è stabilito soltanto il momento finale, le unità di tempo stabilite per il termine si computano intere e libere”, implica che vanno esclusi dal computo il dies a quo e il dies ad quem. In applicazione del principio, la Corte ha ritenuto tardivo il deposito di motivi nuovi presentati in cancelleria in data 5 marzo con riferimento a udienza fissata per il 20 marzo, avendo riguardo al termine stabilito dall’art. 585, comma quarto, cod. proc. pen. di “fino a quindici giorni prima dell’udienza”».
Ciò determina che, di tale atto, non possa temersi conto neppure quale memoria, perché tardivamente depositata ex art. 611 cod. proc. pen.

Il ricorso di G.G. è inammissibile.
3.1. Il primo e il secondo motivo che denunciano la nullità della sentenza d’appello per violazione del contraddittorio e del diritto di difesa sono manifestamente infondati.
Il ricorrente non contesta la regolarità della notificazione dell’avviso di fissazione della udienza del giudizio d’appello a mani del proprio difensore domiciliatario, limitandosi a evidenziare che, successivamente, il difensore domiciliatario avrebbe inteso «revocare la propria nomina» (rectius: abbandonare la difesa).
Del resto, non risulta neppure controverso che durante il corso del giudizio di appello l’imputato è stato assistito da due difensori di fiducia (avv. G. e avv. S.), sicché risulta irrilevante non solo ogni vicenda relativa al mandato perché sviluppatasi in un momento successivo alla pronuncia della sentenza, ma anche qualunque questione relativa alla presenza di un sostituto processuale dell’avvocato G. il quale, con successiva dichiarazione, avrebbe disconosciuto di avere fornito la delega.
È sufficiente evidenziare in proposito che il sostituto processuale presente all’udienza era comunque munito di delega da parte dell’altro difensore di fiducia avv. S., sicché nessuna lesione del diritto di difesa si è verificata poiché, in presenza di un difensore di fiducia (avv. S.), l’imputato è stato regolarmente assistito, né poteva procedersi alla nomina di un difensore di ufficio derivante dalla ingiustificata assenza dell’avv. G..
3.2. Il terzo motivo di ricorso, che denuncia l’inutilizzabilità della nota del D.P.S.A.L. della ASL in data 18/11/2013, è generico e comunque manifestamente infondato.
3.2.1. Premesso che, trattandosi di una questione che non è stata posta nel corso del giudizio di merito, il ricorrente ha l’onere di mettere in grado la Corte di legittimità di apprezzare gli elementi sui quali la deduzione si fonda (Sez. U, n. 39061 del 16/07/2009, De Iorio, Rv. 244328; Sez. 6, n. 18889 del 28/02/2017, Tornasi, Rv. 269891), il motivo risulta inammissibile là dove si limita ad asserire la natura di atto di ispezione dell’attività svolta in sede di prevenzione degli infortuni dall’organo amministrativamente competente e ne deduce l’inutilizzabilità, in mancanza dell’espressa previsione, potendosi semmai configurare una nullità a regime intermedio, non più rilevabile e comunque sanata perché non tempestivamente dedotta entro il termine di cui all’art. 181, comma 2, cod. proc. pen.
Del resto, il motivo di ricorso è privo di specificità perché non indica neppure ove l’atto, che si assume inutilizzabile, sia reperibile, così impedendo alla Corte di legittimità di esaminare la censura.
3.2.2. È soltanto il caso di evidenziare, con riguardo alla manifesta infondatezza della censura, che il servizio per la prevenzione e la sicurezza negli ambienti di lavoro (SPSAL) è stato istituito in seguito all’entrata in vigore della legge 23 dicembre 1978, n. 833 (istituzione del servizio sanitario nazionale) ed è inserito nell’organizzazione del Dipartimento di prevenzione dell’Azienda sanitaria locale.
Le Regioni si sono poi dotate di propria normativa sulla materia della prevenzione, igiene e sicurezza nei luoghi di lavoro, a integrazione di quella normativa nazionale (anche per questo motivo, il servizio per la prevenzione e la sicurezza negli ambienti di lavoro assume varie denominazioni nelle singole Regioni: PSAL, SPSAL, SPreSAL, Spesai, SPISAL, Spisll, UOPSAL, UOML, PISLL, ecc.).
Al servizio per la prevenzione e la sicurezza negli ambienti di lavoro sono attribuite le funzioni di controllo, vigilanza e di promozione della salute e della sicurezza negli ambienti di lavoro con lo scopo di contribuire alla prevenzione delle malattie professionali e degli infortuni sul lavoro e al miglioramento del benessere del lavoratore.
Gli operatori dello SPSAL sono i tecnici della prevenzione che si occupano soprattutto di sicurezza sul lavoro (prima dell’entrata in vigore della sopracitata legge 833/1978 la competenza della materia era svolta esclusivamente dal Ministero del lavoro, tramite la figura dell’ispettore del lavoro).
Lo SPSAL è uno degli organi di vigilanza competenti sulla materia individuati nell’art. 13 del Decreto legislativo 81/2008 (Testo unico sulla sicurezza sul lavoro).
Le attività di controllo e vigilanza dello SPSAL, programmate o su richiesta dell’Autorità Giudiziaria, prevedono principalmente la verifica dell’applicazione delle norme in materia di igiene e sicurezza nei luoghi di lavoro, la misurazione dei fattori di rischio chimici o fisici, il riconoscimento delle cause e delle responsabilità nei casi di infortunio e di malattia professionale.
Il tecnico della prevenzione, operante nel servizio per la prevenzione e la sicurezza negli ambienti di lavoro, è, nei limiti delle proprie attribuzioni, Ufficiale di Polizia Giudiziaria e collabora con l’Autorità Giudiziaria nelle indagini inerenti alla propria materia di competenza (Sez. U, n. 1228 del 06/11/1992 dep. 1993, Simonetti, Rv. 192204).
Tanto premesso, risulta palesemente infondata la deduzione concernente la natura dell’atto compiuto dai tecnici della prevenzione della ASL poiché essi, nell’ambito delle funzioni amministrative e di polizia giudiziaria, possono compiere una mera attività descrittiva dello stato dei luoghi; si è, infatti, chiarito che «lo svolgimento da parte della polizia giudiziaria di una mera attività di osservazione descrittiva dello stato dei luoghi, eventualmente documentata con rilievi fotografici, non è assimilabile all’ispezione dei luoghi disciplinata dall’art. 244 cod. proc. pen., posto che tale ultima attività ha ad oggetto l’accertamento delle “tracce” e degli “altri effetti materiali del reato”» (Sez. 3, n. 31640 del 31/05/2019, Manna, Rv. 276680).
Del resto, si è chiarito che «le foto scattate durante un’ispezione igienico sanitaria dello stato dei luoghi dalla polizia giudiziaria e allegate al verbale di ispezione e di sequestro, in relazione a fatti e persone in situazioni soggette a mutamento, come tali non più riproducibili, costituiscono atti irripetibili, con la conseguenza che, essendo legittimo il loro inserimento nel fascicolo per il dibattimento, possono essere valutate dal giudice come fonte di prova, senza che sia necessaria una conferma da parte dei verbalizzanti in sede dibattimentale» (Sez. 3, n. 2576 del 06/11/2018 dep. 2019, Crepaldi, Rv. 275739).
Ne consegue la manifesta infondatezza della questione posta con il ricorso.
3.3. Anche il quarto motivo di ricorso è inammissibile.
Esso deduce, in modo del tutto improprio, una violazione processuale riguardante la valenza indiziaria dell’accertamento di cui si è detto al paragrafo precedente: si tratta di una censura intrinsecamente illogica, oltre che scarsamente intellegibile.
La censura che attiene alla valenza indiziaria dell’accertamento compiuto è, del resto, generica e comunque non decisiva poiché la responsabilità dell’imputato è stata affermata sulla base di numerosi e concorrenti elementi che il ricorso non contesta.
3.4. È inammissibile anche il quinto motivo che attiene alla presunta violazione degli artt. 521 e 522 cod. proc. pen. sotto il profilo che la valutazione compiuta dalla Corte d’appello, circa la data di chiusura della contestazione del tempus commissi delicti formulata in forma aperta («fino all’attualità»), determinerebbe una modifica sostanziale del fatto.
Va premesso che «la modifica in udienza del capo di imputazione, consistente nella diversa indicazione della data del commesso reato, non costituisce modifica dell’imputazione, rilevante ex art. 516 cod. proc. pen., allorché non comporti alcuna significativa modifica della contestazione, la quale resti immutata nei suoi tratti essenziali, così da non incidere sulla possibilità di individuazione del fatto da parte dell’imputato e sul conseguente esercizio del diritto di difesa» (Sez. 5, n. 48879 del 17/09/2018, L., Rv. 274159), sicché non si comprende in cosa consisterebbe la presunta violazione, avendo la Corte d’appello ristretto l’ambito temporale della contestazione formulata dal Pubblico ministero, peraltro a favore dell’imputato.
Del resto, la censura è manifestamente infondata poiché la Corte di secondo grado, lungi dal modificare il fatto storico e la sua qualificazione giuridica, si è limitata a restringere, a favore dell’imputato, l’ambito temporale della contestazione, limitandola alla data di chiusura delle indagini preliminari, potendosi, diversamente, giungere – secondo la giurisprudenza di legittimità (Sez. 2, n. 23343 del 01/03/2016, Ariano, Rv. 267080) – anche alla data di pronuncia della sentenza di primo grado.
3.5. Il sesto motivo di ricorso è inammissibile.
Nessuna eccezione, in ordine alla completezza del capo di imputazione con riguardo al ruolo imprenditoriale attribuito all’imputato, è stata tempestivamente sollevata, entro il termine di cui all’art. 491, comma 1, cod. proc. pen. (Sez. 3, n. 19649 del 27/02/2019, S., Rv. 275749), sicché il motivo di ricorso è sul punto inammissibile, in disparte la definitiva considerazione che il ruolo attribuito all’imputato risulta chiaramente espresso dal complesso delle imputazioni elevate e dall’ampia istruttoria svoltasi in contraddittorio.
La questione del tempus è stata già esaminata, dovendosi escludere qualunque indeterminatezza in proposito.
3.6. Sono inammissibili il settimo e ottavo motivo di ricorso.
3.6.1. È, anzitutto, manifestamente infondata la censura che riguarda l’art. 437 cod. pen. sotto il profilo del reato proprio, perché la Corte d’appello ha correttamente affermato trattarsi, appunto, di un reato proprio, ma ha opportunamente evidenziato che esso può essere commesso da chiunque ricopra la posizione di garanzia, indipendentemente dalle attribuzioni formali, sicché resta necessario che, a fondamento della responsabilità, sussista l’obbligo di approntare le misure la cui mancata adozione determina la violazione della fattispecie incriminatrice in discorso.
Con riguardo agli obblighi gravanti sull’imputato, la sentenza impugnata, sul punto opportunamente integrata da quella di primo grado, ha logicamente attribuito all’imputato, sulla base di numerosi convergenti elementi di prova, la qualità di imprenditore – datore di lavoro cui spettano, in effetti, i doveri cautelari di cui si discute.
3.6.2. Del resto, il ricorso è inammissibile anche quando denuncia, senza alcun riferimento agli atti processuali, un presunto travisamento del fatto con riguardo alla qualità dell’imputato, fermo restando che il vizio deducibile è, semmai, quello del travisamento della prova.
La presunta inattendibilità del teste è, d’altra parte, dedotta in modo generico e confutativo, in disparte la decisiva considerazione che a carico dell’imputato, come si è detto, convergono numerosi elementi di prova, sicché la questione non è neppure decisiva.
3.6.3. Sotto il profilo, poi, dell’elemento psicologico il ricorso è generico e manifestamente infondato perché non si confronta con la motivazione del provvedimento impugnato che ha evidenziato la preordinazione e la spregiudicatezza con la quale l’imputato ha assunto i lavori e le maestranze, senza preoccuparsi della palese mancanza di qualsivoglia misura di prevenzione degli infortuni, circostanza che risulta, oltre che dalle dichiarazioni dei dipendenti, anche dai numerosi rilievi e accessi effettuati dalla polizia giudiziaria.
In tutto il periodo in cui il cantiere è stato monitorato, nel corso del quale si sono succedute varie imprese tutte riferibili agli imputati, è stata rilevata la già indicata assoluta carenza di misure preventive, mentre il ricorso si limita a contestare le risultanze dibattimentali.
3.6.4. La decisione impugnata è, del resto, pienamente conforme alla giurisprudenza di legittimità che ha chiarito che «ai fini della configurabilità dell’ipotesi delittuosa descritta dall’art. 437 cod. pen., è necessario che l’omissione, la rimozione o il danneggiamento dolosi degli impianti, apparecchi o segnali destinati a prevenire infortuni sul lavoro si inserisca in un contesto imprenditoriale nel quale la mancanza o l’inefficienza di quei presidi antinfortunistici abbia l’attitudine, almeno in via astratta, a pregiudicare l’integrità fisica di una collettività di lavoratori, o, comunque, di un numero di persone gravitanti attorno all’ambiente di lavoro sufficiente a realizzare la condizione di una indeterminata estensione del pericolo» (Sez. 1, n. 4890 del 23/01/2018 dep. 2019, PG c/ Prunas, Rv. 276164; Sez. 1, n. 6393 del 02/12/2005 dep. 2006, Strazzarino, Rv. 233826), essendosi evidenziato, nel caso di specie, che nel cantiere si avvicendavano per un ampio periodo di tempo molti operai, anche di imprese diverse, tutti privi di dispositivi personali di protezione, chiamati a operare senza parapetti, cinture di sicurezza, sistemi anti-folgorazione e caduta, nonché privi di alcuna informazione e formazione sui rischi specifici delle opere in corso di realizzazione.
I giudici di merito hanno, perciò, verificato, senza essere smentiti dal ricorso, la sussistenza degli elementi necessari ai fini della configurabilità dell’ipotesi delittuosa descritta dall’art. 437 cod. pen., e, in particolare, che l’omissione dolosa degli impianti, apparecchi o segnali destinati a prevenire infortuni sul lavoro si inseriva in un contesto imprenditoriale nel quale la mancanza o l’inefficienza di quei presidi antinfortunistici aveva l’attitudine, almeno astratta, anche se non bisognevole di concreta verifica, a pregiudicare l’integrità fisica di una collettività di lavoratori, o, comunque, di persone gravitanti attorno all’ambiente di lavoro (Sez. 1, n. 18168 del 20/01/2016, P.M. in proc. Antonini, Rv. 266881), essendo emersa la dolosa preordinazione dell’intera attività imprenditoriale a non rispettare le più elementari misure di sicurezza.
3.6.5. È generica e manifestamente infondata la doglianza concernente la – meramente asserita cessazione del ruolo imprenditoriale prima dell’accertamento operato in data 18/11/2013, poiché non si confronta con la motivazione del provvedimento impugnato che ha evidenziato il ruolo direttivo costantemente svolto dall’imputato e la permanenza delle violazioni, almeno fino all’incendio del cantiere e al conseguente sequestro dello stesso in data 29/10/2013.
In disparte l’inammissibilità del ricorso, che esclude qualunque rilevanza al tempo trascorso dopo la sentenza di secondo grado, deve essere conclusivamente ricordato che «il reato di cui all’art. 437, primo comma, cod. pen., ove la condotta consista nell’omissione (e non nella rimozione) di cautele contro infortuni sul lavoro, ha natura permanente, e la permanenza cessa quando il dispositivo omesso sia collocato o non sia più utilmente collocabile ovvero, trattandosi di reato proprio, quando la posizione di garanzia venga dismessa» (Sez. 4, n. 16715 del 14/11/2017 dep. 2018, P.G. in proc. Cirocco, Rv. 273098).
Perciò, almeno fino al definitivo sequestro del cantiere, sussiste la permanenza della condotta omissiva ascritta all’imputato.

Il ricorso nell’interesse di C.G. è inammissibile perché, in disparte la questione relativa alle intercettazioni, esso è privo di decisività.
Il motivo di ricorso è inammissibile perché nel denunciare la presunta inutilizzabilità delle intercettazioni omette di illustrarne la decisività ai fini dell’affermazione di responsabilità.
In effetti, il ricorrente non illustra la rilevanza ai fini della dichiarazione di responsabilità di quell’intercettazione che si vorrebbe espungere dal materiale probatorio.
La giurisprudenza di legittimità è costantemente orientata ad affermare che «in tema di ricorso per cassazione, è onere della parte che eccepisce l’inutilizzabilità di atti processuali indicare, pena l’inammissibilità del ricorso per genericità del motivo, gli atti specificamente affetti dal vizio e chiarirne altresì la incidenza sul complessivo compendio indiziario già valutato, sì da potersene inferire la decisività in riferimento al provvedimento impugnato» (Sez. U, n. 23868 del 23/04/2009, Fruci, Rv. 243416; recentemente: Sez. 6, n. 49970 del 19/10/2012, Muià, Rv. 254108).
I giudici di merito, infatti, hanno indicato una serie convergenti di elementi di prova, che non sono contestati dal ricorso, in forza dei quali sono giunti all’affermazione della responsabilità dell’imputato; in relazione ad essi il ricorso è del tutto silente, sicché la questione dell’inutilizzabilità di una conversazione captata è inammissibile perché non decisiva, rispetto al complessivo panorama probatorio che i giudici di merito hanno posto a fondamento della responsabilità del ricorrente.

All’inammissibilità del ricorso consegue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrenti al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di elementi atti a escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost., sentenza n. 186 del 2000), anche la condanna al versamento di una somma in favore della Cassa delle ammende nella misura che si stima equo determinare in euro 3.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 26 gennaio 2021

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