Sentenza, Corte Supreme di Cassazione, III Sezione Civile, 10 maggio 2021, n. 12225, Effetti Indesiderati del farmaco – Responsabilità della casa farmaceutica per prodotto difettoso

La vicenda traeva origine dall’assunzione di un farmaco di una nota casa farmaceutica, poi ritirato dal mercato, che aveva provocato al consumatore una grave patologia. In virtù di ciò, i giudici di legittimità hanno chiarito che non è esclusa la responsabilità del produttore ex art. 117, co. 1, del D. lgs. 206/2005 quando: A) sia stato autorizzato il commercio del prodotto; B) nel bugiardino sia contenuta una generica avvertenza sulla non sicurezza del farmaco. 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Sentenza 10 maggio 2021, n. 12225

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SPIRITO Angelo – Presidente –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – rel. Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 19446/2018 proposto da:

BAYER SPA, elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA DEL POPOLO N. 18,

presso lo studio dell’avvocato FABRIZIO FABIO AROSSA, che lo rappresenta e

difende unitamente all’avvocato ENRICO CASTELLANI;

– ricorrenti –

e contro

T.R.;

– intimati –

nonchè da:

T.R., elettivamente domiciliato in ROMA, LARGO DELLA GANCIA 1, presso lo studio

dell’avvocato RENATO MIELE, rappresentato e difeso dall’avvocato LUIGINO

MARIA MARTELLATO;

– ricorrenti incidentali –

contro

BAYER SPA, elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA DEL POPOLO, 18, presso

lo studio dell’avvocato FABRIZIO FABIO AROSSA, che lo rappresenta e difende

unitamente all’avvocato ENRICO CASTELLANI;

– controricorrenti all’incidentale –

avverso la sentenza n. 476/2018 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata

il 27/02/2018;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 11/11/2020 dal

Consigliere Dott. LUIGI ALESSANDRO SCARANO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SANLORENZO

Rita;

uditi gli Avvocati AROSSA e MARTELLATO.

Svolgimento del processo

Con sentenza del 27/2/2018 la Corte d’Appello di Verona, rigettato quello in via

incidentale spiegato dal sig. T.R., in parziale accoglimento del gravame interposto

dalla società Bayer s.p.a. e in conseguente parziale riforma della pronunzia Trib.

Venezia n. 64 del 2013, ha rideterminato in diminuzione l’ammontare in favore del

primo liquidato dal giudice di prime cure a titolo di risarcimento dei danni dal

medesimo sofferti all’esito dell’assunzione del farmaco Lipobay 0,2 – dalla suindicata

società immesso sul mercato italiano e dalla medesima successivamente ritirato –

che gli aveva provocato la c.d. miopatia dei cingoli.

Avverso la suindicata pronunzia della corte di merito la società Bayer s.p.a. propone

ora ricorso per cassazione, affidato a 3 motivi, illustrati da memoria.

Resiste con controricorso il T., che spiega altresì ricorso incidentale sulla base di

unico complesso motivo, illustrato da memoria.

Già chiamata all’udienza camerale del 24/1/2020, la causa è stata rinviata alla

pubblica udienza.

Motivi della decisione

Con il 1 motivo la ricorrente in via principale denunzia “violazione e falsa

applicazione” del D.Lgs. n. 206 del 2005, artt. 114, 117 (c.d. Codice del consumo), in

riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Con il 2 motivo denunzia “violazione e falsa applicazione” del D.Lgs. n. 206 del

2005, artt. 117, 118, 120 (c.d. Codice del consumo), in riferimento all’art. 360 c.p.c.,

comma 1, n. 3.

Con il 3 motivo denunzia violazione dell’art. 132 c.p.c., in riferimento all’art. 360

c.p.c., comma 1, n. 4.

Si duole che la corte di merito abbia – con motivazione apparente e con erronea

valutazione delle emergenze processuali e in particolare della CTU – ravvisato la sua

responsabilità ex artt. 2043 e 2050 c.c., laddove, applicando la disciplina speciale

del c.d. Codice del consumo, in base alla quale ai fini della qualificazione del 

prodotto in termini di difettosità assume rilievo non già la relativa innocuità bensì la

sicurezza che ci si può ragionevolmente attendere in relazione al modo in cui il

prodotto è stato immesso in circolazione, alla sua presentazione, alle sue

caratteristiche palesi e alle istruzioni e avvertenze fornite all’uso, nella specie il

prodotto farmaceutico in argomento Lipobay, anche “in ragione della ampia

informativa fornita”, non avrebbe potuto ravvisarsi come difettoso.

Lamenta non essersi dalla corte di merito considerato che “il problema della

difettosità non può coincidere con la semplice possibile insorgenza di effetti

collaterali nocivi, ma deve invece ricondursi al problema di un corretto bilanciamento

del rapporto rischio/beneficio relativo alla somministrazione dello stesso”, e che,

omettendo di considerare “se il farmaco Lipobay potesse considerarsi agli effetti di

legge “difettoso”” tale giudice ha altresì “del tutto omesso di spiegare perchè mai…

potesse costituire un “risultato anomalo” rispetto alla normalità delle aspettative” la

patologia lamentata dalla controparte, essendo essa “perfettamente conosciuta dalla

“Classe Medica” come possibile effetto avverso del farmaco, chiaramente segnalata

nell’informativa fornita con il prodotto”, informativa che “consentiva al paziente e al

medico – che peraltro nella fattispecie coincidono nella persona del Dott. T. – di

valutare il relativo rapporto rischio beneficio (decidendo se esporsi o meno ai remoti

rischi di effetti indesiderati collegati all’uso di tale specialità medicinale a fronte di un

evidente e pressochè certo vantaggio terapeutico) e di assicurare che attraverso

l’attento rispetto di avvertenze, precauzioni d’impiego, dosaggi e modalità d’uso

raccomandati fosse possibile prevenire (o quantomeno immediatamente bloccare)

l’insorgere di eventuali effetti indesiderati”.

Si duole che la corte di merito abbia erroneamente valutato le emergenze

processuali, e in particolare della espletata CTU, essendosi limitata ad “aderire

passivamente alle valutazioni (erronee) svolte dal giudice di prime cure, circa la

presunta esaustività e completezza dell’analisi peritale svolta nel corso del primo

grado di giudizio, senza prendere alcun tipo di posizione su nessuno degli specifici

rilievi sopra ricordati, e così di fatto omettendo di fornire la ben che minima

spiegazione in merito alle ragioni per cui ha ritenuto di rigettare lo specifico motivo di

gravame sollevato da Bayer sotto tale profilo”.

Con unico motivo il ricorrente in via incidentale denunzia violazione degli artt. 2043,

2059 c.c., D.P.R. n. 314 del 1990, art. 11, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1,

n. 3; nonchè “omesso esame” di fatto decisivo della controversia, in riferimento

all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Si duole che la corte di merito abbia confuso tra danno non patrimoniale e danno

patrimoniale, nonchè erroneamente escluso il danno patrimoniale da incapacità

lavorativa specifica.

I motivi di entrambi i ricorsi, che possono congiuntamente esaminarsi in quanto

connessi, sono in parte inammissibili e in parte infondati.

Va anzitutto osservato che il requisito – richiesto a pena di inammissibilità, ex art. 366

c.p.c., comma 1, n. 6, risulta nel caso dai ricorrenti – principale ed incidentale – non

osservato laddove viene dai medesimi rispettivamente operato il riferimento ad atti e

documenti del giudizio di merito (in particolare, all'”atto di citazione notificato a 

mezzo posta in data 17 luglio 2007 (doc. 2 del fascicolo di primo grado)”, alle

“istruzioni fornite dalla casa produttrice”, alle “affermazioni e produzioni documentali

di controparte”, al “foglietto illustrativo del farmaco in questione”, al “ritiro della

cerivastatina dal mercato internazionale”; alla “comunicazione inviata da Bayer

all’allora Ministero della sanità in data 8 agosto 2001, doc. 5 Bayer del fascicolo di

primo grado”, al “comunicato n. 329 dell’8 agosto 2001 della Direzione Generale

della Valutazione dei Medicinali e della Farmacovigilanza del Ministero della salute,

doc. 6 Bayer del fascicolo di primo grado”, al “fallito tentativo di conciliazione della

causa”, all’interrogatorio libero del “Responsabile della Farmacovigilanza di Bayer

Dott. B.S.”, alle “memorie ex art. 183 c.p.c., comma 6”, alla “prova testimoniale”, alla

espletata CTU, alla richiesta di “rinnovazione della CTU”, alla sentenza del giudice di

prime cure, all’atto di “appello notificato in data 7 febbraio 2013 (doc. 3)”, alla

“relazione tecnica integrativa di “Commenti alla CTU a firma del Prof. C.G.

dell’Istituto di Neuroscienze – Sezione di Padova depositata nel corso del giudizio di

appello”, alla “pag. 24 della CTU svolta nel primo grado di giudizio”, alle “pag. 30 e

ss. dell’atto di appello”, da parte della ricorrente in via principale; al “doc. A/8”, al

“doc. A/10”, al “doc. A/12”, al “doc. A/13”, al “doc. A/14”, al “doc. A/15”, al “doc. A/

16″, all'”atto di citazione notificato in data 17.07.2007″, alla propria comparsa di

costituzione e risposta del giudizio di 1 grado; alle “memorie ex art. 183 c.p.c.”, alle

“testimonianze”, alle “acquisizioni documentali”, alla sentenza del giudice di prime

cure, all'”atto di appello notificato in data 07.02.2013″, al “foglietto illustrativo che

accompagnava il farmaco Lipobay”, alle “certificazioni delle Commissioni in atti”, alla

“documentazione clinica in atti”, alle “dichiarazioni dei redditi”, da parte del ricorrente

in via incidentale) limitandosi a meramente richiamarli, senza invero debitamente –

per la parte d’interesse in questa sede – riprodurli nel ricorso ovvero, laddove

riprodotti (es., della ricorrente in via principale: parti della sentenza di 1 grado, parti

della “informativa fornita dalla Casa Farmaceutica”, parti della CTU; dal ricorrente in

via incidentale: parti della “comparsa di costituzione d’appello”, parti della “CTU

medico-legale”, “pagg. 22/23/24 dell’elaborato peritale”, il “parere per la revoca

dell’autorizzazione all’immissione in commercio… resa da Comitato Scientifico per le

specialità medicinali dell’Emea del marzo 2002″, “CTU pag. 24”, il “bugiardino”),

senza fornire puntuali indicazioni necessarie ai fini della relativa individuazione con

riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla

documentazione, come pervenuta presso la Corte Suprema di Cassazione, al fine di

renderne possibile l’esame (v. Cass., 16/3/2012, n. 4220), con precisazione (anche)

dell’esatta collocazione nel fascicolo d’ufficio o in quello di parte, e se essi siano stati

rispettivamente acquisiti o prodotti (anche) in sede di giudizio di legittimità (v. Cass.,

23/3/2010, n. 6937; Cass., 12/6/2008, n. 15808; Cass., 25/5/2007, n. 12239, e, da

ultimo, Cass., 6/11/2012, n. 19157), la mancanza anche di una sola di tali indicazioni

rendendo il ricorso inammissibile (cfr., Cass., Sez. Un., 27/12/2019, n. 34469; Cass.,

Sez. Un., 19/4/2016, n. 7701).

A tale stregua, l’accertamento in fatto e la decisione dalla corte di merito adottata

nell’impugnata decisione rimangono invero dagli odierni ricorrenti non idoneamente

censurati.

Non sono infatti sufficienti affermazioni – come nel caso – apodittiche, non seguite da

alcuna dimostrazione.

E’ al riguardo appena il caso di osservare che i requisiti di formazione del ricorso per 

cassazione ex art. 366 c.p.c., vanno indefettibilmente osservati, a pena di

inammissibilità del medesimo (v., da ultimo, Cass., 5/7/2019, n. 18046).

Essi rilevano ai fini della giuridica esistenza e conseguente ammissibilità del ricorso,

assumendo pregiudiziale e prodromica rilevanza ai fini del vaglio della relativa

fondatezza nel merito, che in loro difetto rimane invero al giudice

imprescindibilmente precluso (cfr. Cass., 6/7/2015, n. 13827; Cass., 18/3/2015, n.

5424; Cass., 12/11/2014, n. 24135; Cass., 18/10/2014, n. 21519; Cass., 30/9/2014,

n. 20594; Cass., 5 19/6/2014, n. 13984; Cass., 20/1/2014, n. 987; Cass., 28/5/2013,

n. 13190; Cass., 20/3/2013, n. 6990; Cass., 20/7/2012, n. 12664; Cass., 23/7/2009,

n. 17253; Cass., 19/4/2006, n. 9076; Cass., 23/1/2006, n. 1221).

Senza sottacersi, con particolare riferimento al 3 motivo del ricorso principale, come

al di là della relativa formale intestazione la ricorrente deduca in realtà doglianze

(anche) di vizio di motivazione al di là dei limiti consentiti dalla vigente formulazione

dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (v. Cass., Sez. Un., 7/4/2014, n. 8053), nel caso

ratione temporis applicabile, sostanziantesi nel mero omesso esame di un fatto

decisivo per il giudizio che sia stato oggetto di discussione tra le parti, dovendo

riguardare un fatto inteso nella sua accezione storico-fenomenica, e non anche

come nella specie l’illogicità e l’insufficienza della motivazione ovvero l’omessa e a

fortiori l’erronea valutazione delle emergenze processuali (v. pag. 26 del ricorso in

via principale) (cfr. Cass., Sez. Un., 7/4/2014, n. 8053, e, conformemente, Cass.,

29/9/2016, n. 19312).

Con riferimento al ricorso in via principale, va sotto altro profilo – quanto al merito –

osservato che come questa Corte ha già avuto modo di porre in rilievo (v. in

particolare Cass., 20/11/2018, n. 29828) all’art. 117 del Codice del Consumo (e già al

D.P.R. n. 224 del 1988, art. 5) viene definito “difettoso” non già ogni prodotto insicuro

bensì quel prodotto che non offra la sicurezza che ci si può legittimamente attendere

in relazione al modo in cui il prodotto è stato messo in circolazione, alla sua

presentazione, alle sue caratteristiche palesi alle istruzioni o alle avvertenze fornite,

all’uso per il quale il prodotto può essere ragionevolmente destinato, ai

comportamenti che in relazione ad esso si possono ragionevolmente prevedere, al

tempo in cui il prodotto è stato messo in circolazione (v., da ultimo, Cass.,

20/11/2018, n. 29828).

Si è al riguardo precisato che il concetto di difetto è sostanzialmente riconducibile al

difetto di fabbricazione, ovvero alle ipotesi dell’assenza o carenza di istruzioni, ed è

strettamente connesso al concetto di sicurezza.

Non corrisponde pertanto nè alla nozione di “vizio” di cui all’art. 1490 c.c., in base al

quale può trattarsi di un’imperfezione del bene che può anche non comportare

un’insicurezza del prodotto, nè a quella di difetto di conformità introdotto dalla

disciplina sulla vendita dei beni di consumo, postulando invero un pericolo per il

soggetto che fa un uso del prodotto o per coloro che, comunque, si trovano in

contatto con esso (v. Cass., 29/5/2013, n. 13458).

Il legislatore ha, inoltre, precisato che il prodotto non può essere considerato

difettoso per il solo fatto che un prodotto più perfezionato sia stato in qualunque

tempo messo in commercio; e che il prodotto è difettoso se non offre la sicurezza 

offerta normalmente dagli altri esemplari della medesima serie.

Si è ulteriormente sottolineato che, anche assumendo come parametro integrativo di

riferimento la nozione di prodotto “sicuro” contenuta nella disciplina sulla sicurezza

generale dei prodotti di cui all’art. 103 Codice del consumo (e già al D.Lgs. n. 172

del 2004), il livello di sicurezza prescritto, al di sotto del quale il prodotto deve

considerarsi difettoso, non corrisponde a quello della sua più rigorosa innocuità,

dovendo farsi riferimento ai requisiti di sicurezza dall’utenza generalmente richiesti in

relazione alle circostanze specificamente indicate all’art. 117 Codice del consumo (e

già al D.P.R. n. 224 del 1988, art. 5), o ad altri elementi in concreto valutabili e

concretamente valutati dal giudice di merito, nell’ambito dei quali debbono farsi

rientrare gli standards di sicurezza eventualmente imposti dalle norme in materia (v.

Cass., 20/11/2018, n. 29828; Cass., 29/5/2013, n. 13458).

Si è osservato come la verificazione del danno di per sè non deponga per la

pericolosità del prodotto in condizioni normali di impiego, ma solo per una sua più

indefinita pericolosità, invero insufficiente a fondare la responsabilità del produttore

laddove non venga in concreto accertato che la stessa pone il prodotto al di sotto del

livello di garanzia e di affidabilità richiesto dalle leggi in materia o dall’utenza (v.

Cass., 29/5/2013, n. 13458; Cass. 13/12/2010, n. 25116).

Quanto all’onere della prova, l’art. 120 del Codice del Consumo (come già il D.P.R.

n. 224 del 1988, art. 8) prevede che il danneggiato deve provare il danno, il difetto e

la connessione causale tra difetto e danno; mentre il produttore deve provare i fatti

che possono escludere la responsabilità ex art. 118 Codice del Consumo.

Spetta allora anzitutto al danneggiato dimostrare che il prodotto ha evidenziato il

difetto durante l’uso, che ha subito un danno e che quest’ultimo deriva dal difetto.

Fornita dal danneggiato tale prova, il produttore ha l’onere di dare la prova

liberatoria, consistente nella dimostrazione che il difetto non esisteva quando ha

posto il prodotto in circolazione, o che all’epoca non era riconoscibile come in base

allo stato delle conoscenze tecnico-scientifiche (v. Cass., 29/5/2013, n. 13458).

La responsabilità da prodotto difettoso integra pertanto un’ipotesi di responsabilità

presunta (e non già oggettiva), incombendo al danneggiato che chiede il

risarcimento provare gli elementi costitutivi del diritto fatto valere, in particolare

l’esistenza del “difetto” del prodotto e il collegamento causale tra difetto e danno (cfr.

Cass., 29/5/2013, n. 13458).

La prova della difettosità del prodotto può essere peraltro data anche per

presunzioni semplici.

A tale stregua, acquisita tramite fonti materiali di prova (o anche tramite il notorio o a

seguito della non contestazione) la conoscenza di un fatto secondario, il giudice può

in via indiretta dedurre l’esistenza del fatto principale ignoto (nella specie, il difetto

del prodotto), sempre che le presunzioni abbiano il requisito della gravità (il fatto

ignoto deve cioè essere desunto con ragionevole certezza, anche probabilistica),

della precisione (il fatto noto, da cui muove il ragionamento probabilistico, e il l’iter

logico seguito non debbono essere vaghi ma ben determinati), della concordanza (la 

prova deve essere fondata su una pluralità di fatti noti convergenti nella

dimostrazione del fatto ignoto) (v. Cass., 29/5/2013, n. 13458. Cfr. altresì Cass.,

26/6/2008, n. 17535; Cass., 2/3/2012, n. 3281), giacchè gli elementi che

costituiscono la premessa devono avere il carattere della certezza e della

concretezza, essendo invero inammissibile la c.d. praesumptio de praesumpto, non

potendosi valorizzare una presunzione come fatto noto, per derivarne da essa

un’altra presunzione (v. Cass., 28/1/2000, n. 988; Cass., 28/1/1995, n. 1044. E già

Cass., 3/7/1969, n. 2443; nonchè, da ultimo, Cass., 6/7/2018, n. 17720).

Si è altresì sottolineato che in tema di danno da prodotto difettoso le norme di fonte

comunitaria, volte a realizzare un’armonizzazione globale – e non già minima (v.

Corte Giust., 25/4/2002, C-52/00; Corte Giust., 25/4/2002, C154/00; Corte Giust.,

25/4/2002, C-183/00), ma nemmeno completa (v. Corte Giust., 20/11/2014,

C-310/13; Corte Giust., 21/12/2011, C-495/10; Corte Giust., 4/6/2009, C-285/10;

Corte Giust., Grande Sezione, 10/1/2006, C-402/03)-, delle legislazioni degli Stati

membri del settore della responsabilità per danno da prodotto difettoso (Direttiva

85/374/CEE, in tema di responsabilità da prodotti difettosi, recepita con D.P.R. n.

224 del 1988, poi trasfuso nel D.Lgs. n. 206 del 2005, artt. 114-127, “Codice del

consumo”; Direttiva 2001/95/CE sulla sicurezza dei prodotti, recepita con il D.Lgs. n.

206 del 2005, artt. 102-113, “Codice del consumo”), non trovano invero applicazione

in via esclusiva ma vengono ad affiancarsi e non si sostituiscono alla disciplina

dettata dall’ordinamento interno (v. Cass., 1/6/2010, n. 13432; Cass., 29/4/2005, n.

8981, Cfr. anche, da ultimo, Cass., 7/11/2019, n. 28626), non rimanendo pertanto da

quella del c.d. Codice del consumo esclusa, stante la diversità di ratio e ambito

applicativo, l’operatività (anche) della norma di cui all’art. 2050 c.c. (cfr., da ultimo,

Cass., 7/3/2019, n. 6587).

Orbene, dei suindicati principi la corte di merito ha nell’impugnata sentenza fatto

invero sostanzialmente corretta applicazione.

E’ rimasto in sede di merito accertato che “nella tarda primavera del 1999, in seguito

all’assunzione del farmaco Lipobay 0,2 (farmaco fornitogli, essendo… medico di

base, dagli informatori farmaceutici della Bayer s.p.a.) per circa due mesi”,

l’originario attore ed odierno controricorrente “aveva iniziato ad accusare una serie di

disturbi quali “astenia, facile irritabilità, affaticamento e dolenzia muscolare””, e che,

pur avendo sospeso il trattamento all’esito di accertamenti clinici dai quali era

emerso un “”elevato livello di CPK” nel sangue”, le “sue condizioni di salute erano…

progressivamente peggiorate tanto che nel mese di (OMISSIS) veniva ricoverato in

clinica con diagnosi di “miopatia con importante interessamento enzimatico””,

sicchè, a seguito di “ulteriore peggioramento della predetta patologia muscolare”, vi

fu un nuovo ricovero “nel (OMISSIS)… con diagnosi di “miopatia a lenta

evoluzione””, con comparsa nel “(OMISSIS)” di “primi sintomi di coinvolgimento

dell’apparato respiratorio”, seguito da un ulteriore ricovero “nel (OMISSIS)… presso

l’Ospedale di (OMISSIS) dove fu confermata la pregressa diagnosi di “miopatia ai

cingoli a lenta evoluzione e pneumopatia con deficit ventilatorio restrittivo di grado

lieve””, e da un ennesimo ricovero “nel mese di (OMISSIS) presso l’Unità Operativa

di Fisiopatologia Respiratoria dell’Ospedale di (OMISSIS)” per “un ulteriore

aggravamento”.

Atteso che l’autorizzazione al commercio non vale di per sè ad escludere la 

responsabilità civile del produttore (cfr. D.Lgs. n. 219 del 2006, art. 39, recante

attuazione della Direttiva 2001/83/CE (e successive Direttive di modifica) relativa a

un codice comunitario concernente i medicinali per uso umano, nonchè della

Direttiva 2003/94/CE: “l’autorizzazione non esclude la responsabilità anche penale

del produttore e del titolare dell’AIC”), i requisiti pubblicistici valendo a realizzare solo

un minimum di garanzia per il consumatore (v. Corte Giust., 29/5/1997, C-300/95); e

considerato, per altro verso, che la valutazione di pericolosità non attiene ai meri dati

scientifici ma coinvolge anche la percezione e le aspettative dei consumatori (v.

Corte Giust., 11/4/2001, C477/00; Corte Giust., 28/10/1992, C-219/91), ad escludere

la responsabilità del produttore di farmaci non essendo invero sufficiente la mera

prova dello “stato dell’arte”, va osservato che nel rigettare la censura mossa

dall’allora appellante ed odierna ricorrente in via principale secondo cui “un prodotto

“difettoso” è tale solo quando risulta totalmente inadatto al commercio, e non quando

si verifica il rischio di possibili effetti indesiderati, peraltro debitamente segnalati nelle

avvertenze come nel caso di specie”, sulla scorta delle risultanze dell’espletata CTU,

e in considerazione altresì “dei fattori estrinseci (quali obesità e ipertensione) che

potevano aver aggravato il quadro clinico”, nonchè delle modalità di assunzione del

farmaco… giudicate corrette dal collegio peritale”, la corte di merito ha ribadito la

sussistenza nella specie del nesso di causalità tra l’assunzione del farmaco in

argomento e la riscontrata “miopatia dei cingoli con dispnee notturne” già ravvisata

dal giudice di prime cure, in ragione della “tossicità neuromuscolare della

Cerivastatina, principio attivo contenuto anche nel Lipobay… in linea con i

riconosciuti rilievi della comunità scientifica”.

Ha al riguardo ulteriormente sottolineato come all’accertamento della sussistenza

nella specie “del nesso di causa tra l’assunzione del Lipobay e la patologia contratta

dal T.” non ostano le “eventuali (e opinabili) sviste del giudice di primo grado

nell’esposizione del caso quanto al nomen della patologia di cui si discute”, invero

“non… significative nè idonee ad invalidare il convincimento” al riguardo; e, per altro

verso, come risulti del tutto irrilevante la dedotta “mancata coincidenza” tra la

patologia sviluppata dall’odierno controricorrente e l’effettuato ritiro volontario dal

commercio del “farmaco in questione” per “le problematiche legate alla rischiosità di

un’eventuale insorgenza di rabdomiolisi esclusivamente in due specifiche

circostanze: a) ove il Lipobay fosse stato somministrato insieme ad un farmaco

contenente un diverso principio attivo (il Gemfibrozil); b) ove il Lipobay fosse stato

somministrato a dosaggi iniziali assai elevati quali lo 0,8 mg (dose mai assunta dal

T.)”, nonchè, del pari, l'”affermata relazione con le patologie indicate come possibili

(effetti) indesiderati nelle avvertenze d’uso”, in quanto “al fine di accertare la civile

responsabilità del produttore del farmaco nel caso di specie” va “preso in

considerazione il giudizio espresso dal CTU sulla relazione tra l’assunzione del

Lipobay prodotto dalla S.p.A. Bayer e la patologia concretamente sviluppata

dall’attore”.

Orbene, diversamente da quanto del tutto apoditticamente censurato dall’odierna

ricorrente (la quale in violazione – come detto – del requisito a pena d’inammissibilità

richiesto all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, si limita a genericamente dolersi della

omessa considerazione “di alcuni degli indici di fatto emersi dall’istruttoria svolta nel

corso del giudizio (in particolare, la rischiosità insita in qualsiasi farmaco a base di

statine di portare all’insorgenza di mialgie e il chiaro contenuto dell’informativa fornita

assieme al prodotto Lipobay in rapporto alla natura dei malesseri sofferti dal Dott. 

T.)”), dalla pur sintetica motivazione dell’impugnata sentenza – resa (anche) a fronte

di analoghe censure dall’odierna ricorrente e allora appellante anche in quella sede

proposte – emerge come in sostanziale applicazione della disciplina comunitaria

nonchè del Codice del consumo nell’impugnata sentenza la corte di merito abbia

invero ravvisato l’esistenza nella specie della difettosità del farmaco in argomento al

momento della relativa commercializzazione a cagione del principio attivo

(cerivastatina) in esso contenuto, determinante l’accentuato rischio di malattie del

muscolo rispetto a dosi equipollenti di altre statine, e, pertanto, una minore sicurezza

del medesimo rispetto ad altri farmaci della stessa categoria (ipocolesterolemizzanti)

evidenziata nell’espletata CTU. Farmaco di cui è stata accertata la decisiva rilevanza

causale nella determinazione della “malattia dei cingoli con dispnee notturne”

sofferta dall’odierno controricorrente e ricorrente in via incidentale, siffatta “patologia

concretamente sviluppata” avendo invero nello specifico caso de quo costituito

sintomatica ipotesi di concretizzazione di uno dei paventati rischi che hanno indotto

l’odierna ricorrente al relativo ritiro dal commercio (che, pur se volontario, depone

invero per la violazione del principio di precauzione anteriormente all’immissione in

commercio) al fine di evitare, attesa la riconosciuta tossicità neuromuscolare, la

causazione di patologie (quale in particolare la rabdomiolisi) dei muscoli ai relativi

assuntori.

In altri termini, il farmaco difettoso di cui trattasi ha nello specifico caso concreto in

esame assunto carattere anche dannoso.

Considerato, sotto altro profilo, che ad escludere la responsabilità del produttore di

farmaci non è invero sufficiente nemmeno la mera prova di aver fornito – tramite il

foglietto illustrativo (c.d. “bugiardino”) – un’informazione che si sostanzi in una mera

avvertenza generica circa la non sicurezza del prodotto (cfr. Cass., 15/3/2007, n.

6007), essendo necessaria un’avvertenza idonea a consentire al consumatore di

acquisire non già una generica consapevolezza in ordine al possibile verificarsi

dell’indicato pericolo in conseguenza dell’utilizzazione del prodotto bensì di effettuare

una corretta valutazione (in considerazione delle peculiari condizioni personali, della

particolarità e gravità della patologia nonchè del tipo di rimedi esistenti) dei rischi e

dei benefici al riguardo, nonchè di adottare tutte le necessarie precauzioni volte ad

evitare l’insorgenza del danno, e pertanto di volontariamente e consapevolmente

esporsi al rischio (con eventuale suo concorso di colpa ex art. 1227 c.c., in caso di

relativa sottovalutazione o di abuso del farmaco), non può infine sottacersi che, a

fronte di specifica censura dall’odierna ricorrente e allora appellante mossa (anche)

in sede di gravame (“La compagnia farmaceutica… precisa che… non poteva esservi

alcun nesso causale tra l’assunzione del farmaco e l’insorgenza della malattia

invalidante denunciata dall’attore, il cui rischio era del resto segnalato anche nel

foglio delle avvertenze inserito nelle confezioni in vendita”), la corte di merito ha

ritenuto le indicazioni recate nel foglio delle avvertenze (c.d. “bugiardino”) nella

specie invero inidonee ad escluderne la responsabilità (in argomento cfr. Cass.,

7/3/2019, n. 6587. Con riferimento all’obbligo del consenso informato del paziente

quale legittimazione e fondamento del trattamento sanitario cfr. altresì, da ultimo,

Cass., 10/12/2019, n. 32124) alla stregua delle risultanze dell’espletata CTU sulla

base di una valutazione, effettuata secondo il criterio della prognosi postuma ex ante

(avuto cioè riguardo alle circostanze esistenti al momento dell’esercizio dell’attività).

La corte di merito ha pertanto confermato la decisione del giudice di prime cure sul 

punto sulla base di una valutazione, implicante accertamenti di fatto, spettante al

giudice del merito e non sindacabile in sede di legittimità in presenza come nella

specie di motivazione (più sopra riportata) congrua (cfr. Cass., 19/7/2018, n. 19180,

Cfr. altresì, con riferimento a differenti fattispecie, Cass., 15/2/2019, n. 4545; Cass.

20/5/2015, n. 10268; Cass. 19/1/2007, n. 1195), e in ogni caso non meramente

apparente – e pertanto inesistente – (cfr. Cass., 30/6/2020, n. 13248; Cass., Sez. Un.,

27/12/2019, n. 34476; Cass., 30/5/2019, n. 14754; Cass., Sez. Un., 7/4/2014, n.

8053).

Emerge evidente, a tale stregua, come lungi dal denunziare vizi della sentenza

gravata rilevanti sotto i ricordati profili, le deduzioni del ricorrente, oltre a risultare

formulate secondo un modello difforme da quello delineato all’art. 366 c.p.c., comma

1, n. 6, in realtà si risolvono nella mera doglianza circa la dedotta erronea

attribuzione da parte del giudice del merito agli elementi valutati di un valore ed un

significato difformi dalle sue aspettative (v. Cass., 20/10/2005, n. 20322), e

nell’inammissibile pretesa di una lettura dell’asserto probatorio diversa da quella nel

caso operata dai giudici di merito (cfr. Cass., 18/4/2006, n. 8932).

Per tale via, infatti, come sì è sopra osservato, lungi dal censurare la sentenza per

uno dei tassativi motivi indicati nell’art. 360 c.p.c., in realtà sollecita, cercando di

superare i limiti istituzionali del giudizio di legittimità, un nuovo giudizio di merito, in

contrasto con il fermo principio di questa Corte secondo cui il giudizio di legittimità

non è un giudizio di merito di terzo grado nel quale possano sottoporsi alla

attenzione dei giudici della Corte Suprema di Cassazione elementi di fatto già

considerati dai giudici del merito, al fine di pervenire ad un diverso apprezzamento

dei medesimi (cfr. Cass., 14/3/2006, n. 5443).

All’inammissibilità e infondatezza dei motivi consegue il rigetto dei ricorsi, principale

e incidentale.

Stante la reciproca soccombenza, va disposta la compensazione tra le parti delle

spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta i ricorsi. Compensa tra le parti le spese del giudizio di

cassazione.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, come

modif. dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei

presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti principale e incidentale

dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello

rispettivamente dovuto per il ricorso principale e per il ricorso incidentale, a

norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 11 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 10 maggio 2021

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.