Ordinanza, Corte Costituzionale, 9 giugno 2020, n. 132/2020, Diffamazione a mezzo stampa:

In quest’occasione la Corte Costituzionale ha ritenuto rilevanti e non manifestatamente infondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 595, III co., c.p., e 13 della Legge n. 47 del 1948, per contrasto con gli artt. 3, 21, 25, 27, e 117, I co, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, sollevate dai Tribunali di Bari e Salerno. Malgrado ciò, essa rinvia ad altra udienza di decisione risultando vari progetti di legge in materia di revisione della disciplina della diffamazione a mezzo della stampa in corso di esame avanti alle Camere.

Corte Costituzionale, 9 giugno 2020, n. 132/2020:

ORDINANZA N. 132
ANNO 2020
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Marta CARTABIA; Giudici : Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI,
Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco
MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco
VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47 (Disposizioni sulla
stampa), e dell’art. 595, terzo comma, del codice penale, promossi dal Tribunale ordinario di Salerno,
sezione seconda penale, con ordinanza del 9 aprile 2019 e dal Tribunale ordinario di Bari, sezione prima
penale, con ordinanza del 16 aprile 2019, iscritte, rispettivamente, ai numeri 140 e 149 del registro
ordinanze 2019 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica numeri 38 e 40, prima serie speciale,
dell’anno 2019.
Visti l’atto di costituzione di P. N., nonché gli atti di intervento del Consiglio nazionale dell’ordine dei
giornalisti (CNOG) e del Presidente del Consiglio dei ministri;
uditi il Giudice relatore Francesco Viganò e gli avvocati Francesco Paolo Chioccarelli per P. N.,
Giuseppe Vitiello per il Consiglio nazionale dell’ordine dei giornalisti (CNOG) e gli avvocati dello Stato
Maurizio Greco e Salvatore Faraci per il Presidente del Consiglio dei ministri, nell’udienza pubblica del 9
giugno 2020, svolta, ai sensi del decreto della Presidente della Corte del 20 aprile 2020, punto 1), lettere a) e
d), in collegamento da remoto, su richiesta degli avvocati Giuseppe Vitiello, Francesco Paolo Chioccarelli,
Maurizio Greco e Salvatore Faraci pervenute rispettivamente in data 13, 25 e 29 maggio 2020;
deliberato nella camera di consiglio del 9 giugno 2020.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 9 aprile 2019, iscritta al n. 140 del r.o. 2019, il Tribunale ordinario di Salerno,
sezione seconda penale, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 21, 25, 27 e 117, primo comma, della
Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU),
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 595, terzo comma, del codice penale e dell’art. 13 della legge
8 febbraio 1948, n. 47 (Disposizioni sulla stampa) «per le ragioni di cui in motivazione».
1.1.– Il giudice a quo riferisce di essere chiamato a decidere sulla responsabilità penale di P. N.,
imputato del delitto di diffamazione a mezzo stampa, e di A. S., imputato in quanto direttore responsabile
per omesso controllo, per aver attribuito alle persone offese un fatto determinato (l’affiliazione a un
sodalizio mafioso) non corrispondente al vero alla luce degli atti di indagine dell’autorità giudiziaria.
Poiché, secondo il rimettente, la condotta diffamatoria risulta sussumibile tanto nella fattispecie generale di
cui all’art. 595, terzo comma, cod. pen., quanto in quella di cui all’art. 13 della legge n. 47 del 1948, il
giudizio di merito non potrebbe essere definito indipendentemente dalla soluzione delle prospettate
questioni di legittimità costituzionale.
Quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni, il rimettente ravvisa anzitutto il contrasto tra le
disposizioni censurate e l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 10 CEDU.
Rilevato che la libertà di espressione è tutelata sia dall’art. 10 CEDU, sia dall’art. 21 Cost., sicché la
giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo formatasi sulla disposizione convenzionale
andrebbe utilizzata come «strumento di ampliamento e adeguamento del diritto interno», il giudice a quo
osserva che, secondo il consolidato orientamento della Corte EDU, risulterebbe contraria all’art. 10 CEDU,
in quanto eccessiva e sproporzionata, la previsione anche solo in astratto della pena detentiva per i delitti di
diffamazione a mezzo stampa, salvo che in circostanze eccezionali ove si determini una grave lesione di altri
diritti fondamentali, come ad esempio in caso di discorsi di odio o di istigazione alla violenza (sono citate le
sentenze della Corte EDU 7 marzo 2019, Sallusti contro Italia; 24 settembre 2013, Belpietro contro Italia; 17
dicembre 2004, Cumpn e Mazre contro Romania).
Non sussisterebbero ostacoli al recepimento di tale consolidata giurisprudenza della Corte EDU, in
assenza, nell’ordinamento interno, di valori o principi costituzionali suscettibili di prevalere sulla libertà di
espressione, tutelata tanto dall’art. 10 CEDU, quanto dall’art. 21 Cost.
Né sarebbe possibile adottare un’interpretazione convenzionalmente orientata delle norme censurate,
ritenendo soggette a pena detentiva «esclusivamente le condotte diffamatorie a mezzo stampa che rivestano i
caratteri dell’eccezionalità». Tale interpretazione si porrebbe infatti in contrasto con i principi di tassatività e
determinatezza della fattispecie penale, corollari del principio di legalità di cui all’art. 25 Cost., che
impedirebbero al giudice di integrare la norma incriminatrice con il requisito dell’eccezionalità, «i cui
precisi contorni e confini, peraltro, dovrebbero pur sempre essere determinati puntualmente dal legislatore,
cui spetta in via esclusiva il potere di legiferare in materia penale».
Non potrebbe, infine, essere seguito l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, che ha ritenuto la
disciplina della diffamazione a mezzo stampa conforme all’art. 10 CEDU, sul rilievo dell’eccezionalità delle
circostanze in cui i giudici di merito avevano irrogato la pena detentiva, poiché le valutazioni della Corte di
cassazione sono state disattese dalla Corte EDU nelle citate pronunce Sallusti e Belpietro.
Le disposizioni censurate risulterebbero altresì contrarie agli artt. 3 e 21 Cost., in quanto la previsione di
una pena detentiva per i reati di diffamazione a mezzo stampa sarebbe «manifestamente irragionevole e
totalmente sproporzionata rispetto alla libertà di manifestazione di pensiero, anche nella forma del diritto di
cronaca giornalistica, fondamentale diritto costituzionalmente garantito dall’art. 21 Cost., la cui tutela, in
assenza di contrari interessi giuridici interni prevalenti, non può che essere favorevolmente estesa nelle
forme stabilite dalla giurisprudenza della Corte Edu, eliminando così, salvi i “casi eccezionali”, anche la
mera comminazione di qualunque pena detentiva».
Secondo il rimettente, poi, la comminatoria di una pena detentiva per le condotte di diffamazione a
mezzo stampa si porrebbe in contrasto con il principio di offensività, ricavabile dall’art. 25 Cost., «in quanto
totalmente sproporzionata, irragionevole e non necessaria rispetto al bene giuridico tutelato dalle norme
incriminatrici in questione, ovvero il rispetto della reputazione personale».
Le norme censurate vanificherebbero, infine, la funzione rieducativa della pena di cui all’art. 27, terzo
comma, Cost., attesa la «inidoneità della minacciata sanzione detentiva a garantire il pieno rispetto della
funzione generalpreventiva e specialpreventiva della pena stessa». Ciò in quanto detta sanzione, essendo
sproporzionata al metro della giurisprudenza della Corte EDU, risulterebbe in concreto inapplicabile e,
quindi, inidonea a orientare la condotta sia della generalità dei consociati, sia del singolo giornalista.
1.2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal
Tribunale ordinario di Salerno siano dichiarate inammissibili o infondate.
L’ordinanza di rimessione sarebbe anzitutto insufficientemente motivata in punto di rilevanza delle
questioni. Il giudice a quo avrebbe omesso di precisare se le affermazioni diffamatorie oggetto di
imputazione fossero frutto di una distorta valutazione di fatti reali o costituissero una notizia pacificamente
falsa; profilo questo rilevante per la valutazione della conformità delle norme censurate agli artt. 117, primo
comma, Cost. e 10 CEDU, in quanto, secondo la giurisprudenza della Corte EDU, l’inflizione della pena
detentiva per il delitto di diffamazione a mezzo stampa non contrasterebbe con l’art. 10 CEDU in caso di
propalazione di una notizia pacificamente falsa.
Il Presidente del Consiglio dei ministri eccepisce poi l’oscurità del petitum dell’ordinanza di rimessione,
che non consentirebbe di comprendere se il rimettente aspiri a ottenere una pronuncia ablativa delle
disposizioni censurate, una pronuncia manipolativa in punto di pena ovvero una pronuncia additiva in ordine
alla delimitazione delle condotte incriminate.
L’Avvocatura generale dello Stato evidenzia inoltre che l’accoglimento del petitum – comunque inteso
– non eliminerebbe in toto i censurati profili di illegittimità costituzionale del trattamento sanzionatorio
previsto per il reato di diffamazione, in quanto l’art. 595 cod. pen. prevede comunque, anche in relazione a
ipotesi diverse dalla diffamazione a mezzo stampa, la possibilità di irrogare la pena detentiva in via
alternativa rispetto alla pena pecuniaria.
L’interveniente eccepisce infine l’omessa adozione, da parte del giudice a quo, di un’interpretazione
costituzionalmente e convenzionalmente orientata delle norme censurate, in presenza di un diritto vivente
indirizzato nel senso della legittimità della pena detentiva nelle ipotesi di diffamazione a mezzo stampa
caratterizzate dagli elementi di eccezionalità delineati dalla giurisprudenza della Corte EDU, in particolare
nelle sentenze 16 aprile 2009, Egeland e Hanseid contro Norvegia e 22 aprile 2010, Fatullayev contro
Azerbaijan.
1.3.– Si è costituita in giudizio la parte P. N., chiedendo l’accoglimento delle questioni di legittimità
costituzionale sollevate dal Tribunale ordinario di Salerno.
La parte privata richiama le pronunce della Corte EDU già citate dal rimettente (Belpietro contro Italia e
Sallusti contro Italia), nonché la sentenza Ricci contro Italia dell’8 ottobre 2013, per dedurne che la
previsione della pena detentiva in relazione alle condotte di diffamazione a mezzo stampa sarebbe
compatibile con l’art. 10 CEDU solo in presenza di circostanze eccezionali, riconducibili a gravi lesioni di
diritti fondamentali (quali la diffusione di discorsi d’odio o l’istigazione alla violenza), che non
risulterebbero integrate dalla diffamazione realizzata mediante attribuzione di un fatto determinato.
Alla luce di tale giurisprudenza, l’art. 595, terzo comma, cod. pen. potrebbe essere interpretato in
maniera conforme all’art. 10 CEDU, nel senso che la pena detentiva, ivi prevista in via alternativa alla pena
pecuniaria, sia irrogabile solo in presenza di una condotta di diffamazione a mezzo stampa connotata dal
ricorrere di circostanze eccezionali.
Siffatta interpretazione non potrebbe invece essere prospettata in relazione all’art. 13 della legge n. 47
del 1948, poiché detta disposizione commina la pena detentiva in via congiunta (e non alternativa) alla pena
pecuniaria per tutte le ipotesi di diffamazione a mezzo stampa consistente nell’attribuzione di un fatto
determinato, a prescindere dalla gravità della singola condotta.
Né potrebbe opinarsi diversamente, in base al rilievo che l’art. 13 della legge n. 47 del 1948 configura
non un’autonoma ipotesi di reato, ma una circostanza aggravante del delitto di diffamazione, come tale
bilanciabile ex art. 69 cod. pen. con eventuali circostanze attenuanti, con conseguente possibilità che il
giudice pervenga a escludere l’applicazione della pena detentiva. Da un lato, infatti, qualora la circostanza
aggravante di cui all’art. 13 della legge n. 47 del 1948 operi da sola ovvero in concorso con altre circostanze
aggravanti, il giudice dovrebbe comunque applicare la pena detentiva congiuntamente alla pena pecuniaria;
dall’altro lato, in caso di concorso tra circostanze eterogenee, sarebbe rimesso alla discrezionalità del giudice
l’eventuale giudizio di prevalenza o equivalenza delle circostanze attenuanti rispetto all’aggravante in
parola.
1.4.– Con atto depositato l’8 ottobre 2019, il Consiglio nazionale dell’ordine dei giornalisti (CNOG) è
intervenuto in giudizio ad adiuvandum, ai sensi dell’art. 4 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla
Corte costituzionale, chiedendo alla Corte di dichiarare ammissibile l’intervento e di accogliere le questioni
di legittimità costituzionale sollevate dal rimettente.
L’interveniente illustra diffusamente la giurisprudenza della Corte EDU relativa ai requisiti di
compatibilità con l’art. 10 CEDU della punizione delle condotte di diffamazione a mezzo stampa e della
previsione della pena detentiva, deducendone la contrarietà della disciplina censurata dal rimettente alla
garanzia convenzionale della libertà di espressione.
Il CNOG evidenzia poi che un filone della giurisprudenza di legittimità (sono richiamate Corte di
cassazione, sezione quinta penale, sentenze 13 marzo 2014, n. 12203 e 19 settembre 2019, n. 38721), in
adesione ai principi espressi dalla Corte EDU, riterrebbe che, in relazione alle condotte di diffamazione a
mezzo stampa, l’irrogazione della pena detentiva sia giustificata solo in presenza di gravi lesioni dei diritti
fondamentali, quali quelle derivanti dalla propalazione di discorsi di odio o di istigazione alla violenza.
1.5.– Con ordinanza n. 37 del 2020, questa Corte ha dichiarato ammissibile l’intervento in giudizio del
CNOG, sul rilievo che, ai sensi che l’art. 4, comma 7, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla
Corte costituzionale e secondo la costante giurisprudenza della Corte, nei giudizi in via incidentale possono
intervenire i titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto dedotto in
giudizio; interesse da ritenersi in specie sussistente, in relazione alla competenza disciplinare attribuita al
CNOG dall’art. 20, primo comma, lettera d), dalla legge 3 febbraio 1963, n. 69 (Ordinamento della
professione di giornalista).
1.6.– Con atto depositato telematicamente il 3 marzo 2020, oltre il termine di cui all’art. 4-ter, comma 1,
delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, la Federazione nazionale della stampa
italiana (FNSI) ha presentato un’opinione scritta in qualità di amicus curiae.
1.7.– Il 31 marzo 2020, il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato memoria illustrativa,
insistendo per la declaratoria di inammissibilità o di manifesta infondatezza delle questioni di legittimità
costituzionale sollevate dal Tribunale ordinario di Salerno. Riproposte le argomentazioni già sviluppate
nell’atto di intervento, l’interveniente soggiunge che le fattispecie di cui agli artt. 595, terzo comma, cod.
pen. e 13 della legge n. 47 del 1948 configurano aggravanti speciali del reato di diffamazione, come tali
bilanciabili con eventuali circostanze attenuanti, sicché il giudice potrebbe scegliere se applicare la pena
detentiva o quella pecuniaria in funzione della maggiore o minore gravità della condotta di diffamazione a
mezzo stampa, con conseguente piena conformità della normativa censurata alla giurisprudenza della Corte
EDU in tema di libertà di espressione.
Con specifico riferimento al caso oggetto del giudizio a quo, inoltre, l’attribuzione alla persona offesa di
una condotta illecita, poi rivelatasi inveritiera, determinerebbe una lesione della presunzione di non
colpevolezza, tutelata dagli artt. 27, secondo comma, Cost. e 6, paragrafo 2, CEDU, così concretando una
delle circostanze eccezionali che, secondo la giurisprudenza della Corte EDU, giustificano l’applicazione
della pena detentiva al giornalista colpevole di diffamazione.
1.8.– Rispettivamente in data 19 maggio, 29 maggio e 31 maggio 2020, in tutti i casi oltre il termine di
cui all’art. 4-ter, comma 1, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, sono
pervenute alla cancelleria della Corte, via posta elettronica certificata, altrettante opinioni scritte del
Sindacato cronisti romani presso l’Associazione stampa romana in qualità di amicus curiae.
1.9.– Il 26 maggio 2020 la parte P. N. ha depositato, fuori termine, memoria integrativa.
2.– Con ordinanza del 16 aprile 2019, iscritta al n. 149 del r.o. 2019, il Tribunale ordinario di Bari,
sezione prima penale, ha sollevato, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 10
CEDU, questione di legittimità costituzionale dell’art. 13 della legge n. 47 del 1948, «nella parte in cui
sanziona il delitto di diffamazione aggravata, commessa a mezzo stampa e consistente nell’attribuzione di
un fatto determinato, con la pena cumulativa della reclusione da uno a sei anni e della multa non inferiore a
256 [recte: 258] euro, invece che in via alternativa».
2.1.– Il rimettente espone di dover giudicare della responsabilità di G. D.T., imputato del delitto di cui
agli artt. 595 cod. pen. e 13 della legge n. 47 del 1948, per avere, in qualità di direttore di un quotidiano,
offeso la reputazione di F. C. mediante la pubblicazione di un articolo privo di firma, nel quale si attribuiva
alla persona offesa la cessione di stupefacente a una terza persona, malgrado l’avvenuto proscioglimento di
F. C. in relazione a tale fatto.
In punto di rilevanza, il giudice a quo espone che, ai sensi del combinato disposto degli artt. 595 cod.
pen. e 13 della legge n. 47 del 1948, il delitto di cui G. D.T. è imputato (diffamazione realizzata con la
pubblicazione dell’articolo in questione e consistente nell’attribuzione di un fatto determinato) risulta
punibile con la pena della reclusione da uno a sei anni, prevista in via cumulativa e non alternativa rispetto
alla multa di 258 euro.
Non sussisterebbero poi ragioni per prosciogliere l’imputato il quale, pur tratto in giudizio nella qualità
di direttore responsabile del quotidiano, sarebbe chiamato a rispondere direttamente della condotta
diffamatoria realizzata mediante la pubblicazione dell’articolo privo di firma. Del resto, la questione
rimarrebbe rilevante anche ove, all’esito del dibattimento, si dovesse ritenere sussistente la responsabilità di
G. D.T. sotto il solo profilo dell’omesso controllo sulla pubblicazione di contenuti diffamatori, ai sensi
dell’art. 57 cod. pen., atteso che, anche in tale ipotesi, sarebbe comunque applicabile la pena detentiva, pur
ridotta di un terzo nel quantum.
Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente richiama ampi stralci delle sentenze della Corte
EDU Belpietro contro Italia, Sallusti contro Italia e Ricci contro Italia, relative alla compatibilità con l’art.
10 CEDU del trattamento sanzionatorio previsto nell’ordinamento italiano, in particolare per la diffamazione
a mezzo stampa.
Da tale consolidata giurisprudenza si trarrebbe che la previsione per tale delitto di una pena detentiva,
pur suscettibile di sospensione condizionale o di commutazione in pena pecuniaria, risulterebbe
incompatibile con l’art. 10 CEDU, poiché idonea a scoraggiare l’esercizio della libertà di manifestazione del
pensiero e della libertà d’informazione, in tutti i casi in cui non ricorrano circostanze eccezionali, quali la
propalazione di discorsi di odio o di istigazione alla violenza.
Né sarebbe praticabile un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma censurata, che
considerasse irrogabile la pena detentiva in relazione alle sole condotte diffamatorie concretantisi in
incitazione all’odio, alla discriminazione o alla violenza: una simile opzione ermeneutica, «creativa e
arbitraria, slegata dal dato letterale, ed esorbitante rispetto alla funzione giurisdizionale» risulterebbe infatti
contraria al principio di legalità e lesiva degli artt. 25 e 101 Cost.
Nemmeno sarebbe possibile applicare, in luogo delle sanzioni previste dall’art. 13 della legge n. 47 del
1948, quelle contemplate dall’art. 595, secondo e terzo comma, cod. pen., che prevedono la pena detentiva
in via alternativa e non congiunta rispetto alla pena pecuniaria, essendo la fattispecie della diffamazione
commessa a mezzo stampa e contestualmente consistente nell’attribuzione di un fatto determinato
inequivocabilmente disciplinata dalla prima disposizione.
Né, ancora, sarebbe dirimente che la circostanza aggravante di cui al predetto art. 13 sia bilanciabile con
altre circostanze attenuanti, perché ciò non escluderebbe l’effetto dissuasivo, rispetto all’attività
giornalistica, della previsione, in astratto, di una pena detentiva congiunta a quella pecuniaria.
Il rimettente precisa infine che la questione di legittimità costituzionale sollevata mira a una pronuncia
che renda la pena detentiva applicabile in via alternativa e non più cumulativa rispetto alla pena pecuniaria.
Una simile pronuncia «consentirebbe al giudice di verificare in concreto la sussistenza delle circostanze
eccezionali in cui la gravità della condotta e dell’offesa che ne deriva giustifica l’irrogazione di una pena
detentiva, lasciando così un adeguato spazio discrezionale utile per conformare la decisione giurisdizionale
nazionale ai principi dell’ordinamento CEDU in materia». Si tratterebbe, a parere del giudice a quo, di una
soluzione non costituzionalmente obbligata, ma adottabile da parte di questa Corte, sulla falsariga di quanto
già avvenuto nella sentenza n. 40 del 2019, in presenza di un preciso punto di riferimento, offerto dall’art.
595 cod. pen., che prevede l’applicazione della pena detentiva in alternativa alla pena pecuniaria nei casi di
cui ai commi secondo e terzo.
2.1.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata,
sulla base delle argomentazioni già svolte nell’atto di intervento depositato nel giudizio iscritto al n. 140 del
r.o. 2019.
2.2.– Il 22 ottobre 2019, il CNOG ha depositato atto di intervento ad adiuvandum, di tenore analogo a
quello dell’atto presentato nel giudizio iscritto al n. 140 del r.o. 2019.
2.3.– Il 31 marzo 2020 il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato memoria illustrativa,
insistendo per l’accoglimento delle conclusioni già rassegnate nell’atto di intervento e richiamando
integralmente le argomentazioni svolte nella memoria illustrativa depositata nel giudizio iscritto al n. 140
del r.o. 2019.
2.4.– Il 19, 29 e 31 maggio 2020, e dunque oltre il termine di cui all’art. 4-ter, comma 1, delle Norme
integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, il Sindacato cronisti romani presso l’Associazione
stampa romana ha depositato via posta elettronica certificata le stesse opinioni scritte in qualità di amicus
curiae depositate nel giudizio iscritto al n. 140 del r.o. 2019.
Considerato in diritto
1.– Con l’ordinanza iscritta al n. 140 del r.o. 2019 il Tribunale ordinario di Salerno, sezione seconda
penale, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 21, 25, 27 e 117, primo comma, della Costituzione,
quest’ultimo in relazione all’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), questioni di
legittimità costituzionale dell’art. 595, terzo comma, del codice penale e dell’art. 13 della legge 8 febbraio
1948, n. 47 (Disposizioni sulla stampa) «per le ragioni di cui in motivazione». Dalla motivazione emerge
che il rimettente si duole in sostanza della previsione, da parte delle due disposizioni censurate, della pena
della reclusione – in via alternativa o cumulativa rispetto alla multa – a carico di chi sia ritenuto responsabile
del delitto di diffamazione aggravata dall’uso del mezzo della stampa consistente nell’attribuzione di un
fatto determinato.
2.– Con l’ordinanza iscritta al n. 149 del r.o. 2019 il Tribunale ordinario di Bari, sezione prima penale,
ha sollevato, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 10 CEDU, questione di
legittimità costituzionale dell’art. 13 della legge n. 47 del 1948, in combinato disposto con l’art. 595 cod.
pen., «nella parte in cui sanziona il delitto di diffamazione aggravata, commessa a mezzo stampa e
consistente nell’attribuzione di un fatto determinato, con la pena cumulativa della reclusione da uno a sei
anni e della multa non inferiore a 256 [recte: 258] euro, invece che in via alternativa».
3.– Le due ordinanze sollevano questioni analoghe e meritano pertanto di essere riunite ai fini della
decisione.
4.– L’intervento del Consiglio nazionale dell’ordine dei giornalisti (CNOG), già dichiarato ammissibile
da questa Corte, in relazione alla causa iscritta al n. 140 del r.o. 2019, con ordinanza n. 37 del 2020, deve
ritenersi ammissibile anche in relazione alla causa iscritta al n. 149 del r.o. 2019, come da ordinanza letta in
udienza e riportata in calce alla presente pronuncia.
5.– Entrambi i giudici rimettenti lamentano la previsione della pena della reclusione per il delitto di
diffamazione commessa a mezzo della stampa e consistente nell’attribuzione di un fatto determinato,
ritenendo che tale previsione si ponga in contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art.
10 CEDU, così come interpretato dalla costante giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Secondo l’ordinanza iscritta al n. 140 del r.o. 2019, tale previsione sarebbe altresì incompatibile:
– con gli artt. 3 e 21 Cost., in ragione del carattere «manifestamente irragionevole e totalmente
sproporzionat[o]» della previsione della pena detentiva rispetto all’importanza della libertà di
manifestazione del pensiero, salvi i casi eccezionali in cui la stessa Corte EDU riconosce legittima tale pena;
– con il principio di necessaria offensività del reato di cui all’art. 25 Cost., dal momento che tale
previsione risulterebbe «totalmente sproporzionata, irragionevole e non necessaria rispetto al bene giuridico
tutelato dalle norme incriminatrici in questione, ovvero il rispetto della reputazione personale»; nonché
– con il principio della necessaria funzione rieducativa della pena di cui all’art. 27, terzo comma, Cost.,
«attesa la inidoneità della minacciata sanzione detentiva a garantire il pieno rispetto della funzione
generalpreventiva e specialpreventiva della pena stessa».
L’ordinanza iscritta al n. 149 del r.o. 2019 incentra le proprie censure unicamente sul trattamento
sanzionatorio previsto dall’art. 13 della legge n. 47 del 1948, che prevede in via cumulativa la pena della
reclusione da uno a sei anni e quella della multa non inferiore a 258 euro (e non superiore a 50.000 euro,
giusta il disposto dell’art. 24 cod. pen.) per il caso di «diffamazione commessa col mezzo della stampa,
consistente nell’attribuzione di un fatto determinato».
L’ordinanza iscritta al n. 140 del r.o. 2019 estende invece le questioni anche all’art. 595, terzo comma,
cod. pen., che prevede in via alternativa la pena della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non
inferiore a 516 euro (e dunque, ancora, non superiore a 50.000 euro) per il caso di diffamazione recata, tra
l’altro, con il mezzo della stampa.
6.– La motivazione di entrambe le ordinanze è imperniata su ampi richiami alla giurisprudenza della
Corte EDU in materia di libertà di espressione, tutelata dall’art. 10 CEDU e ritenuta di regola violata
laddove vengano applicate pene detentive a giornalisti condannati per diffamazione.
6.1.– Tale giurisprudenza risale, in effetti, almeno alla sentenza della grande camera 17 dicembre 2004,
Cumpn e Mazre contro Romania, nella quale la Corte EDU ha esaminato il ricorso di due giornalisti,
condannati per diffamazione in quanto autori di un articolo nel quale accusavano un giudice di essere
coinvolto in fatti di corruzione. La Corte EDU ha riconosciuto la legittimità dell’affermazione di
responsabilità penale degli imputati, osservando che le gravi accuse rivolte alla vittima fornissero una
visione distorta dei fatti e fossero prive di adeguati riscontri fattuali (paragrafo 103); ma ha al contempo
ritenuto che l’imposizione nei loro confronti di una pena di sette mesi di reclusione non sospesa, ancorché in
concreto non eseguita per effetto di un provvedimento di grazia presidenziale, costituisse una interferenza
sproporzionata – e pertanto «non necessaria in una società democratica» ai sensi dell’art. 10, paragrafo 2,
CEDU – con il loro diritto alla libertà di espressione, tutelata dal paragrafo 1 del medesimo art. 10 CEDU.
Nella pronuncia indicata, la Corte EDU ha ricordato in proposito (paragrafo 93) il proprio insegnamento
secondo cui la stampa svolge l’essenziale ruolo di «cane da guardia» della democrazia (sentenza 27 marzo
1996, Goodwin contro Regno Unito, paragrafo 39), rilevando che «se è vero che gli Stati parte hanno la
facoltà, o addirittura il dovere, in forza dei loro obblighi positivi di tutela dell’art. 8 CEDU, di disciplinare
l’esercizio della libertà di espressione in modo da assicurare per legge un’adeguata tutela della reputazione
delle persone, non devono però farlo in una maniera che indebitamente dissuada i media dallo svolgimento
del loro ruolo di segnalare all’opinione pubblica casi apparenti o supposti di abuso dei pubblici poteri»
(paragrafo 113). Il timore di sanzioni detentive produce, secondo la Corte di Strasburgo, un evidente effetto
dissuasivo («chilling effect») rispetto all’esercizio della libertà di espressione dei giornalisti – in particolare
nello svolgimento della loro attività di inchiesta e di pubblicazione dei risultati delle loro indagini – tale da
riverberarsi sul giudizio di proporzionalità, e dunque di legittimità alla luce della Convenzione, di tali
sanzioni (paragrafo 114).
Pur sottolineando come la scelta delle sanzioni sia in principio riservata ai tribunali nazionali, la Corte
EDU ha concluso che «l’imposizione di una pena detentiva per un reato a mezzo stampa è compatibile con
la libertà di espressione dei giornalisti, garantita dall’art. 10 della Convenzione, soltanto in circostanze
eccezionali, segnatamente quando altri diritti fondamentali siano stati seriamente offesi, come ad esempio
nel caso di diffusione di discorsi d’odio (hate speech) o di istigazione alla violenza» (paragrafo 115):
circostanze certamente non sussistenti nel caso allora esaminato.
6.2.– I principi espressi dalla sentenza Cumpn sono stati poi costantemente ribaditi dalla Corte EDU
nella propria successiva giurisprudenza (ex multis, sentenza 6 dicembre 2007, Katrami contro Grecia), anche
in due sentenze pronunciate nei confronti dell’Italia, cui i giudici rimettenti fanno puntuale riferimento
(sentenze 24 settembre 2013, Belpietro contro Italia; 7 marzo 2019, Sallusti contro Italia). In tali ultime
pronunce – rispetto alle quali risultano ancora pendenti i rispettivi procedimenti di supervisione
sull’esecuzione delle sentenze avanti al Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa – la Corte EDU da un
lato ha ritenuto legittima l’affermazione di responsabilità penale in capo ai ricorrenti da parte dei giudici
italiani, stante la non veridicità e la gravità degli addebiti rivolti alle persone offese, in assenza dei doverosi
controlli da parte del giornalista (ovvero del direttore responsabile); ma, dall’altro lato, ha ritenuto
sproporzionata l’inflizione nei loro confronti di una pena detentiva, ancorché condizionalmente sospesa
ovvero cancellata da un provvedimento di grazia del Presidente della Repubblica.
6.3.– D’altra parte, numerosi documenti degli organi politici del Consiglio d’Europa raccomandano agli
Stati membri di rinunciare alle sanzioni detentive per il delitto di diffamazione, allo scopo di tutelare più
efficacemente la libertà di espressione dei giornalisti e, correlativamente, il diritto dei cittadini a essere
informati.
In particolare, il Comitato dei ministri ha adottato, il 12 febbraio 2004, una Dichiarazione sulla libertà
dei dibattiti politici nei media, nella quale ha tra l’altro affermato che risarcimenti e sanzioni pecuniarie per
la diffamazione a mezzo stampa devono essere proporzionati alla violazione dei diritti e della reputazione
delle persone offese e tenere in considerazione eventuali condotte riparatorie intervenute, e che la pena
detentiva non dovrebbe essere applicata, salvo in casi di grave violazione di altri diritti fondamentali, che la
rendano strettamente necessaria e proporzionata.
Con la risoluzione 4 ottobre 2007, n. 1577, l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ha
riaffermato il ruolo centrale dell’informazione, pietra angolare di una democrazia, con particolare
riferimento alla funzione propulsiva rispetto a dibattiti di interesse pubblico. Essa ha, in particolare, esortato
gli Stati contraenti ad abolire la pena detentiva per la diffamazione e a garantire che non sia fatto un uso
distorto dei procedimenti penali per diffamazione. Nel contempo, è stata raccomandata la criminalizzazione
delle condotte di incitamento alla violenza, all’odio o alla discriminazione.
Nella risoluzione 24 gennaio 2013, n. 1920, sullo stato della libertà dei media in Europa, l’Assemblea
parlamentare del Consiglio d’Europa ha nuovamente stigmatizzato l’uso distorto dei procedimenti penali per
fatti di diffamazione. Con specifico riferimento all’Italia, alla luce della condanna di un giornalista a una
pena detentiva confermata dalla Corte di cassazione – condanna che ha poi dato origine alla sentenza della
Corte EDU Sallusti contro Italia, poc’anzi menzionata – la medesima assemblea ha richiesto alla
Commissione europea per la democrazia attraverso il diritto (Commissione di Venezia) di predisporre un
parere sulla conformità della normativa italiana all’art. 10 CEDU. Il relativo parere della Commissione di
Venezia (n. 715 del 6-7 dicembre 2013) ha concluso nel senso che la vigente legislazione italiana non
sarebbe pienamente in linea con gli standard del Consiglio d’Europa in materia di libertà di espressione,
individuando la problematica di maggior rilievo nella previsione della pena detentiva in relazione alla
diffamazione a mezzo stampa.
7.– Alla luce di quanto precede, appare necessaria e urgente una complessiva rimeditazione del
bilanciamento, attualmente cristallizzato nella normativa oggetto delle odierne censure, tra libertà di
manifestazione del pensiero e tutela della reputazione individuale, in particolare con riferimento all’attività
giornalistica.
7.1.– La libertà di manifestazione del pensiero costituisce – prima ancora che un diritto proclamato dalla
CEDU – un diritto fondamentale riconosciuto come «coessenziale al regime di libertà garantito dalla
Costituzione» (sentenza n. 11 del 1968), «pietra angolare dell’ordine democratico» (sentenza n. 84 del
1969), «cardine di democrazia nell’ordinamento generale» (sentenza n. 126 del 1985 e, di recente, sentenza
n. 206 del 2019). Né è senza significato che, nella prima sentenza della sua storia, la Corte costituzionale –
in risposta a ben trenta ordinanze sollevate da giudici comuni – abbia dichiarato l’illegittimità costituzionale
di una disposizione di legge proprio in ragione del suo contrasto con l’art. 21 Cost. (sentenza n. 1 del 1956).
Nell’ambito di questo diritto, la libertà di stampa assume un’importanza peculiare, in ragione del suo
ruolo essenziale nel funzionamento del sistema democratico (sentenza n. 1 del 1981), nel quale al diritto del
giornalista di informare corrisponde un correlativo “diritto all’informazione” dei cittadini: un diritto
quest’ultimo «qualificato in riferimento ai princìpi fondanti della forma di Stato delineata dalla Costituzione,
i quali esigono che la nostra democrazia sia basata su una libera opinione pubblica e sia in grado di
svilupparsi attraverso la pari concorrenza di tutti alla formazione della volontà generale», e «caratterizzato
dal pluralismo delle fonti cui attingere conoscenze e notizie […] in modo tale che il cittadino possa essere
messo in condizione di compiere le sue valutazioni avendo presenti punti di vista differenti e orientamenti
culturali contrastanti (sentenza n. 112 del 1993, richiamata dalla sentenza n. 155 del 2002)» (sentenza n. 206
del 2019).
Non v’è dubbio pertanto che l’attività giornalistica meriti di essere «salvaguardata contro ogni minaccia
o coartazione, diretta o indiretta» (sentenza n. 172 del 1972) che possa indebolire la sua vitale funzione nel
sistema democratico, ponendo indebiti ostacoli al legittimo svolgimento del suo ruolo di informare i
consociati e di contribuire alla formazione degli orientamenti della pubblica opinione, anche attraverso la
critica aspra e polemica delle condotte di chi detenga posizioni di potere.
7.2.– Per altro verso, il legittimo esercizio, da parte della stampa e degli altri media, della libertà di
informare e di contribuire alla formazione della pubblica opinione richiede di essere bilanciato con altri
interessi e diritti, parimenti di rango costituzionale, che ne segnano i possibili limiti, tanto nell’ottica
costituzionale quanto in quella convenzionale.
Fra tali limiti si colloca, in posizione eminente, la reputazione della persona, che costituisce al tempo
stesso un diritto inviolabile ai sensi dell’art. 2 Cost. (sentenze n. 37 del 2019, n. 379 del 1996, n. 86 del 1974
e n. 38 del 1973) e una componente essenziale del diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU (ex multis,
Corte EDU, sentenza 6 novembre 2018, Vicent del Campo contro Spagna), che lo Stato ha il preciso obbligo
di tutelare anche nei rapporti interprivati (in questo senso la menzionata sentenza Cumpn della Corte EDU,
paragrafo 91), oltre che un diritto espressamente riconosciuto dall’art. 17 del Patto internazionale relativo ai
diritti civili e politici. Un diritto, altresì, connesso a doppio filo con la stessa dignità della persona (sentenza
n. 265 del 2014 e, nella giurisprudenza di legittimità, ex plurimis Corte di cassazione, sezione quinta penale,
sentenza 28 ottobre 2010, n. 4938), e suscettibile di essere leso dalla diffusione di addebiti non veritieri o di
rilievo esclusivamente privato.
7.3.– Il punto di equilibrio tra la libertà di “informare” e di “formare” la pubblica opinione svolto dalla
stampa e dai media, da un lato, e la tutela della reputazione individuale, dall’altro, non può però essere
pensato come fisso e immutabile, essendo soggetto a necessari assestamenti, tanto più alla luce della rapida
evoluzione della tecnologia e dei mezzi di comunicazione verificatasi negli ultimi decenni.
Il bilanciamento sotteso alle norme del codice penale e in quelle della vigente legge sulla stampa – e in
particolare negli artt. 595 cod. pen. e 13 della legge n. 47 del 1948, in questa sede censurati – si impernia
sulla previsione, in via rispettivamente alternativa e cumulativa, di pene detentive e pecuniarie laddove il
giornalista offenda la reputazione altrui, travalicando i limiti del legittimo esercizio del diritto di cronaca o
di critica di cui all’art. 21 Cost.; limiti a loro volta ricostruiti dalla giurisprudenza civile (a partire dalla
fondamentale Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 18 ottobre 1984, n. 5259) e penale (ex
multis, Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 12 settembre 2007, n. 34432) sulla base dei
criteri tradizionali dell’interesse pubblico alla conoscenza della notizia, della verità di essa (ovvero, nel caso
di erroneo convincimento del giornalista relativa alla verità della notizia, nell’assenza di colpa nel controllo
delle fonti) e della cosiddetta continenza formale.
Un simile bilanciamento è divenuto ormai inadeguato, anche alla luce della copiosa giurisprudenza della
Corte EDU poc’anzi rammentata, che al di fuori di ipotesi eccezionali considera sproporzionata
l’applicazione di pene detentive, ancorché sospese o in concreto non eseguite, nei confronti di giornalisti che
abbiano pur illegittimamente offeso la reputazione altrui. E ciò in funzione dell’esigenza di non dissuadere,
per effetto del timore della sanzione privativa della libertà personale, la generalità dei giornalisti
dall’esercitare la propria cruciale funzione di controllo sull’operato dei pubblici poteri.
Ciò esige una rimodulazione del bilanciamento sotteso alla disciplina in questa sede censurata, in modo
da coniugare le esigenze di garanzia della libertà giornalistica, nel senso ora precisato, con le altrettanto
pressanti ragioni di tutela effettiva della reputazione individuale delle vittime di eventuali abusi di quella
libertà da parte dei giornalisti; vittime che sono oggi esposte a rischi ancora maggiori che nel passato. Basti
pensare, in proposito, agli effetti di rapidissima e duratura amplificazione degli addebiti diffamatori
determinata dai social networks e dai motori di ricerca in internet, il cui carattere lesivo per la vittima – in
termini di sofferenza psicologica e di concreti pregiudizi alla propria vita privata, familiare, sociale,
professionale, politica – e per tutte le persone a essa affettivamente legate risulta grandemente potenziato
rispetto a quanto accadeva anche solo in un recente passato.
8.– Un simile, delicato bilanciamento spetta in primo luogo al legislatore, sul quale incombe la
responsabilità di individuare complessive strategie sanzionatorie in grado, da un lato, di evitare ogni indebita
intimidazione dell’attività giornalistica; e, dall’altro, di assicurare un’adeguata tutela della reputazione
individuale contro illegittime – e talvolta maliziose – aggressioni poste in essere nell’esercizio di tale
attività. Il legislatore, d’altronde, è meglio in grado di disegnare un equilibrato sistema di tutela dei diritti in
gioco, che contempli non solo il ricorso – nei limiti della proporzionalità rispetto alla gravità oggettiva e
soggettiva dell’illecito – a sanzioni penali non detentive nonché a rimedi civilistici e in generale riparatori
adeguati (come, in primis, l’obbligo di rettifica), ma anche a efficaci misure di carattere disciplinare,
rispondendo allo stesso interesse degli ordini giornalistici pretendere, da parte dei propri membri, il rigoroso
rispetto degli standard etici che ne garantiscono l’autorevolezza e il prestigio, quali essenziali attori del
sistema democratico. In questo quadro, il legislatore potrà eventualmente sanzionare con la pena detentiva le
condotte che, tenuto conto del contesto nazionale, assumano connotati di eccezionale gravità dal punto di
vista oggettivo e soggettivo, fra le quali si iscrivono segnatamente quelle in cui la diffamazione implichi una
istigazione alla violenza ovvero convogli messaggi d’odio.
Il «compito naturale» di questa Corte è quello di verificare ex post, su sollecitazione dei giudici comuni,
la compatibilità delle scelte compiute dal legislatore con la Costituzione (ordinanza n. 207 del 2018) e,
mediatamente, con gli strumenti internazionali al cui rispetto l’ordinamento si è vincolato, sulla base dei
principi elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte. Un compito al quale anche in questa occasione
questa Corte non può e non intende sottrarsi, ma che – rispetto alle possibilità di intervento di cui dispone il
legislatore – sconta necessariamente la limitatezza degli orizzonti del devolutum e dei rimedi a sua
disposizione, che segnano il confine dei suoi poteri decisori; con il connesso rischio che, per effetto della
stessa pronuncia di illegittimità costituzionale, si creino lacune di tutela effettiva per i controinteressi in
gioco, seppur essi stessi di centrale rilievo nell’ottica costituzionale (per analoghe preoccupazioni, si veda
ancora l’ordinanza n. 207 del 2018).
Considerato allora che vari progetti di legge in materia di revisione della disciplina della diffamazione a
mezzo della stampa risultano allo stato in corso di esame avanti alle Camere, questa Corte ritiene opportuno,
in uno spirito di leale collaborazione istituzionale e nel rispetto dei limiti delle proprie attribuzioni, rinviare
la decisione delle questioni ora sottopostele a una successiva udienza, in modo da consentire al legislatore di
approvare nel frattempo una nuova disciplina in linea con i principi costituzionali e convenzionali sopra
illustrati.
Rimarranno nel frattempo sospesi anche i giudizi a quibus. Negli altri giudizi, spetterà ai giudici
valutare se eventuali questioni di legittimità costituzionale delle disposizioni in esame analoghe a quelle in
questa sede prospettate debbano parimenti essere considerate rilevanti e non manifestamente infondate alla
luce dei principi sopra enunciati, così da evitare, nelle more del giudizio di costituzionalità, l’applicazione
delle disposizioni censurate (sentenza n. 242 del 2019 e ordinanza n. 207 del 2018).
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
rinvia all’udienza pubblica del 22 giugno 2021 la trattazione delle questioni di legittimità costituzionale
sollevate dal Tribunale ordinario di Salerno, sezione seconda penale, e dal Tribunale ordinario di Bari,
sezione prima penale, con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 giugno 2020.
F.to:
Marta CARTABIA, Presidente
Francesco VIGANÒ, Redattore
Filomena PERRONE, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 26 giugno 2020.
Il Cancelliere
F.to: Filomena PERRONE
ALLEGATO:
ORDINANZA LETTA ALL’UDIENZA DEL 9 GIUGNO 2020
ORDINANZA
Ritenuto che, con ordinanza del 16 aprile 2019 (r.o. n. 149 del 2019) il Tribunale ordinario di Bari,
sezione prima penale, ha sollevato – con riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 10
della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) – questione di legittimità costituzionale dell’art. 13
della legge 8 febbraio 1948, n. 47 (Disposizioni sulla stampa), in combinato disposto con l’art. 595, terzo
comma, del codice penale, nella parte in cui punisce il delitto di diffamazione a mezzo stampa consistente
nell’attribuzione di un fatto determinato con la pena della reclusione da uno a sei anni, in via cumulativa e
non alternativa rispetto alla multa non inferiore a 258 euro;
che il 22 ottobre 2019 il Consiglio nazionale dell’ordine dei giornalisti (CNOG), in qualità di «titolare di
un interesse giuridico particolarmente qualificato, idoneo a fondare l’ammissibilità del suo intervento nel
giudizio costituzionale», ha depositato, nei termini, atto di intervento ad adiuvandum, senza peraltro
chiedere di essere autorizzato a prendere visione e trarre copia degli atti processuali.
Considerato che un identico atto di intervento del Consiglio nazionale dell’ordine dei giornalisti
(CNOG) è stato dichiarato ammissibile da questa Corte con ordinanza n. 37 del 2020, pronunciata nel
giudizio r.o. n. 140 del 2019, avente a oggetto questioni di legittimità costituzionale dell’art. 13 della legge 8
febbraio 1948, n. 47 (Disposizioni sulla stampa) e dell’art. 595, terzo comma, del codice penale e chiamato
per la discussione all’odierna udienza, congiuntamente al presente giudizio;
che, in detta ordinanza, la Corte ha ritenuto sussistente, in capo al CNOG, un interesse qualificato
legittimante l’intervento in giudizio, in relazione alla competenza disciplinare attribuita al Consiglio
medesimo dall’art. 20, primo comma, lettera d), dalla legge 3 febbraio 1963, n. 69 (Ordinamento della
professione di giornalista) ed esercitabile, ai sensi dell’art. 39 della medesima legge, in caso di condanna
penale, ove sussistano le condizioni di cui al successivo art. 48, primo comma;
che le argomentazioni svolte da questa Corte nella già citata ordinanza n. 37 del 2020 – da intendersi qui
integralmente richiamate – valgono anche in relazione all’intervento spiegato dal CNOG nel presente
giudizio;
che, contrariamente all’avviso espresso in udienza dall’Avvocatura dello Stato, l’ammissibilità
dell’intervento del terzo non può ritenersi condizionata alla circostanza che la parte del giudizio a quo si sia
costituita anche nel giudizio avanti alla Corte costituzionale, dal momento che l’interesse qualificato
all’intervento sussiste indipendentemente dalle scelte difensive assunte dalla parte del giudizio a quo;
che, dunque, l’intervento deve essere dichiarato ammissibile.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara ammissibile l’intervento del Consiglio nazionale dell’ordine dei giornalisti (CNOG).
F.to: Marta Cartabia, Presidente