Sentenza, Corte Suprema di Cassazione, V Sezione Penale, 23 luglio 2020, n. 22049, Creazione e uso falso di profilo Facebook – Reato di sostituzione di persona:

Secondo i giudici di legittimità, il reato di sostituzione di persona è integrato da colui che crea ed utilizza un profilo su social network, utilizzando abusivamente l’immagine di una persona del tutto inconsapevole, trattandosi di condotta idonea alla rappresentazione di una identità digitale non corrispondente al vero.

Corte Suprema di Cassazione, V Sezione Penale, 23 luglio 2020, n. 22049:

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PALLA Stefano – Presidente –
Dott. SETTEMBRE Antonio – Consigliere –
Dott. MICHELI Paolo – Consigliere –
Dott. SCORDAMAGLIA Irene – Consigliere –
Dott. RICCARDI Giuseppe – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Y.G.T., nato il (OMISSIS);
avverso la sentenza del 08/11/2019 della Corte di Appello di Messina;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere GIUSEPPE RICCARDI;
lette le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore
Epidendio Tomaso, che ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso;
lette le richieste del difensore, Avv. Anna Scarcella, che ha concluso ribadendo le
doglianze proposte e chiedendo l’accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo

Con sentenza emessa il 08/11/2019 la Corte di Appello di Messina ha confermato
la sentenza del Tribunale di Messina del 01/06/2018, che aveva condannato Y.G.T.
alla pena condizionalmente sospesa di due mesi e quindici giorni di reclusione per i
reati di cui agli artt. 595 e 494 c.p., per avere offeso la reputazione di C.E. a mezzo
internet, creando falsi profili Facebook rappresentati da foto caricaturali della stessa,
e inviandole insulti mediante messaggi, così attribuendo un falso nome.

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore di Y.G.T.,
Avv. Anna Scarcella, deducendo tre motivi di ricorso.
2.1. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 595 c.p.: contesta il
contenuto offensivo dei messaggi, sostenendo che la traduzione dell’interprete non
avesse dimostrato il tenore delle affermazioni contestate, con riferimento all’accusa
di prostituirsi; inoltre, il post asseritamente offensivo non proveniva dall’imputato, ma
era stato inviato dall’account M.C.A.; mancherebbe, infine, il requisito della
divulgazione a più persone, trattandosi di un messaggio privato, visibile dal solo
destinatario, e non essendo sufficiente la condivisione di profili di “amici” su
Facebook; in ogni caso, sussisterebbe la fattispecie di ingiuria, essendo tali
messaggi stati inviati alla stessa persona offesa.
2.2. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 494 c.p.: sostiene
che non sussista il reato, per la differenza tra l’immagine caricaturale e l’immagine
della persona a lei immediatamente riconducibile.
2.3. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 131 bis c.p..
Motivi della decisione

Il primo motivo di ricorso è inammissibile, perchè propone doglianze
eminentemente di fatto, che sollecitano, in realtà, una rivalutazione di merito
preclusa in sede di legittimità, sulla base di una “rilettura” degli elementi di fatto posti
a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al
giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera
prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle
risultanze processuali (Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone, Rv. 207944);
infatti, pur essendo formalmente riferite a vizi riconducibili alle categorie del vizio di
motivazione e della violazione di legge, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., sono in realtà
dirette a richiedere a questa Corte un inammissibile sindacato sul merito delle
valutazioni effettuate dalla Corte territoriale (Sez. U, n. 2110 del 23/11/1995, Fachini,
Rv. 203767; Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone, Rv. 207944; Sez. U, n. 24
del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794).
In particolare, con le censure proposte il ricorrente non lamenta una motivazione
mancante, contraddittoria o manifestamente illogica – unici vizi della motivazione
proponibili ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. e), ma una decisione erronea, in quanto
fondata su una valutazione asseritamente sbagliata in merito al contenuto offensivo
dei messaggi, alla provenienza degli stessi ed alla divulgazione.
Il controllo di legittimità, tuttavia, concerne il rapporto tra motivazione e decisione,
non già il rapporto tra prova e decisione; sicchè il ricorso per cassazione che devolva
il vizio di motivazione, per essere valutato ammissibile, deve rivolgere le censure nei
confronti della motivazione posta a fondamento della decisione, non già nei confronti
della valutazione probatoria sottesa, che, in quanto riservata al giudice di merito, è
estranea al perimetro cognitivo e valutativo della Corte di Cassazione.
Pertanto, nel rammentare che la Corte di Cassazione è giudice della motivazione,
non già della decisione, ed esclusa l’ammissibilità di una rivalutazione del
compendio probatorio, va al contrario evidenziato che la sentenza impugnata ha
fornito logica e coerente motivazione in ordine alla ricostruzione dei fatti, con
argomentazioni prive di illogicità (tantomeno manifeste) e di contraddittorietà.
Pacifico che la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una
bacheca “facebook” integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595
c.p., comma 3, sotto il profilo dell’offesa arrecata “con qualsiasi altro mezzo di
pubblicità” diverso dalla stampa, poichè la condotta in tal modo realizzata è
potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque
quantitativamente apprezzabile, di persone e tuttavia non può dirsi posta in essere
“col mezzo della stampa”, non essendo i social network destinati ad un’attività di
informazione professionale diretta al pubblico (Sez. 5, n. 4873 del 14/11/2016, dep.
2017, Manduca, Rv. 269090), le doglianze proposte sono altresì manifestamente
infondate.
Quanto alla provenienza dei messaggi, è stato accertato, mediante individuazione
degli indirizzi IP (Internet Protocol address) – il numero del datagramma che
identifica univocamente un dispositivo (c.d. host) collegato a una rete informatica
che utilizza l’Internet Protocol come protocollo di rete per l’instradamento/
indirizzamento – che i falsi profili “facebook” erano stati creati dall’imputato,
utilizzando due utenze mobili (OMISSIS) ed una fissa (OMISSIS) a lui intestate,
nonchè un’utenza fissa (OMISSIS) intestata a R.S., presso il quale Y. lavorava come
domestico.
Quanto al contenuto offensivo dei post pubblicati, il ricorso si limita a contestarlo
sulla base di una non consentita rivalutazione della traduzione dell’interprete,
peraltro calibrata soltanto sull’accusa di prostituzione, e senza confrontarsi con il
contenuto offensivo dei messaggi con cui la persona offesa veniva insultata come
“pescivendola”.
Infine, quanto al requisito della divulgazione, che non sussisterebbe in quanto
l’agente avrebbe inviato dei “messaggi” privati, visibili al solo destinatario, la
doglianza è manifestamente infondata, essendo stato accertato, anche sulla base
dell’acquisizione dei c.d. screenshot, che i messaggi offensivi erano stati divulgati
tramite i falsi profili facebook mediante pubblicazione di post visibili ai c.d. “amici” del
profilo, e non mediante invio di messaggi privati.
Altrettanto manifestamente infondata è la deduzione con cui si sostiene la
configurabilità dell’ingiuria, per essere stati i messaggi inviati direttamente alla
persona offesa; oltre a contraddire il tenore del ricorso, che, a p. 3, sostiene che il
destinatario del messaggio era la sorella della persona offesa, la sentenza
impugnata ha al riguardo chiarito che i post offensivi erano stati pubblicati sui profili
della sorella e del figlio della persona offesa.

Il secondo motivo è manifestamente infondato, in quanto il reato di sostituzione di
persona è integrato da colui che crea ed utilizza un profilo su social network,
utilizzando abusivamente l’immagine di una persona del tutto inconsapevole,
trattandosi di condotta idonea alla rappresentazione di una identità digitale non
corrispondente al soggetto che lo utilizza (Sez. 5, n. 33862 del 08/06/2018, R, non
massimata sul punto); secondo quanto precisato da Sez. 5, n. 25774 del
23/04/2014, Sarlo, Rv. 259303, integra il delitto di sostituzione di persona (art. 494
c.p.) la condotta di colui che crea ed utilizza un “profilo” su social network,
utilizzando abusivamente l’immagine di una persona del tutto inconsapevole,
associata ad un “nickname” di fantasia ed a caratteristiche personali negative, e la
descrizione di un profilo poco lusinghiero sul “social network” evidenzia sia il fine di
vantaggio, consistente nell’agevolazione delle comunicazioni e degli scambi di
contenuti in rete, sia il fine di danno per il terzo, di cui è abusivamente utilizzata
l’immagine.
Ciò posto, non rileva, ai fini dell’integrazione del reato, che, attraverso la sostituzione
di persona, sia stata divulgata una “immagine caricaturale” della persona offesa, che
rileva ai fini della integrazione, altresì, del reato di diffamazione, essendo sufficiente,
per la tipicità del delitto di cui all’art. 494 c.p., la illegittima sostituzione della propria
all’altrui persona, mediante creazione ed utilizzo di un falso profilo facebook.

Il terzo motivo, infine, è del tutto generico, limitandosi a contestare il diniego del
riconoscimento della causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis c.p. nonostante
l’asserito minimo disvalore sociale della condotta conseguente ad una “divulgazione
privata e non pubblica di tali espressioni sui social”; la doglianza, che sollecita ictu
oculi una non consentita rivalutazione del merito, non si confronta con la motivazione
della sentenza impugnata, che, oltre ad avere accertato il requisito della
divulgazione (di per sè “pubblica”), ha negato il riconoscimento dell’art. 131 bis c.p.
ritenendo, con apprezzamento di fatto immune da censure di illogicità, e dunque
insindacabile in sede di legittimità, che non ricorresse la particolare tenuità del
danno, in considerazione della persistenza della condotta criminosa per oltre un
mese, e della creazione di numerosi profili al solo scopo di arrecare danno alla
persona offesa.

Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue la condanna al
pagamento delle spese processuali e alla corresponsione di una somma di denaro in
favore della Cassa delle Ammende, somma che si ritiene equo determinare in Euro
3.000,00.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese del procedimento e della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa
delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 6 luglio 2020.
Depositato in Cancelleria il 23 luglio 2020