Sentenza,Corte di Cassazione, Sezione Unite, Penale, 29 luglio 2020, n. 23166, Retrodatazione della misura cautelare – Decorrenza:
In questa occasione, i giudici di legittimità hanno affrontato la seguente questione: “..se, in ipotesi di pluralità di ordinanze applicative di misure cautelari per fatti connessi, la retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare, di cui all’art. 297 c.p.p., comma 3, deve essere effettuata frazionando la durata globale della custodia cautelare, ed imputandovi solo i periodi relativi a fasi omogenee, oppure computando l’intera durata della custodia cautelare subita, anche se relativa a fasi non omogenee..”. Dopo aver analizzato entrambi i filoni giurisprudenziali vigenti, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, in virtù dei principi costituzionali di certezza, di predeterminazione per legge e di durata minima della custodia cautelare, hanno stabilito che la retrodatazione della decorrenza della misura cautelare deve essere computata facendo riferimento all’intero periodo di custodia cautelare subito, anche se relativo a fasi non omogenee. Ciò in quanto l’imputazione delle sole fasi omogenee, secondo la Corte di Cassazione, può comportare il superamento della durata minima della custodia cautelare. Ancora sul punto, la Corte chiarire l’ambito d’applicazione dell’art. 297, III co., c.p.p alle seguenti ipotesi: A) In caso di connessione qualificata, ossia concorso formale di reati, reato continuato e nesso teleologico tra reati; B) Nel caso in cui dagli atti del primo procedimenti siano desumibili fatti obiettivi idonei ad adottare diversi provvedimenti cautelari.
Corte di Cassazione, Sezione Unite, Penale, 29 luglio 2020, n. 23166:
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CARCANO Domenico – Presidente –
Dott. DI TOMASSI Mariastefania – Consigliere –
Dott. FIDELBO Giorgio – Consigliere –
Dott. DIOTALLEVI Giovanni – Consigliere –
Dott. VESSICHELLI Maria – Consigliere –
Dott. MOGINI Stefano – Consigliere –
Dott. ROCCHI Giacomo – rel. Consigliere –
Dott. DOVERE Salvatore – Consigliere –
Dott. ANDRONIO Alessandro M. – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
M.A., nato a (OMISSIS);
Avverso l’ordinanza del 15/11/2019 del Tribunale di Milano;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal componente Stefano Mogini;
udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale Finocchi Ghersi
Renato, che ha concluso per l’annullamento con rinvio dell’ordinanza impugnata;
uditi i difensori, Avvocati Valerio Vianello Accorretti e Gaetano Buondonno, che
hanno concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo
Con ordinanza del 15 novembre 2019, il Tribunale della libertà di Milano ha
confermato l’ordinanza con la quale il Giudice per le indagini preliminari di Milano, in
data 23 ottobre 2019, ha applicato a M.A. la misura cautelare della custodia in
carcere in relazione a condotte punite dagli artt. 110 e 81 c.p. e D.P.R. n. 309 del
1990, art. 73, comma 1. L’addebito cautelare si riferisce all’acquisto, nel corso di più
anni, di oltre cento chili di cocaina da R.L. e del successivo spaccio di tale sostanza
stupefacente, condotte poste in essere in (OMISSIS), in concorso con C.M., dal
(OMISSIS), data in cui il fornitore R.L. veniva arrestato.
Avverso la suddetta misura il M. ha proposto richiesta di riesame sostenendo che i
termini di durata dell’ordinanza cautelare emessa dal Giudice per le indagini
preliminari del Tribunale di Milano il 23 ottobre 2019 dovevano essere retrodatati alla
data di emissione di precedente misura cautelare adottata nei suoi confronti il 7
settembre 2018 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Monza, con
conseguente dichiarazione di inefficacia della seconda misura per decorrenza dei
termini massimi.
Nel procedimento pendente dinanzi all’autorità giudiziaria monzese M. era stato
sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere in relazione al delitto di cui
all’art. 110 c.p. e D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1, per avere, in concorso
con Ca.An., detenuto a fini di spaccio 4/5 chili di cocaina, di cui 1,5 chili sequestrati
all’interno di un box, sito in (OMISSIS) e nella disponibilità del Ca. al momento del
suo arresto, avvenuto il 3 ottobre 2016 in flagranza di reato.
In sede di riesame, M. sosteneva che la Procura della Repubblica di Monza, fin
dall’arresto del Ca. nell’ottobre 2016 e comunque dal 14 febbraio 2017, data nella
quale quell’Ufficio procedeva alla trasmissione degli atti dei procedimenti penali nn.
11478/16 e 13047/17 RGNR alla Procura della Repubblica di Milano, aveva avuto a
disposizione gli elementi per accertare il coinvolgimento del M. e il ruolo svolto dal R.
nel traffico di stupefacenti oggetto del procedimento milanese, dal che derivava la
ricorrenza dei presupposti per la retrodatazione richiesti dall’art. 297 c.p.p., comma
3, e l’intervenuto esaurimento dei termini massimi di custodia cautelare, con
conseguente sopravvenuta inefficacia della misura in esame.
Il Tribunale della libertà di Milano, dopo aver ricostruito lo svolgimento delle indagini
che avevano condotto all’adozione dell’ordinanza cautelare impugnata e pur non
specificando il capo di imputazione relativo al procedimento rimasto per competenza
alla Procura della Repubblica di Monza, dava atto che i reati oggetto della misura
cautelare emessa dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano e
quelli oggetto dell’ordinanza emessa dal Giudice per le indagini preliminari del
Tribunale di Monza erano “soggettivamente connessi e desumibili dagli atti prima del
momento in cui è intervenuto il rinvio a giudizio per i fatti oggetto della prima
ordinanza”.
Il Tribunale, nell’affermare l’esistenza dei presupposti della retrodatazione, rigettava
però la richiesta di riesame del ricorrente, richiamando l’orientamento maggioritario
della giurisprudenza di legittimità secondo cui la retrodatazione della decorrenza dei
termini della misura cautelare imporrebbe, per il computo dei termini di fase, di
frazionare la durata globale della custodia cautelare subita per prima, imputando alla
seconda misura solo i periodi relativi a fasi omogenee.
Più in particolare, il tribunale rilevava che i termini di fase non erano stati superati, in
quanto la prima ordinanza cautelare, emessa il 7 settembre 2018, non aveva
consumato l’intera durata annuale, posto che in data 12 dicembre 2018 il pubblico
ministero aveva richiesto il rinvio a giudizio, l’11 febbraio 2019 era stato disposto il
giudizio abbreviato e il 13 marzo 2019 era intervenuta sentenza di condanna; ne
conseguiva che alla seconda ordinanza cautelare poteva essere eventualmente
imputato il solo termine di fase relativo alle indagini preliminari – dal 7 settembre
2018 all’11 febbraio 2019 – e non l’intero periodo di detenzione subito dal ricorrente
con riguardo alla prima ordinanza cautelare.
Avverso l’ordinanza del Tribunale della libertà di Milano ha proposto ricorso M.A., il
quale con unico motivo ha dedotto violazione di legge processuale con riferimento
all’art. 297 c.p.p., comma 3. Al riguardo, il ricorrente ha invocato l’applicazione del
più recente orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui la
retrodatazione andrebbe calcolata sulla base dell’intero periodo di custodia cautelare
presofferto e non già limitandosi ad imputare unicamente i periodi relativi a fasi
omogenee. Ha quindi segnalato che la prima ordinanza cautelare è stata adottata il
7 settembre 2018, sicchè, applicando il principio della retrodatazione, alla data di
esecuzione della seconda ordinanza (23 ottobre 2019), doveva ritenersi già esaurito
il pertinente termine di fase.
La Quarta Sezione Penale, cui il ricorso è stato assegnato, con ordinanza n. 8546
depositata il 3 marzo 2020, ne ha rimesso la trattazione alle Sezioni Unite.
La Sezione rimettente ha segnalato il contrasto emerso nella giurisprudenza di
legittimità in ordine alle modalità con le quali operare la retrodatazione della
decorrenza dei termini della custodia cautelare prevista dall’art. 297 c.p.p., comma 3,
rilevando che secondo l’orientamento più risalente, cui nel caso di specie ha aderito
il tribunale del riesame, la retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia
cautelare impone, per il computo dei termini di fase, di frazionare la durata globale
della custodia cautelare, imputando solo i periodi relativi a fasi omogenee. Ha poi
ricordato che a tale orientamento si contrappone, consapevolmente, un indirizzo
interpretativo minoritario, secondo cui, in ipotesi di pluralità di ordinanze applicative
di misure cautelari per fatti connessi, la retrodatazione della decorrenza dei termini di
custodia cautelare, di cui all’art. 297 c.p.p., comma 3, non deve essere effettuata
frazionando la globale durata della custodia cautelare, bensì computando l’intera
custodia cautelare subita, anche se relativa a fasi non omogenee.
La questione è stata già oggetto di rimessione alle Sezioni Unite, tuttavia, in quel
caso, veniva dichiarata l’inammissibilità del ricorso (Sez. U, n. 48109 del 19 luglio
2018, Giorgi), sicchè la Quarta Sezione ha ritenuto necessario, sulla base del
rilevato contrasto, rimettere di nuovo alle Sezioni Unite la medesima questione.
Con decreto del 21 aprile 2020, il Primo Presidente Aggiunto ha assegnato il
ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione l’odierna udienza.
Con atto in data 27 aprile 2020 l’Avvocato Valerio Vianello Accorretti, difensore di
fiducia del ricorrente, ha ribadito le argomentazioni poste a base del ricorso.
Il 25 maggio 2020 l’Avvocato Generale ha depositato in Cancelleria articolate note
di udienza, con le quali ha motivato l’adesione del suo Ufficio all’indirizzo
interpretativo più recente tra quelli in contrasto. Con specifico riferimento ai
precedenti di legittimità e a plurime pronunce della Corte costituzionale in materia,
ha in primo luogo osservato che la fondamentale finalità dell’istituto della
retrodatazione è quello di evitare la dilatazione dei termini massimi di custodia che
potrebbe prodursi, in caso di “contestazioni a catena”, in ragione dell’episodico
concatenarsi di più fattispecie cautelari o di specifiche scelte del pubblico ministero,
malgrado la previa conoscibilità degli elementi alla base di diverse ordinanze
cautelari avrebbe dovuto comportare la loro emissione simultanea. Ha quindi
evidenziato che l’indirizzo interpretativo che impone, ai fini del calcolo dei termini di
fase, di frazionare la durata della custodia cautelare, imputandovi solo i periodi
relativi a fasi non omogenee, si pone in conflitto con la descritta ratio dell’istituto. Ha
infine rilevato che il tenore letterale dell’art. 297 c.p.p., comma 3, non prevede alcun
“frazionamento” della custodia presofferta secondo criteri di omogeneità delle fasi in
cui la stessa è stata subita e impone, ai fini del calcolo dei termini massimi di durata,
un semplice riallineamento del termine iniziale di efficacia della seconda ordinanza a
quello di esecuzione della prima.
Motivi della decisione
La questione rimessa all’esame delle Sezioni Unite può essere riassunta nei
seguenti termini: “Se, in ipotesi di pluralità di ordinanze applicative di misure
cautelari per fatti connessi, la retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia
cautelare, di cui all’art. 297 c.p.p., comma 3, deve essere effettuata frazionando la
durata globale della custodia cautelare, ed imputandovi solo i periodi relativi a fasi
omogenee, oppure computando l’intera durata della custodia cautelare subita, anche
se relativa a fasi non omogenee”.
Correttamente la Sezione rimettente ha registrato un contrasto interpretativo in
ordine alle modalità di calcolo dei termini di custodia cautelare allorchè, per effetto
della cosiddetta “contestazione a catena”, si renda necessario operare la
retrodatazione della loro decorrenza ai sensi dell’art. 297 c.p.p., comma 3.
2.1. Secondo la più risalente tesi maggioritaria, la retrodatazione della decorrenza
dei termini di custodia cautelare, ai sensi dell’art. 297 c.p.p., comma 3, andrebbe
eseguita frazionando la durata globale della custodia relativa alla prima misura ed
imputando alla seconda solo i periodi relativi a fasi omogenee, in tal modo
pervenendosi al computo dei termini di fase ed alla conseguente valutazione circa
l’avvenuto decorso del termine massimo (Sez. 6, n. 15736 del 06/02/2013, Guacho
Carpio, Rv. 257204; Sez. fer., n. 47581 del 21/08/2014, Di Lauro, Rv. 261262; Sez.
6, n. 50761 del 12/11/2014, Nespolino, Rv. 261700).
Le pronunce adesive a tale orientamento sottolineano concordemente che i termini
di durata delle misure cautelari si articolano in base ad una ripartizione per fasi
procedimentali. Non sarebbe quindi consentito cumulare periodi di custodia
cautelare afferenti a fasi disomogenee.
Argomentando in tal senso, si sostiene che in caso di contestazioni a catena ai sensi
dell’art. 297 c.p.p., comma 3, la retrodatazione dei termini di custodia cautelare della
seconda ordinanza andrebbe necessariamente operata sommando al periodo di
custodia già subito dall’indagato solo quello sofferto in base alla prima ordinanza
nella medesima fase.
Tale sistema di calcolo, definito anche come modalità “a scomputo” (Sez. 6, n.
15736 del 06/02/2013, Guacho Carpio, Rv. 257204), implicherebbe che, per
verificare l’avvenuta scadenza del termine di fase relativo alla seconda misura,
occorrerebbe in primo luogo calcolare la durata della custodia cautelare subita nella
medesima fase nel corso del primo procedimento; a tale periodo andrebbe poi
sommato il tempo di custodia subito in relazione alla seconda misura cautelare, per
poi verificare se la somma dei due periodi determini o meno il superamento del
termine di fase relativo a tale ultima misura.
2.2. A fronte dell’orientamento maggioritario, le più recenti pronunce di legittimità
intervenute in argomento hanno recepito una diversa soluzione.
Così, Sez. 6, n. 3058 del 28/12/2016, dep. 2017, Golia, Rv. 269285 si è
consapevolmente discostata dal criterio del computo dei termini per fasi omogenee
ed ha affermato l’opposto principio secondo cui “in ipotesi di pluralità di ordinanze
applicative di misure cautelari per fatti connessi, la retrodatazione della decorrenza
dei termini di custodia cautelare, di cui all’art. 297 c.p.p., comma 3, non deve essere
effettuata frazionando la globale durata della custodia cautelare ed imputandovi solo
i periodi relativi a fasi omogenee”.
In motivazione, la pronuncia in esame ha sottolineato come l’istituto della
“retrodatazione” vada letto alla stregua dei principi – più volte ribaditi dalla Corte
costituzionale, in particolare con le sentenze n. 233 del 2011 e n. 293 del 2013 –
secondo cui la “retrodatazione” mira ad evitare, in perfetta aderenza con i valori di
certezza e di “durata minima” della custodia cautelare, che la rigorosa
predeterminazione dei termini di durata massima delle misure cautelari possa essere
elusa tramite la diluizione nel tempo di più provvedimenti restrittivi nei confronti della
stessa persona, con il conseguente impedimento al contemporaneo decorso dei
termini relativi a plurimi titoli custodiali nei confronti del medesimo soggetto.
Mediante il ritardo nell’adozione della seconda ordinanza cautelare ed in assenza
del correttivo previsto dall’art. 297 c.p.p., comma 3, si determinerebbe l’indebita
espansione della restrizione complessiva della libertà personale dell’imputato,
tramite il “cumulo materiale” – totale o parziale – dei periodi di custodia afferenti a
ciascun reato. Effetto che non si verificherebbe, invece, qualora l’indagato, pur
versando nella medesima situazione sostanziale, fosse stato raggiunto da
provvedimenti cautelari coevi.
Sostiene la Sesta Sezione che poichè la finalità della retrodatazione consiste nel
riallineare fattispecie cautelari che, pur dovendo nascere in un unico contesto
temporale, si sono sviluppate in tempi successivi, tale risultato non sarebbe ottenuto
ove si procedesse solo alla sommatoria dei termini decorsi in fasi omogenee. Ciò
avrebbe per effetto che il periodo di custodia cautelare maturato nella fase delle
indagini preliminari per la seconda misura potrebbe cumularsi soltanto a quello
trascorso nella medesima fase per la prima misura, in tal modo potendosi
determinare, mediante frazionati passaggi di fase dei procedimenti, un’indebita
protrazione dei termini di durata della compressione della libertà personale oltre i
limiti che sarebbero conseguiti all’adozione congiunta dei due titoli custodiali.
Successive pronunce hanno condiviso il principio per cui solo computando l’intera
durata della custodia cautelare disposta per prima e prescindendo, quindi, dal
frazionamento per fasi omogenee, si realizza l’effettiva retrodatazione del termine di
durata relativo alla seconda misura cautelare e si attua la fondamentale garanzia
della libertà personale alla quale l’istituto è finalizzato (Sez. 6, n. 20305 del
30/03/2017, Sulka, n. m.; Sez. 4, n. 36088 del 6/06/2017, Gerbaj, Rv. 270759; Sez.
6, n. 21177 del 12/2/2019, Gorgoni, n. m.).
2.3. Rispetto agli orientamenti sopra esposti, si distinguono, per la specificità delle
argomentazioni svolte, alcune sentenze, incentrate non tanto sul profilo concernente
le modalità della “retrodatazione” e del computo dei termini di custodia cautelare che
ne consegue, bensì sull’effetto che determina sulla seconda ordinanza il passaggio
di fase verificatosi nel procedimento in cui è stata adottata la prima (Sez. 4, n. 21999
del 18/04/2013, Macrì, n. m.; Sez. 5, n. 17071 del 5/02/2014, Raso, n. m.; Sez. 4, n.
18111 del 2/03/2017, Futia, n. m.; Sez. 6, n. 22571 del 11/04/2017, Raso, Rv.
270060).
Pur aderendo al principio secondo cui ai fini del calcolo della “retrodatazione”
occorre frazionare la durata globale della custodia cautelare, imputando alla misura
adottata per seconda i soli periodi relativi a fasi omogenee, queste pronunce hanno
tuttavia ritenuto che tale sistema di calcolo sarebbe applicabile unicamente allorchè
entrambi i procedimenti nell’ambito dei quali le misure cautelari sono state emesse
versino nella medesima fase. Laddove il procedimento in cui è stata emessa la
prima misura cautelare sia passato a una fase successiva in costanza dell’efficacia
di tale misura, la ratio dell’istituto della contestazione a catena implicherebbe che la
misura da ultimo applicata non perda di efficacia quand’anche il procedimento cui
essa accede versi ancora nella fase antecedente.
La misura custodiale applicata per prima ed ancora efficace in conseguenza del
nuovo termine di fase, impedirebbe infatti di dichiarare l’inefficacia della misura
cautelare applicata per seconda, in quanto “l’effetto della retrodatazione conduce
alla assimilazione della misura cautelare retrodatata alla primigenia, come se fosse
stata emessa coevamente ad essa (così da eliminare il pregiudizio dell’indagato
della contestazione a catena, che lo avrebbe sottoposto ad un ingiusto aggiramento
dei termini massimi di custodia cautelare)” (così, testualmente, Sez. 4, Futia, cit.).
Da ciò conseguirebbe che la seconda ordinanza segue esattamente le sorti
procedimentali della prima e, dunque, intanto potrà essere dichiarata la perenzione
della ordinanza retrodatata in quanto i termini massimi di custodia cautelare afferenti
all’altra ordinanza siano effettivamente scaduti.
Tale indirizzo si distingue rispetto ai due orientamenti in precedenza esaminati
perchè affronta il problema della retrodatazione seguendo un percorso alternativo,
che non focalizza l’istituto sugli effetti meramente temporali derivanti dalla
anticipazione del termine di efficacia della misura adottata per ultima, ma propone
una totale assimilazione della seconda ordinanza alla prima, al punto che ad
entrambe si applicherebbero i termini – necessariamente più estesi – relativi al
procedimento per il quale si è già avuto il passaggio dalla fase delle indagini a quella
successiva.
Le Sezioni Unite ritengono condivisibile la soluzione prospettata dall’indirizzo
giurisprudenziale più recente, e attualmente minoritario, secondo il quale, in ipotesi
di pluralità di ordinanze applicative di misure cautelari per fatti connessi, la
retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare prevista all’art. 297
c.p.p., comma 3, non deve essere effettuata frazionando la globale durata della
custodia cautelare ed imputandovi solo i periodi relativi a fasi omogenee.
Fa propendere in tal senso, in primo luogo, il dato testuale.
La disposizione di cui all’art. 297 c.p.p., comma 3, è infatti chiara e recisa
nell’affermare che, in presenza delle condizioni ivi descritte, “i termini decorrono dal
giorno in cui è stata eseguita o notificata la prima ordinanza e sono commisurati
all’imputazione più grave”.
La norma è in sè compiuta, esclusivamente focalizzata sulla decorrenza dei termini
di custodia relativi alla seconda misura cautelare e suscettibile al riguardo di
immediata e autonoma applicazione. Essa non contiene alcuna indicazione circa la
necessità di procedere a ulteriori calcoli finalizzati alla sommatoria dei periodi di
custodia cautelare subiti in riferimento a ciascuna misura cautelare, né pone alcuna
preclusione circa l’imputazione di periodi di custodia relativi a fasi processuali
diverse. Tantomeno essa prevede o suggerisce che la retrodatazione debba operare
secondo modalità analoghe allo scomputo dalla pena detentiva del periodo di
custodia cautelare presofferto.
Al contrario, essa descrive un meccanismo basato sull’anticipazione, mediante una
fictio iuris, del termine iniziale di durata della seconda misura. Ciò che del resto
risulta perfettamente conforme alla nozione di “retrodatazione” nella quale viene, per
consuetudine, icasticamente riassunto il fenomeno in esame.
In definitiva, l’art. 297 c.p.p., comma 3, delinea un sistema che si sostanzia nella
mera sostituzione del termine iniziale di durata della misura adottata per ultima,
sicchè per calcolare il relativo termine di fase sarà sufficiente far riferimento al dies a
quo della prima misura. Il che non comporta una sommatoria dei periodi di custodia
afferenti alle due misure e non richiede una loro distinta considerazione a seconda
delle fasi processuali in cui la conseguente privazione di libertà si è prodotta.
Si tratta di un dato testuale che traccia con chiarezza la struttura stessa dell’istituto.
Significativo, a tal fine, è che la stessa sentenza delle Sezioni Unite Librato, la quale
pure sottolinea la differenza concettuale che connota il fenomeno della
retrodatazione nelle situazioni relative alla successione di ordinanze cautelari
adottate nello stesso procedimento, rispetto a quelle relative a procedimenti
connessi, conclude nel senso che anche nelle fattispecie diverse da quella tipica, in
cui si verifica una vera e propria sovrapposizione delle misure cautelari, si
determinano i medesimi effetti e si rende pertanto necessaria la rimodulazione della
durata di quella successiva mediante la regressione del suo termine iniziale.
Corretta e del tutto condivisibile deve pertanto ritenersi l’indicazione, proveniente
dalla più recente giurisprudenza di legittimità e dalla più attenta dottrina, secondo cui
la retrodatazione consiste nel “riallineamento” tra misure cautelari che, pur dovendo
essere coeve, sono state separatamente adottate, ovvero in uno “slittamento
all’indietro” della data di esecuzione del provvedimento cautelare successivo fino alla
data di esecuzione di quello iniziale.
Su tale dato testuale deve innestarsi una prima riflessione in ordine alla questione
devoluta. Al principio ermeneutico di non attribuire alla legge altro significato che
quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di
esse (art. 12 disp. gen., comma 1), non può, nella specie, che attribuirsi specifico
rilievo. L’analisi delle pronunce di legittimità che sostengono l’opposto e
maggioritario indirizzo, favorevole alla tesi del computo per fasi omogenee dei
periodi di custodia rilevanti a fini di retrodatazione delle misure cautelari, rivela infatti
che esse fanno sostanzialmente leva su richiami reciproci e motivazioni fondate
unicamente sulla forza dei precedenti conformi, limitandosi a sottolineare, senza
particolare presa sulla questione oggetto di contrasto, che i termini di durata delle
misure cautelari si articolano essenzialmente in una ripartizione per fasi processuali
e da ciò deducendo, in modo tanto automatico quanto apodittico, l’impossibilità del
computo di periodi custodiali relativi a fasi non omogenee.
L’orientamento giurisprudenziale minoritario appare inoltre l’unico compatibile con
i plurimi pronunciamenti della Corte costituzionale che hanno chiaramente delineato
ratio e finalità del meccanismo della retrodatazione.
Già con la sentenza n. 89 del 1996 la Corte costituzionale ha evidenziato che lo
scopo dell’istituto in esame è quello di “comprimere entro spazi sicuri il termine di
durata massima delle misure cautelari, in perfetta aderenza con quanto previsto
dall’art. 13 Cost., u.c.”, al fine di impedire “la diluizione dei termini in ragione
dell’episodico concatenarsi di più fattispecie cautelari”. In quell’occasione, la Corte
costituzionale non mancò di rilevare come l’ancoraggio della retrodatazione ad
ipotesi che presentano “elementi di correlazione contenutistica” – quali sono l’identità
del fatto cautelare o i casi di connessione qualificata delineati all’art. 297 c.p.p.,
comma 3, – risponde “alla avvertita esigenza di configurare limiti obiettivi e ineludibili
alla durata dei provvedimenti che incidono sulla libertà personale e ciò con
particolare riferimento alla fase delle indagini preliminari, la quale, per essere affidata
alle iniziative investigative del pubblico ministero, mal si presta a controlli successivi
sul sempre opinabile terreno della tempestività delle relative acquisizioni”.
Tale indifferibile esigenza di garanzia in merito alla certezza della durata della
custodia cautelare rappresenta del resto il motivo conduttore della giurisprudenza
della Corte costituzionale in materia di contestazioni a catena e retrodatazione.
La sentenza n. 408 del 2005 ha ribadito che “in una cornice normativa, quale è
quella dianzi delineata, attenta a calibrare l’intera disciplina dei termini di durata delle
misure limitative della libertà personale, e di quelle custodiali in particolare, sulla
falsariga dei valori della adeguatezza e proporzionalità, nessuno spazio può
residuare in capo agli organi titolari del “potere cautelare” di scegliere il momento a
partire dal quale possono essere fatti decorrere i termini custodiali in caso di pluralità
di titoli e di fatti reato cui esse si riferiscono. Se dunque il legislatore, in perfetta
aderenza con i valori di certezza e di “durata minima” della custodia cautelare (v. art.
13 Cost., comma 1 e u.c., nonchè art. 5, comma 3, Convenzione Europea dei diritti
dell’uomo), ha ritenuto di dover stabilire… meccanismi legali di retrodatazione
automatica dei termini, in presenza di certe condizioni, nel caso in cui tra i diversi
titoli sussista l’indicato nesso di connessione qualificata, a fortiori l’identico regime di
garanzia dovrà operare in tutti i casi in cui, pur potendo i diversi provvedimenti
coercitivi essere adottati in un unico contesto temporale, per qualsiasi causa
l’autorità giudiziaria abbia invece prescelto momenti diversi per l’adozione delle
singole ordinanze. La durata della custodia viene così a dipendere non da un fatto
obiettivo (rispettoso, dunque, del canone dell’eguaglianza e della ragionevolezza),
quale quello degli elementi idonei e sufficienti per adottare i diversi elementi
cautelari, ma da un’imponderabile valutazione soggettiva dei titolari del potere
cautelare”.
Il Collegio rileva che i medesimi accenti si colgono del resto nella giurisprudenza
della Corte EDU. La Corte di Strasburgo ha infatti ripetutamente affermato che l’art.
5, p. 1 della Convenzione EDU (secondo cui “Ogni persona ha diritto alla libertà e
alla sicurezza. Nessuno può essere privato della libertà, se non nei casi seguenti e
nei modi previsti dalla legge”) ha primario rilievo tra i diritti fondamentali che
proteggono la sicurezza fisica dell’individuo e che il suo scopo è quello di prevenire
limitazioni della libertà arbitrarie e ingiuste (Corte EDU, 8/4/2004, Assanidze c.
Georgia, p. 171; Ilascu e altri c. Moldavia e Russia, 8/7/2004, p. 461; Buzadji c.
Moldavia, 5/7/2016, p. 84). Essa ha poi precisato che se l’espressione “nei modi
previsti dalla legge” contenuta nell’art. 5 p. 1 della Convenzione EDU rinvia alle leggi
nazionali e stabilisce l’obbligo di conformarsi ad esse, cosicchè, di norma, spetta
innanzitutto ai giudici nazionali interpretare e applicare la legge interna, tuttavia, la
situazione è diversa ove il mancato rispetto della legge comporti di per sè una
violazione della Convenzione. In tali casi, infatti, la Corte EDU deve verificare se la
legge interna sia stata effettivamente osservata (Corte EDU, Baranowski c. Polonia,
28/3/2000, p. 50; Creang’à c. Romania, 23/2/2012, p. 101) e la detenzione deve
considerarsi “arbitraria” tutte le volte in cui, nonostante essa appaia rispettosa della
lettera della legge, vi sia stata mala fede o raggiro da parte delle autorità (Corte
EDU, Bozano c. Francia, 18 dicembre 1986; donka c. Belgio, 5/2/2002; Saadi c.
Regno Unito, 28/1/2008, p.p. 68 e 69; S., V. e A. c. Danimarca, 22 ottobre 2018, p.
76). Ipotesi questa che la Corte EDU ha da ultimo ritenuto integrata nella scelta del
pubblico ministero il quale, essendo a conoscenza sin dalla prima iscrizione di tutte
le condotte ascritte all’imputato – poste in essere nel medesimo contesto spaziotemporale e tra loro connesse – aveva dapprima tenuto separati i relativi
procedimenti e, quindi, presentato una seconda richiesta cautelare alla scadenza del
termine massimo di durata relativo alla prima misura, procedendo infine alla riunione
di tutti i procedimenti a quello originario. Secondo la Corte, tale strumentale
separazione dei procedimenti, posta in essere all’evidente scopo di prolungare il
termine massimo di custodia stabilito dalla legge, costituisce prova di mala fede da
parte delle autorità, cosicchè il periodo di custodia successivo alla scadenza del
termine massimo di durata relativo alla prima misura cautelare deve, secondo l’art. 5
p. 1 della Convenzione EDU, considerarsi arbitrario (Corte E.D.U., 26 maggio 2020,
I.E. c. Moldavia).
Particolare rilievo assumono inoltre le considerazioni svolte dalla Corte
costituzionale nella sentenza n. 233 del 2011, che ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale dell’art. 297 c.p.p., comma 3, nella parte in cui non prevede che la
retrodatazione operi anche qualora, per i fatti contestati con la prima ordinanza,
l’imputato sia stato condannato con sentenza passata in giudicato anteriormente
all’adozione della seconda misura. Dopo aver constatato che il nucleo di disvalore
del fenomeno delle “contestazioni a catena” risiede nell’impedimento del
contemporaneo decorso dei termini di durata relativi a plurimi titoli custodiali emessi
nei confronti del medesimo soggetto per lo stesso fatto o per fatti diversi commessi
anteriormente all’emissione della prima ordinanza e tra loro avvinti da connessione
qualificata, la Corte costituzionale ha sottolineato che, in mancanza dell’effetto
correttivo della retrodatazione, il ritardo nell’adozione della seconda ordinanza
cautelare determina l’espansione della restrizione complessiva della libertà
personale dell’imputato per effetto del “cumulo materiale” dei periodi afferenti a
ciascun reato. Da ciò conseguendo la sostanziale elusione dei termini di durata
massima delle misure cautelari imposta dall’art. 13 Cost., u.c., e una posizione
cautelare dell’interessato deteriore rispetto a quella che si sarebbe prodotta a
seguito dell’adozione di provvedimenti custodiali coevi.
Proprio perchè il meccanismo della retrodatazione serve a garantire l’effettivo
rispetto dei valori di certezza e “durata minima” della custodia cautelare a fronte del
rischio di diluizione dei termini che potrebbe conseguire “dall’episodico concatenarsi
di più fattispecie cautelari” o “da un’imponderabile valutazione soggettiva dei titolari
del potere cautelare”, appare chiaro che tale finalità può essere realizzata solo
correlando il periodo di retrodatazione all’entità complessiva della custodia sofferta. Il
risultato non sarebbe infatti ottenuto, come perspicuamente rilevato dalle decisioni
che si annoverano nel più recente e minoritario tra gli orientamenti giurisprudenziali
in contrasto, ove la retrodatazione consistesse non già nella regressione del termine
iniziale di durata della seconda misura a quello di esecuzione della prima, bensì
nella mera sommatoria dei termini decorsi per entrambe le ordinanze cautelari in fasi
omogenee. In tal modo, l’adozione frazionata delle ordinanze e l’accorta graduazione
dei passaggi di fase dei relativi procedimenti renderebbe possibile un allungamento
dei termini complessivi di custodia rispetto a quelli che sarebbero conseguiti alla
coeva adozione dei provvedimenti cautelari.
Il meccanismo della retrodatazione risulterebbe così permeabile all’incidenza di
fattori non predeterminati in ordine alla durata della custodia cautelare. Sarebbe
infatti agevole aggirare il divieto di contestazioni a catena mediante il frazionamento
delle iniziative cautelari e mirate scelte procedimentali del pubblico ministero. In
particolare, l’adozione della prima misura cautelare in prossimità del passaggio di
fase, così da far per essa decorrere un periodo custodiale “di fase” ridotto,
impedirebbe il cumulo di termini non omogenei per la misura cautelare adottata per
ultima, la cui durata verrebbe così artificiosamente prolungata.
Si produrrebbero pertanto proprio i risultati elusivi dei termini di durata massima delle
misure cautelari che l’istituto della retrodatazione – in piena aderenza ai principi
costituzionali di certezza, predeterminazione per legge e “durata minima” della
custodia cautelare – mira ad evitare. Sicchè la stessa finalità del meccanismo in
esame verrebbe ad essere contraddetta e negata.
La sentenza della Corte costituzionale n. 233 del 2011 appare di rilevante
interesse anche là dove afferma la compatibilità tra l’istituto della retrodatazione e il
computo, previsto dall’art. 657 c.p.p., comma 1, della custodia cautelare subita per la
prima misura ai fini della determinazione della pena detentiva da eseguire in
conseguenza del passaggio in giudicato, anteriormente all’adozione del secondo
provvedimento cautelare, della relativa sentenza. Nel riferirsi alla decisione delle
Sezioni Unite che aveva ritenuto la retrodatazione incompatibile col meccanismo di
imputazione del presofferto cautelare alla pena detentiva da espiare (Sez. U, n.
20780 del 23/4/2009, Iaccarino, Rv. 243322), la Corte costituzionale ha infatti
escluso che la “coesistenza tra le misure cautelari rappresenti, sul piano logicogiuridico, un presupposto necessario affinchè si producano le conseguenze lesive
che il meccanismo della retrodatazione tende a scongiurare” ed ha
conseguentemente ritenuto che l’operatività del regime di garanzia è vieppiù
necessaria “allorchè il secondo titolo – anzichè sovrapporsi, per un periodo più o
meno lungo, al primo, confluendo così, almeno in parte, in un unico “periodo
custodiale” – sia adottato quando il precedente ha già esaurito completamente le sue
potenzialità, con conseguente cumulo integrale dei due periodi di privazione della
libertà personale”.
La Corte costituzionale ha quindi chiarito che l’espressa previsione dell’art. 297
c.p.p., comma 5, secondo periodo, secondo la quale “ai soli effetti del computo dei
termini di durata massima, la custodia cautelare si considera compatibile con lo stato
di detenzione per esecuzione di pena”, comporta che, dopo il passaggio in giudicato
della sentenza di condanna per il reato contestato con la prima ordinanza, nel
computo del termine della custodia cautelare applicata con la seconda ordinanza si
deve comunque tenere conto anche del periodo nel quale la misura in questione si è
sovrapposta all’esecuzione della pena per il primo reato. Per la Corte costituzionale
tale disposizione “rende palese come, se la custodia cautelare riguarda un reato
diverso da quello oggetto della condanna irrevocabile, il passaggio alla fase
esecutiva – e dunque anche l’ipotizzato fenomeno di “trasformazione” della custodia
già sofferta in espiazione di pena, a seguito della regola di detrazione prevista
dall’art. 657 c.p.p., comma 1, – non precluda l’operatività dell’art. 303 c.p.p. e, quindi,
la rilevanza del decorso dei termini da esso previsti – per il reato ancora da
giudicare”. Sicchè, “anche nell’evenienza considerata sussiste, dunque, l’esigenza di
prevenire possibili fenomeni di aggiramento dei termini massimi di custodia”.
Pur non essendosi la Corte costituzionale pronunciata sul quesito sottoposto ad
esame, appare peraltro evidente che, nel momento in cui la retrodatazione viene
riferita alla data di esecuzione della misura cautelare adottata in un procedimento già
definito con sentenza passata in giudicato, almeno parte del periodo di custodia
relativo a tale prima misura possa essere stato subito nel corso del relativo giudizio
e, quindi, in una fase diversa da quella in cui è stato adottato, dopo il passaggio in
giudicato della sentenza relativa alla prima ordinanza, il secondo provvedimento
cautelare.
Inoltre, essendo stata riconosciuta l’operatività della retrodatazione in riferimento a
periodi di custodia cautelare suscettibili di essere scomputati – ai sensi dell’art. 657
c.p.p., comma 1, – dalla pena detentiva da eseguire, a maggior ragione la
retrodatazione dovrebbe operare rispetto a periodi di custodia cautelare che, pur
relativi a fasi procedimentali diverse, si collocano tutti a monte del giudicato.
Risulta dunque evidente la presa di distanza della Corte costituzionale dalla
necessità, predicata dal più risalente degli orientamenti oggetto del segnalato
contrasto, che il calcolo della retrodatazione rispetti l’omogeneità dei termini di fase.
Ad analoga conclusione conducono le considerazioni sviluppate dalla Corte
costituzionale con la sentenza n. 229 del 2005, che ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale dell’art. 303 c.p.p., comma 2, nella parte in cui non consente di
computare nei termini di durata massimi di fase di cui all’art. 304 c.p.p., comma 6, i
periodi di custodia cautelare sofferti in fasi o in gradi diversi dalla fase o dal grado in
cui il procedimento è regredito.
Di specifico rilievo per la soluzione della questione in esame deve, in particolare,
ritenersi il passaggio in cui la Corte costituzionale precisa che “proporzionalità e
ragionevolezza stanno alla base del principio secondo cui, in ossequio al favor
libertatis che ispira l’art. 13 Cost., deve comunque essere scelta la soluzione che
comporta il minor sacrificio della libertà personale”, poichè “la tutela della libertà
personale che si realizza attraverso i limiti massimi di custodia voluti dall’art. 13
Cost., comma 5, è… un valore unitario e indivisibile, che non può subire deroghe o
eccezioni riferite a particolari e contingenti vicende processuali, ovvero desunte da
una ricostruzione dell’attuale sistema processuale che non consenta di tenere conto,
ai fini della garanzia del termine massimo finale di fase, dei periodi di custodia
cautelare “comunque” sofferti nel corso del procedimento”.
Da un lato, dunque, la Corte costituzionale ribadisce che l’imprescindibile garanzia
del rispetto dei termini massimi di durata della custodia cautelare e del “valore
unitario” rappresentato dalla tutela della libertà personale richiede la valutazione di
periodi di custodia cautelare sofferti in fasi non omogenee, a prescindere dalle
contingenze processuali. Dall’altro, segnala con chiarezza che, tra più possibili
opzioni interpretative, deve preferirsi quella che comporta il minor sacrificio della
libertà personale. Anche sotto questo profilo, l’orientamento giurisprudenziale
minoritario e più recente deve ritenersi preferibile, poichè più favorevole per la
persona soggetta a custodia e il solo in grado di fornire una ricostruzione dell’istituto
della retrodatazione conforme al dettato costituzionale.
Occorre peraltro ribadire che, nella verifica della scadenza dei termini di custodia
per effetto della retrodatazione di cui all’art. 297 c.p.p., comma 3, permane, come
testualmente affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 233 del 2011,
“l’assolutamente ovvia impossibilità di tenere conto del periodo nel quale il soggetto
è tornato in libertà”.
Si tratta di una conclusione del tutto logica e compatibile con la descritta ratio della
retrodatazione: se l’istituto è finalizzato a “riallineare” vicende cautelari che
dovevano avere un contestuale avvio, non può ignorarsi che, nei periodi durante i
quali, per qualsiasi ragione, si sia prodotta l’interruzione della custodia, l’indagato
non ha subito alcun pregiudizio alla propria libertà personale e, quindi, viene meno la
corrispondente esigenza di tutela (Sez. 2, n. 7227 del 11/1/2007, Iannelli, Rv.
235936; Sez. 1, n. 4719 del 28/10/2010 (dep. 2011), Spinelli, Rv. 249905).
Resta, infine, da aggiungere che l’operata ricostruzione della struttura e della
ratio dell’istituto della retrodatazione induce ad escludere la fondatezza dell’ulteriore
indirizzo giurisprudenziale secondo il quale la misura custodiale applicata per prima,
ed ancora efficace in conseguenza dell’intervenuto passaggio di fase, impedirebbe
di dichiarare l’inefficacia della seconda misura dello stesso tipo, la retrodatazione
comportando una completa assimilazione della misura retrodatata alla primigenia,
come se entrambe fossero coeve ed emesse nel primo procedimento.
Tale orientamento non tiene conto infatti che la struttura dell’istituto della
retrodatazione consiste nel mero riallineamento del termine di efficacia della misura
da retrodatare alla data di esecuzione o notificazione della prima ordinanza
cautelare, e non già in una vera e propria unificazione dei due successivi titoli
cautelari.
Le molteplici sentenze della Corte costituzionale e delle Sezioni Unite di cui si è dato
conto, hanno sempre esaminato l’istituto della retrodatazione, insieme alla dottrina,
mantenendo fermo il principio per cui le due ordinanze cautelari (e i relativi
procedimenti) rimangono distinte e ciascuna segue la propria sorte, senza che la
proroga dei termini dell’una possa influire sull’altra, se non in senso favorevole
all’interessato.
Diversamente opinando, l’effetto di garanzia dell’istituto sarebbe svuotato. Di regola,
si applicherebbe infatti alla misura da retrodatare un termine di fase più lungo,
perchè relativo al dibattimento. Mentre la durata massima della seconda misura
custodiale, lungi dall’essere fissata a termini certi e predeterminati per legge,
rimarrebbe esposta alle “contingenti vicende” relative al primo procedimento.
Va quindi enunciato il seguente principio di diritto: “La retrodatazione della
decorrenza dei termini di custodia cautelare di cui all’art. 297 c.p.p., comma 3,
deve essere effettuata computando l’intera durata della custodia cautelare
subita, anche se relativa a fasi non omogenee”.
La soluzione del ricorso e l’applicazione al caso in esame del principio di diritto
appena enunciato richiedono la preliminare verifica della correttezza giuridica e
dell’effettiva congruenza della giustificazione offerta dal Tribunale del riesame in
ordine alla ritenuta sussistenza, nel caso di specie, dei presupposti normativi
necessari, ai sensi dell’art. 297 c.p.p., comma 3, per la retrodatazione della seconda
ordinanza cautelare emessa nei confronti del ricorrente.
A tal proposito, questa Corte ha chiarito più volte che tanto l’esistenza della
connessione rilevante ex art. 297 c.p.p., comma 3, (Sez. 1, n. 22681 del 27/05/2008,
Caniello, Rv. 240099), quanto la desumibilità dagli atti del primo procedimento degli
elementi idonei e sufficienti per adottare i diversi provvedimenti cautelari (Sez. 6, n.
12676 del 20/12/2006, dep. 2007, Barresi, Rv. 236829) costituiscono quaestiones
facti, la cui valutazione è riservata ai giudici di merito ed è sindacabile dal giudice di
legittimità esclusivamente sotto il profilo della logicità e coerenza descrittiva delle
emergenze processuali e probatorie, nonchè della congruenza e non
contraddittorietà delle relative analisi e dei pertinenti passaggi argomentativi.
Nel caso di specie, questo sindacato deve essere esercitato a partire dai seguenti
elementi e parametri.
Va in primo luogo rilevato che le due ordinanze con le quali è stata applicata a M.A.
la misura cautelare della custodia in carcere sono state emesse da due autorità
giudiziarie diverse nell’ambito di due distinti procedimenti penali riguardanti fatti di
traffico di stupefacenti anch’essi diversi e distinti: il primo, oggetto del procedimento
condotto dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Monza, è relativo alla
detenzione a fini di spaccio da parte del ricorrente di 4/5 chili di cocaina in
(OMISSIS), in concorso con Ca.An.Vi., arrestato in flagranza di reato in data 3
ottobre 2016; il secondo, cui si riferiscono le indagini condotte dalla Procura della
Repubblica presso il Tribunale di Milano, nell’ambito del presente procedimento,
concerne invece il continuativo acquisto da R.L. di consistenti partite settimanali di
cocaina per un quantitativo totale di oltre 110 chili, in (OMISSIS) nel periodo dal
febbraio 2012 all’aprile 2017, in concorso con C.M..
E’ inoltre opportuno ricordare, con specifico riferimento ai testè descritti contorni del
caso in esame, che in tema di “contestazione a catena”, quando nei confronti di un
imputato sono emesse in procedimenti diversi più ordinanze cautelari per fatti diversi
in relazione ai quali esiste una connessione qualificata, la retrodatazione prevista
dall’art. 297 c.p.p., comma 3, opera per i fatti desumibili dagli atti prima del rinvio a
giudizio nel procedimento in cui è stata emessa la prima ordinanza. Nel caso in cui
le ordinanze cautelari adottate in procedimenti diversi riguardino invece fatti tra i
quali non sussiste la suddetta connessione e gli elementi giustificativi della seconda
erano già desumibili dagli atti al momento della emissione della prima, i termini della
seconda ordinanza decorrono dal giorno in cui è stata eseguita o notificata la prima,
solo se i due procedimenti sono in corso davanti alla stessa autorità giudiziaria e la
loro separazione può essere frutto di una scelta del pubblico ministero, sicchè la
regola della retrodatazione concerne normalmente misure adottate nello stesso
procedimento e può applicarsi a misure disposte in un procedimento diverso solo
nelle ipotesi testè indicate (Sez. U, n. 14535 del 19/12/2006, dep. 2007, Librato, Rv.
235909; Sez. U, n. 21957 del 22/03/2005, Rahulia, Rv. 231058).
Da ciò consegue che nel caso di specie, trattandosi di procedimenti pendenti dinanzi
a uffici giudiziari diversi, la retrodatazione della seconda ordinanza non potrebbe
operare in mancanza dell’effettiva sussistenza dell’invocata connessione qualificata
tra i fatti oggetto dei due provvedimenti cautelari. Come puntualmente osservato
dalle Sezioni Unite nella sentenza Librato, “la diversità delle autorità giudiziarie
procedenti indica una diversità di competenza, e fa ritenere che i procedimenti non
avrebbero potuto essere riuniti e che quindi la sequenza dei provvedimenti cautelari
non è il frutto di una scelta per ritardare la decorrenza della seconda misura. Se la
competenza appartiene a giudici diversi, il primo non ha ragione di disporre una
misura cautelare per fatti di competenza del secondo, anche perchè, a norma
dell’art. 291 c.p.p., comma 2, il giudice incompetente è tenuto a disporre la misura
cautelare nel solo caso in cui “sussiste l’urgenza di soddisfare taluna delle esigenze
cautelari previste dall’art. 274 c.p.p.”, e questa urgenza manca se il giudice riesce a
soddisfare le esigenze cautelari disponendo la misura per i fatti di propria
competenza”.
Deve essere altresì ribadito che i casi di connessione rilevanti a fini di retrodatazione
sono, ai sensi dell’art. 297 c.p.p., comma 3, solo quelli di concorso formale di reati,
reato continuato e nesso teleologico tra reati commessi per eseguire gli altri, previsti
all’art. 12 c.p.p., comma 1, lett. b) e c).
E’ peraltro pacifica l’anteriorità dei fatti oggetto della seconda ordinanza emessa nei
confronti del ricorrente rispetto alla data in cui è stata adottata la prima.
Alla stregua di quanto precede, il percorso argomentativo seguito dal Tribunale
del riesame per affermare la sussistenza dei presupposti normativi della
retrodatazione della seconda misura custodiale applicata al ricorrente deve ritenersi
radicalmente viziato sotto diversi, autonomi profili, rilevabili d’ufficio da questa Corte
ai sensi dell’art. 609 c.p.p., comma 2.
In primo luogo, il Tribunale individua in maniera errata la connessione idonea, ai
sensi dell’art. 297 c.p.p., comma 3, a determinare la retrodatazione dei termini di
custodia cautelare relativi alla misura disposta a carico del ricorrente con la seconda
ordinanza. Il provvedimento impugnato si riferisce infatti ad una imprecisata
“connessione soggettiva” che – evocando la mera riferibilità al M. di tutti i fatti a lui
contestati, peraltro in concorso con diversi compartecipi, nei due procedimenti in cui
egli è stato sottoposto a cautela – non rientra in alcuno dei casi di connessione
qualificata tassativamente richiamati nel citato art. 297 e si rivela pertanto neutra ai
fini della disposta retrodatazione.
Ciò si accompagna al carattere fittizio e apparente della motivazione dell’ordinanza
impugnata in ordine alla ritenuta sussistenza della connessione qualificata tra i fattireato oggetto dei due procedimenti rilevante ai fini di retrodatazione ai sensi del
citato art. 297, comma 3. Il Tribunale afferma infatti l’esistenza di tale connessione in
modo del tutto generico e apodittico, senza dimostrarne i necessari presupposti.
Il provvedimento impugnato non offre, in particolare, alcuna giustificazione né in
riferimento alla configurabilità di un concorso formale di reati, peraltro all’apparenza
resa problematica dallo stesso tenore delle contestazioni, relative a plurime e
diverse condotte, né circa l’esistenza di un medesimo disegno criminoso idoneo a
unificare quelle condotte delittuose sotto il vincolo della continuazione, né, infine, in
ordine ad un eventuale nesso teleologico tra quei reati, per il quale gli uni sarebbero
stati commessi per eseguire gli altri; essendo solo questi, come si è visto, i casi di
connessione richiamati dall’art. 297 c.p.p., comma 3.
Va a tal proposito evidenziato che ai fini della configurabilità dell’istituto della
continuazione rilevante ex art. 12 c.p.p., lett. b) è necessaria la prova che i reati
siano stati concepiti e portati ad esecuzione nell’ambito di un unico programma
criminoso, il quale non deve essere confuso con la sussistenza di una concezione di
vita improntata al crimine e dipendente dagli illeciti guadagni che da esso possono
scaturire. Sicchè, a tal fine, non rileva il generico programma di guadagno e
arricchimento attraverso lo spaccio di sostanza stupefacente, poichè, in tal caso, la
reiterazione della condotta criminosa è espressione di un programma di vita
improntata al crimine e che dal crimine intende trarre sostentamento, come tale
penalizzata da istituti quali la recidiva, l’abitualità, la professionalità nel reato e la
tendenza a delinquere, secondo un diverso ed opposto parametro rispetto a quello
sotteso all’istituto della continuazione, preordinato al “favor rei” (Sez. 5, n. 10917 del
12/01/2012, Abbassi, Rv. 252950).
Va altresì segnalato che, secondo una consolidata giurisprudenza di legittimità, la
connessione per continuazione di cui all’art. 12 c.p.p., lett. b), rileva
processualmente solo se sia riferibile ad una fattispecie monosoggettiva o ad una
fattispecie concorsuale in cui l’identità del disegno criminoso sia comune a tutti i
compartecipi (Sez. 1, n. 24718 del 22/05/2008, Molinaro, Rv. 240806), poichè
l’interesse di un imputato alla trattazione unitaria di fatti in continuazione non può
pregiudicare quello del coimputato a non essere sottratto al giudice naturale (Sez. 1,
n. 5725 del 20/12/2012, dep. 2013, Settepani, Rv. 254808; Sez. 2, n. 57927 del
20/11/2018, Bianco, Rv. 275519; vedi, Sez. U, n. 53390 del 26/10/2017, G., Rv.
271223, là dove nell’affermare che, ai fini della configurabilità della connessione
teleologica prevista dall’art. 12 c.p.p., lett. c), e della sua idoneità a determinare lo
spostamento della competenza per territorio, non è richiesto che vi sia identità fra gli
autori del reato-fine e quelli del reato-mezzo – ha marcato la differenza strutturale tra
detta ipotesi e quella di cui all’art. 12, lett. b), ribadendo che, in caso di connessione
per continuazione, è invece necessaria l’identità soggettiva dei participi ai reati
connessi).
Occorre inoltre tener conto che, ai fini della configurabilità della connessione
teleologica prevista dall’art. 12 c.p.p., lett. c), non è richiesto che vi sia identità fra gli
autori del reato fine e quelli del reato mezzo, ma resta ferma la necessità di
accertare che l’autore di quest’ultimo abbia avuto presente l’oggettiva finalizzazione
della sua condotta alla commissione o all’occultamento di un altro reato (Sez. U, n.
53390 del 26/10/2017, G., Rv. 271223), posto che, comunque, la connessione
teleologica rileva a fini di retrodatazione limitatamente ai casi di reati commessi per
eseguire gli altri.
Trattandosi di ordinanze cautelari emesse in procedimenti diversi per fatti in
ipotesi legati da connessione qualificata, il provvedimento impugnato deve ritenersi
affetto da analogo vizio anche sotto altro, autonomo profilo.
Esso evidenzia una motivazione solo apparente in ordine all’ulteriore presupposto
della invocata retrodatazione, rappresentato dalla desumibilità dagli atti del primo
procedimento, al momento del rinvio a giudizio, degli elementi per l’emissione della
seconda ordinanza cautelare (Sez. U, n. 14535 del 19/12/2006, Librato, Rv. 235909;
Sez. U, n. 21957 del 22/03/2005, Rahulia, Rv. 231058).
Sotto questo aspetto l’ordinanza in esame si limita ad una confusa e spesso
indistinta ricostruzione dello svolgimento dei due procedimenti, che non mette a
fuoco gli elementi indiziari acquisiti dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale
di Monza – al momento della trasmissione degli atti operata in favore della Procura
della Repubblica presso il Tribunale di Milano, avvenuta in data 14/2/2017, ovvero in
epoca successiva ma precedente il rinvio a giudizio del M., disposto nel primo
procedimento a suo carico l’11/2/2019 con rito abbreviato – in ordine ai periodici
acquisti di sostanze stupefacenti posti in essere nel periodo gennaio 2012-aprile
2017 dallo stesso M., in concorso con C.M., da R.L..
In particolare, l’ordinanza non chiarisce in alcun modo quali siano le ragioni per le
quali il Tribunale attribuisce rilevanza indiziaria, per questi ultimi fatti-reato, agli
elementi comunicati dalla polizia giudiziaria alla Procura della Repubblica di Monza
con la relazione di servizio del 13 febbraio 2017, né perchè quegli elementi, o
eventuali altri desumibili agli atti prima del rinvio a giudizio disposto nel primo
procedimento, fossero idonei a consentire a quel pubblico ministero un’unica
iniziativa cautelare nei confronti del M. per tutti i reati a lui contestati nei due
procedimenti a suo carico.
Dall’ordinanza impugnata, che al riguardo si connota dunque di illogicità manifesta, e
da quella genetica sembrerebbe al contrario potersi ricavare che i procedimenti n.
11478/16 e n. 13047/17 trasmessi il 14/2/2017 dalla Procura della Repubblica di
Monza a quella di Milano contenessero, a partire dalle dichiarazioni rese da Ca.An. e
dalla sua compagna, elementi assai parziali relativi ai rapporti tra M. e R.. Rapporti
che la stessa ordinanza impugnata sembra ritenere, all’epoca, ancora bisognosi di
approfondimenti investigativi, che interverranno nel procedimento milanese, senza
essere mai comunicati all’autorità giudiziaria di Monza, solo in epoca successiva
all’arresto di R.L. e a seguito delle dichiarazioni accusatorie da lui rese a carico di M.
e dei riscontri individualizzanti autonomamente raccolti a tale riguardo dalla Procura
della Repubblica di Milano.
Va a tal fine ribadito che, nelle situazioni cautelari riferibili a fatti oggetto di diversi
procedimenti pendenti dinanzi a diversa autorità giudiziaria tra i quali sussista una
connessione rilevante ai sensi dell’art. 297 c.p.p., comma 3, il divieto della cosiddetta
“contestazione a catena” trova applicazione a condizione che siano desumibili dagli
atti del primo procedimento, entro i limiti temporali previsti dal secondo periodo del
citato art. 297, comma 3, gli elementi apprezzabili come presupposti per l’emissione
dell’ordinanza cautelare i cui effetti sono da retrodatare (Sez. U, n. 21957 del
22/3/2005, Rahulia, Rv. 231058; Sez. U, n. 14535 del 19/12/2006, Librato, Rv.
235909). A tale riguardo, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 408 del 2005, ha
riferito testualmente la desumibilità al “fatto obiettivo (rispettoso, dunque, del canone
dell’eguaglianza e della ragionevolezza), dell’acquisizione di elementi idonei e
sufficienti per adottare i diversi provvedimenti cautelari”.
Non è pertanto sufficiente che, entro i limiti temporali di cui all’art. 297, primo ed al
secondo periodo comma 3 sia stata acquisita e risulti dagli atti la mera notizia del
fatto-reato oggetto della seconda ordinanza, essendo invece indispensabile che, sin
dall’epoca dell’emissione della prima ordinanza o comunque prima del rinvio a
giudizio disposto nel primo procedimento, sussista un quadro indiziario legittimante
l’adozione delle misure cautelari successivamente applicate allo stesso indagato,
essendo, quest’ultimo, soggetto all’onere di allegazione degli elementi dai quali
desumere l’applicabilità della retrodatazione da lui invocata (Sez. U, n. 9 del
25/06/1997, Atene, Rv. 208167).
In definitiva, pur graficamente presente, la motivazione del provvedimento in
esame circa la effettiva sussistenza dei presupposti della disposta retrodatazione si
sostanzia, dunque, in argomentazioni generiche, astratte e non riferite a ben
individuati elementi normativi, probatori e processuali. Essa non assolve in alcun
modo la sua necessaria funzione di illustrazione della decisione adottata, né in punto
di ritenuta esistenza di una connessione qualificata rilevante tra i procedimenti, né in
ordine alla effettiva desumibilità dagli atti del primo procedimento, al momento del
rinvio a giudizio, degli elementi per l’emissione della seconda ordinanza cautelare.
Si è dunque in presenza di un vizio della motivazione così radicale da rendere
l’apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento del tutto mancante e
privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e, come tale,
inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice (Sez. U, n.
25932 del 29/05/2008, Ivanov, Rv. 239692; Sez. U, n. 25933 del 29/05/2008,
Malgioglio, n. m. sul punto). Ciò configura la violazione della norma di cui all’art. 125
c.p.p., comma 3, che prescrive la motivazione delle sentenze e delle ordinanze a
pena di nullità e determina un vizio di legittimità del provvedimento, rilevabile d’ufficio
ai sensi dell’art. 609 c.p.p., comma 2, prima parte.
Alla luce di quanto fin qui esposto, si rende pertanto necessario l’annullamento
dell’ordinanza impugnata con rinvio degli atti al Tribunale di Milano affinchè, in
coerente applicazione dei principi di diritto dettati dalle richiamate decisioni di
legittimità e di quello sopra enunciato, proceda a nuovo esame sui punti e profili
critici segnalati, colmando nella piena autonomia dei relativi apprezzamenti di merito
la rilevata mancanza di motivazione.
Il giudice di rinvio dovrà pertanto dapprima verificare la sussistenza, tra i fatti-reato
oggetto delle due misure cautelari applicate al ricorrente, di uno, o più, dei casi di
connessione qualificata previsti all’art. 297 c.p.p., comma 3, escludendo l’invocata
retrodatazione ove i fatti non risultino connessi.
Nel caso tale verifica si concluda con esito positivo, il Tribunale dovrà quindi
accertare se – al momento della separazione dei procedimenti disposta dalla Procura
della Repubblica presso il Tribunale di Monza e della conseguente trasmissione dei
relativi atti alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano per
competenza territoriale, o comunque in momento antecedente al rinvio a giudizio
disposto nel procedimento pendente dinanzi all’autorità giudiziaria monzese –
fossero desumibili dagli atti di tale primo procedimento elementi idonei e sufficienti
per adottare l’ulteriore ordinanza cautelare emessa nei confronti dello stesso
ricorrente dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano. L’inesistenza
di tale presupposto escluderà l’operatività della retrodatazione (art. 297 c.p.p.,
comma 3, secondo periodo).
Effettuerà infine, ove ne sussistano i descritti presupposti, la retrodatazione dei
termini di durata massima della seconda misura cautelare, computando l’intera
durata della custodia cautelare subita da M.A. nei due procedimenti, anche se
relativa a fasi non omogenee.
P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia al Tribunale di Milano per nuovo esame.
Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94 disp. att. c.p.p.,
comma 1-ter.
Così deciso in Roma, il 28 maggio 2020.
Depositato in Cancelleria il 29 luglio 2020